Il 27 gennaio 1945 la prima avanguardia russa raggiunse, verso mezzogiorno, i cancelli di Auschwitz, il campo di concentramento e di sterminio che i tedeschi avevano abbandonato trascinando con sé circa 80.000 deportati nella marcia della morte verso Wodzislaw. Così, all’inizio della Tregua, Primo Levi descrive l’incontro con i soldati dell’Armata Rossa: «Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati a uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi».
Quei pochi vivi, che lì e in tanti altri campi e sottocampi, riuscirono a vedere il momento della liberazione e a sopravvivere – non dimentichiamo che una parte di quei pochi morì nei giorni successivi – hanno avuto il difficilissimo compito di testimoniare quanto era avvenuto dietro il filo spinato dei lager di cui i nazisti avevano cosparso il territorio europeo.
Da venti anni, nel nostro Paese – alcuni anni prima che l’Assemblea generale delle Nazioni Unite votasse un’apposita risoluzione – il 27 gennaio è divenuto il “Giorno della Memoria”. Una data che è frutto di una scelta compiuta non senza difficoltà. Furio Colombo, primo firmatario della proposta di legge, aveva inizialmente individuato il 16 ottobre, data della razzia nel ghetto di Roma; gli ex-deportati politici avrebbero preferito il 5 maggio, giorno della liberazione di Mauthausen. Si giunse poi, il 20 gennaio 2000, alla presentazione di una proposta di legge che stabiliva la data della liberazione di Auschwitz e fu votata dal Parlamento con emendamenti solo marginali. Il testo della legge non lascia dubbi sulla sua finalità: «ricordare la Shoah, le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, e a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati».
Quindi, la legge dispone che tutte le deportazioni – quella politica e quella militare sono, d’altronde, richiamate nel titolo stesso – devono essere ricordate in quel giorno. Tuttavia, è pur vero che la scelta del 27 gennaio ha certo contribuito a una focalizzazione sul tema della Shoah che ha nel campo di Auschwitz il suo tragico simbolo. Non si può, tuttavia, evitare di sottolineare, come fa giustamente Moni Ovadia, che spesso questa focalizzazione «non ha l’obiettivo prioritario di onorare le vittime ebraiche del male assoluto ma piuttosto quello di fare un uso strumentale di quell’abisso di orrore per ottenere effetti di condizionamento politico con scopi tutt’altro che limpidi». E – continua Ovadia – il parlare solo di Shoah il 27 gennaio rischia di trasformare «il giorno della memoria nel giorno dell’ipocrisia, della retorica e della falsa coscienza» e giunge a favorire, da parte di raggruppamenti reazionari, l’accusa di antisemitismo nei confronti di tutti coloro che si battono per il riconoscimento e la dignità del popolo palestinese.
La deriva segnalata da Ovadia è anche aiutata dal fatto che se ne stanno andando, uno dopo l’altro, i superstiti dell’immane tragedia, che in questi anni hanno portato, con sempre maggiore fatica e sofferenza, la loro testimonianza nella società e nella scuola, che la legge stessa prevede come luogo privilegiato per incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione.
Proprio dalla scuola e dai giovani può arrivare, però, lo stimolo per ripensare non il “Giorno della Memoria”, ma il modo in cui viverlo. I ragazzi vogliono sapere, vogliono discutere, vogliono farsi un’idea personale. Vogliono anche ricordare i “giusti”, come osserva Patrizio Gonnella. Occorre assecondare questa loro tendenza, rifuggendo dal suscitare facili emozioni, dal fornire notizie imprecise, dallo scegliere la facile strada della retorica banale e insistita, dal ricordare la tragedia rappresentata dal fascismo e dal nazismo un solo giorno dell’anno.
Possono avere un ruolo stabile e importante, a tale proposito, le Pietre d’inciampo, ideate da Gunter Demnig e poste, in tutta Europa, di fronte alle case che furono, per gli assassinati nei campi di concentramento, l’ultima dimora liberamente scelta, il luogo da cui, al momento della deportazione, furono brutalmente strappati. Una sorte atroce che per gli ebrei riguardò tutti: vecchi, bambini, ammalati gravi, a cui vennero spesso dati, come nel Ghetto di Roma, solo venti minuti per prepararsi e scendere in strada, abbandonando tutto quanto rappresentava sicurezza e protezione.
E, di fronte alle Pietre d’inciampo, non si può fare a meno di pensare che la sicurezza e la protezione rappresentate dall’abitazione sembrano essere messe in discussione da alcuni gesti compiuti recentemente e non solo da ignoti. Come ha scritto Rita Sanlorenzo, commentando sia la scritta “Juden hier”, comparsa sulla casa della partigiana Lidia Beccaria Rolfi, a Mondovì, sia l’interpello citofonico di Salvini al quartiere il Pilastro di Bologna: «Entrambi i gesti profanano il riparo che è dato dalla casa di abitazione, per definizione il luogo delle radici familiari, della custodia della sfera dei propri interessi e affetti, della tutela della propria dignità e della riservatezza».
Purtroppo, senza voler indulgere in facili allarmismi, le analogie con un passato, che, almeno a parole, tutte le forze politiche dichiarano di condannare, si stanno presentando con un’inquietante frequenza. «Meditate che questo è stato»: sono queste le parole che Primo Levi ha comandato a noi che viviamo sicuri nelle nostre tiepide case. Sono parole che il Giorno della Memoria fa ritornare con particolare forza alla mente. Per comprendere e valutare in ogni giorno dell’anno i rischi che corre la democrazia in presenza di un neo-razzismo che sta mettendo in discussione i diritti universali tutelati dalla nostra Costituzione.