1.
Il Senato ha, dunque, concesso l’autorizzazione a procedere nei confronti dell’ex ministro Salvini richiesta dal Tribunale di Catania per il reato di sequestro di persona dei migranti trattenuti a fine luglio scorso sulla nave Gregoretti. Depurata dai profili di pura tattica politica, come le oscillazioni sul voto dello stesso Salvini e del suo partito, la vicenda presenta un particolare interesse per il diverso esito rispetto a quello della nave Diciotti, a cui pure lo accomunano molte somiglianze, trattandosi sempre della decisione del Ministro dell’interno di vietare lo sbarco di migranti soccorsi in acque internazionali da navi della nostra Marina militare, costringendo gli stessi e i militari ad aspettare per giorni attraccati nei porti (vedi https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2019/08/03/punire-i-giudici-o-i-marinai/). Il diverso esito è stato determinato dal cambio di orientamento dei senatori del M5S.
2.
L’argomento che i senatori del M5S hanno ritenuto decisivo per giustificare il mutamento di opinione riguarda la circostanza che nel caso Gregoretti il Governo, e in particolare il Presidente del Consiglio, non avrebbero condiviso la decisione del Ministro dell’interno, che avrebbe agito in piena e rivendicata autonomia. È un punto risultato centrale nel dibattito in Senato, con i senatori della Lega, di FI e di FdI a fornire elementi da cui si sarebbe desunta la condivisione del divieto di sbarco da parte del Presidente Conte, e molti senatori del M5S a controbattere che la decisione di non far sbarcare i migranti era addebitabile soltanto a Salvini.
Questa impostazione del problema, peraltro, è sbagliata in radice. Se anche la condotta del Ministro dell’interno fosse stata condivisa dal Presidente del consiglio e da altri ministri, non per questo il Senato avrebbe dovuto negare l’autorizzazione a procedere. Se mai, il problema è quello della eventuale correità degli altri esponenti del governo, ma la decisione circa i soggetti da sottoporre a indagine spetta all’autorità giudiziaria, e non è sulla responsabilità di Conte o di altri ministri, ma su quella di Salvini, che il Senato doveva esprimersi.
Secondo quanto dispone la legge costituzionale del 1989 che regola la responsabilità penale dei ministri, l’unica ragione per cui il Parlamento può negare l’autorizzazione a procedere è il perseguimento da parte del Ministro di un «interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o di un preminente interesse pubblico». Se tale interesse non sussiste, il fatto che la condotta illecita del ministro sia condivisa da tutto il Governo può comportare il concorso degli altri componenti il Governo, ma non il proscioglimento del ministro che ha tenuto tale condotta.
Il punto decisivo sta quindi nel definire quale fosse, e se vi fosse, l’interesse pubblico che aveva giustificato il divieto di sbarco, e se tale interesse fosse di importanza tale da giustificare la privazione di libertà dei migranti disposta dal ministro. Nel caso Diciotti la relazione del Presidente della Giunta per le immunità, senatore Gasparri, approvata grazie ai voti del M5S, aveva in sostanza affermato che, per il diniego dell’autorizzazione a procedere, era sufficiente la dichiarazione del ministro di avere agito per la difesa dei confini e che il diritto alla libertà personale poteva essere sacrificato in vista delle tutela di tale interesse. Nel caso Gregoretti, invece, diversi senatori del M5S hanno sostenuto che le condizioni siano cambiate, sia perché in sede europea era stato raggiunto un accordo informale sulla redistribuzione dei migranti soccorsi (e dunque non sussistevano più le finalità di pressione sulle autorità europee che avevano giustificato il divieto di sbarco nel caso Diciotti) sia perché, come notato dallo stesso Tribunale di Catania, la nave Gregoretti era molto più piccola della Diciotti, e la condizione di sovraffollamento che si era venuta a creare su di essa aveva esposto i migranti, costretti a dormire per giorni sul ponte della nave, a gravi pericoli per la salute.
Non sono argomenti trascurabili, anche se la dissociazione da quanto affermato nel caso Diciotti avrebbe potuto essere molto più netta. In quell’occasione il Senato aveva affermato che, per tutelare un interesse pubblico, si può procedere al sequestro di persona, anche se la libertà personale è un diritto dichiarato inviolabile dall’art. 13 della Costituzione: la ragion di Stato prevale, cioè, sul rispetto dei diritti fondamentali (tranne – aveva concesso la relazione Gasparri – che su quello alla vita). Ora i senatori del M5S hanno affermato che nel caso Gregoretti è stata esposta a pericolo anche la salute dei migranti, e quindi l’interesse pubblico non può più essere ritenuto prevalente; ma non chiariscono se, qualora la nave fosse stata più grande e meno estreme le condizioni di disagio, l’illegittima privazione di libertà dei migranti sarebbe stata anche in questo caso soccombente.
Sul punto le relazioni di minoranza dei sen. Grasso e De Falco nel caso Diciotti erano state molto chiare. In esse si precisava che il meccanismo previsto per i reati dei ministri prevede che il Parlamento possa negare l’autorizzazione per fatti del ministro contrari alla legge quando essi sono stati compiuti per un prevalente interesse pubblico, ma in un sistema democratico ci sono dei limiti alla possibilità per il ministro di commettere dei reati invocando la ragion di Stato e tali limiti sono costituiti dai reati che offendono i diritti fondamentali della persona. Infatti – si continuava – la legge del 2007 che disciplina l’attività dei servizi segreti prevede che il Presidente del Consiglio possa, a tutela della sicurezza nazionale, autorizzare la commissione di reati da parte degli agenti dei servizi, ma per nessuna ragione possono essere autorizzati delitti che offendono i diritti della persona (tra cui, ovviamente, la libertà personale). Sarebbe stato logico – avevano sostenuto i due senatori nel dibattito sulla Diciotti – che tali limiti valessero anche per i reati commessi dai ministri, non vedendosi ragione per attribuire loro spazi di immunità superiori a quelli di cui dispone il Presidente del Consiglio a tutela della sicurezza nazionale.
Fissare i limiti che non possono in alcun caso essere superati dall’autorità politica è un tema cruciale per definire il volto del nostro sistema democratico, e proprio i casi Diciotti e Gregoretti mostrano come le opinioni siano spesso confuse, e comunque tra loro molto diverse. Fissare tali limiti – deve essere ben chiaro – non significa attribuire impropriamente alla magistratura un potere di controllo politico sulle decisioni del Governo, che spetta solo agli elettori. Nel nostro sistema costituzionale, che eleva la tutela dei diritti fondamentali della persona a fondamento dell’intero ordinamento giuridico, è impensabile che la maggioranza parlamentare possa autorizzare, anche per legittime finalità politiche, la violazione di diritti fondamentali della persona, perché ciò significherebbe sovvertire la stessa logica fondante il nostro sistema di valori. In ipotesi del genere, consentire alla magistratura di accertare le responsabilità penali delle violazioni non significa spogliare il Parlamento e il Governo delle loro attribuzioni, ma richiamarli al dovere di esercitare i loro poteri in modo conforme al quadro costituzionale. Nel caso Diciotti erano state approvate dalla maggioranza conclusioni molto pericolose per uno Stato di diritto, consentendo di privare della libertà le persone per scopi politici. Oggi l’autorizzazione viene concessa, ma ancora non è stata fatta chiarezza su dove si collochino i limiti invalicabili anche per il Presidente del Consiglio e per i ministri.
3.
I prossimi sviluppi della vicenda sono al momento incerti.
Ricevuta l’autorizzazione a procedere dal Senato, il Tribunale dei ministri deve trasmettere gli atti alla Procura di Catania, la quale – secondo un orientamento costante della giurisprudenza a partire da una sentenza della Corte costituzionale del 2002 – opererà secondo le vie ordinarie, chiedendo al Giudice per l’udienza preliminare l’archiviazione o il rinvio a giudizio del Ministro. Le cose si complicano perché la Procura di Catania aveva chiesto al Tribunale dei ministri, come nel caso Diciotti, l’archiviazione del procedimento, ritenendo che la condotta del Ministro non costituisse alcun reato, ed era stato il Tribunale dei ministri, di avviso contrario alla Procura, a chiedere l’autorizzazione. Ora, o la Procura cambia opinione, convenendo con le ragioni del Tribunale dei ministri, e chiede il rinvio a giudizio; oppure, se insiste nella richiesta di archiviazione, starà al GUP decidere se accoglierla oppure disporre con imputazione coatta il giudizio nei confronti del Ministro. In quest’ultima eventualità, ci si troverà nella situazione di un procedimento in cui a sostenere la pubblica accusa sarà un ufficio che in più occasioni ha espresso la propria valutazione circa l’infondatezza di tale accusa: una situazione non eccezionale nel nostro ordinamento (pensiamo al recente caso Cappato, in cui si era verificata la stessa situazione) ma che è sicuramente poco funzionale alla migliore conduzione del processo.
4.
Allargando lo sguardo a procedimenti analoghi, nelle prossime settimane il Senato dovrà decidere sulla richiesta di autorizzazione a procedere avanzata dal Tribunale dei ministri di Palermo sempre nei confronti di Salvini e sempre per sequestro di persona (e rifiuto di atti d’ufficio) per il caso del divieto di sbarco disposto nei confronti della nave Open Arms, nei giorni della crisi di governo agostana. Il caso è per alcuni aspetti importanti diverso dai precedenti (in particolare perché la nave era straniera e non italiana, e perché in questo caso il presidente Conte aveva esplicitato in maniera chiara la propria dissociazione dalla decisione del ministro), ma la sostanza dei problemi non cambia di molto e, stanti gli attuali equilibri parlamentari, è probabile che anche per Open Arms l’autorizzazione venga concessa.
Vedremo nei prossimi mesi quali saranno gli sviluppi delle azioni giudiziarie intraprese nei confronti di Salvini.
Se davvero si andrà a processo, davanti a un tribunale la difesa dell’ex-ministro, che ripete di avere agito per la difesa dei confini della nazione, sarà ben poco efficace. Questo argomento poteva valere per chiedere in Senato che venisse negata l’autorizzazione a procedere, ma nella fase successiva di fronte all’autorità giudiziaria è del tutto irrilevante. Ciò che i giudici dovranno accertare, infatti, è se la privazione di libertà cui sono stati sottoposti i migranti era conforme alla normativa interna e al diritto internazionale o se il divieto di sbarco era illegittimo. In quest’ultimo caso, poco importeranno le ragioni per cui il ministro l’ha disposto: una volta che il Parlamento ha concesso l’autorizzazione, i criteri per valutare l’operato dei ministri sono uguali a quelli che si usano per tutti gli indagati, e secondo i principi generali del diritto penale nessuna ragione politica può giustificare il compimento di un fatto antigiuridico.
Quando i giudici, ricevuta l’autorizzazione dal Parlamento, procedono a processare un ministro per un reato compiuto nell’esercizio delle sue funzioni, non stanno realizzando – conviene ripeterlo – un’invasione di campo, ma stanno svolgendo il proprio dovere istituzionale di richiamare anche i più altri vertici dello Stato al rispetto della legge, che non può essere violata per il perseguimento di pur legittime finalità politiche.
A prescindere da come si concluderà il processo nei confronti di Salvini (se un processo si farà), è dunque importante che non si diffonda nell’opinione pubblica l’idea pericolosissima – e da tante voci sostenuta in Senato – per cui la separazione dei poteri comporta che la magistratura debba astenersi dal giudicare ogni condotta dei ministri, anche se penalmente illecita, quando essa è compiuta per finalità politiche. Se così fosse, sarebbe la fine dello Stato di diritto, che trova nella tutela dei diritti fondamentali la sua ragione più profonda. Il fatto che un ministro vada a processo per azioni illegali compiute nell’esercizio delle sue funzioni serve quanto meno a chiarire anche per il futuro che la realizzazione di ogni programma politico deve svolgersi entro la cornice di principi e valori del nostro sistema costituzionale: un messaggio che, in questo momento storico, è quanto mai importante non dimenticare.
Condivido il ragionamento e le motivazioni addotte in questa disamina ben articolata e abbastanza esaustiva. La conclusione è perfettamente coerente col dettato della Costituzione, dal quale non è, assolutamente, possibile derogare .