Le elezioni regionali e gli astenuti: apatici o arrabbiati?

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I molti interventi pubblicati a commento del voto di domenica scorsa in Emilia Romagna e Calabria, con l’eccezione di quello di Tomaso Montanari, hanno per lo più trascurato il fenomeno del “non voto”.
Nel caso dell’Emilia Romagna si è potuto parlare di affluenza “eccezionale” alle urne solo perché il termine di paragone erano le regionali del 2014, quelle della prima elezione di Bonaccini, resa memorabile dal record negativo di affluenza del 37%. Oggi, nella “regione rossa” per eccellenza, è andato a votare il 67,3% degli aventi diritto: il secondo peggior risultato di sempre. In Calabria, dove la percentuale degli astenuti è in linea con quella delle precedenti regionali, la débâcle è sotto gli occhi di tutti. E finisce con l’assumere, paradossalmente, un risvolto rassicurante, perché ci consente di dire – con un certo sollievo! – che a scegliere una candidata secondo cui l’ISIS è “l’agenzia americana contro il terrorismo internazionale” non è stato il 55% dei calabresi, ma solo il 55% del 44% degli elettori che hanno effettivamente partecipato al voto… Rimane il fatto che il “partito del non voto” è, ancora una volta, il vero vincitore delle elezioni in Calabria e ha realizzato un più che dignitoso piazzamento anche in Emilia Romagna, posizionandosi a un’incollatura dal PD.
Comprendere i motivi di questo successo non è semplicissimo. Per molte ragioni, la prima delle quali è che il “partito del non voto” è tale solo metaforicamente, ma risulta in realtà dalla confluenza di molte e diverse motivazioni. I politologi che studiano il fenomeno ci dicono che bisogna distinguere per lo meno il “non voto” degli apatici da quello degli arrabbiati. Le astensioni frutto di stanchezza, ignoranza, disinteresse, da quelle che veicolano una forma di protesta e intendono “mandare un segnale” alla classe politica. In questo secondo caso, la contestazione può riguardare il passato o il presente, i partiti o le persone, le “regole del gioco” – spesso artatamente disegnate per precostituire il risultato – o l’offerta politica nel suo complesso.

Con riguardo a quest’ultimo aspetto, non si può dire che in Emilia Romagna gli elettori non avessero a disposizione un ampio e (almeno apparentemente) variegato ventaglio di opzioni tra cui scegliere. Abbondante era l’offerta di formazioni di destra ed estrema destra, nella coalizione capeggiata dalla Lega; molte anche le liste a sostegno di Bonaccini, da “Più Europa” alla lista “coraggiosa” della sinistra ambientalista di Elly Schlein. Senza contare i tre partiti “alla sinistra del PD”. Un menù di tale varietà – per lo meno sulla carta – avrebbe dovuto soddisfare i più diversi palati. Sul piano delle regole, oltretutto, la possibilità di ricorrere al voto disgiunto consentiva di tenere insieme – come è stato scritto su queste pagine – “la mente e il cuore”. Il voto utile a fermare la destra e quello identitario.
Come spiegare allora il fatto che quasi un terzo degli elettori emiliani e romagnoli ha disertato le urne? Non sembra, tra l’altro, che abbiano pesato particolarmente le convulsioni all’interno del M5stelle. La maggior parte dei grillini – ci racconta un’indagine dell’Istituto Cattaneo – ha infatti optato per Bonaccini o per altre liste. Chi si nasconde, allora, in quel 32% abbondante di astenuti?
Se si consultano i dati pubblicati sul sito del ministero degli Interni, si scopre che le tre province in cui ha vinto Borgonzoni (Piacenza, Parma, e Ferrara), sono anche quelle in cui l’affluenza alle urne è stata inferiore alla media regionale (rispettivamente: 62, 64 e 65%). Andando un po’ più a fondo, i piccoli comuni delle aree interne, in particolare montane, in cui ha vinto o stravinto la Borgonzoni (sulle cui condizioni di marginalità e disagio ha scritto Marco Revelli) si distinguono, con poche eccezioni, per la bassa o bassissima affluenza al voto. E se – volendo di nuovo vedere il bicchiere mezzo pieno – è un sollievo scoprire che la partita vinta da Salvini “73 a 23” a Bardi è stata in realtà giocata solo dal 35% dei 3.260 elettori del comune, e quella del “75 a 23” a Morfasso da meno del 33%, il quadro complessivo ci racconta ancora una volta del malessere di zone periferiche in cui il tanto decantato “buon governo” di Bonaccini non è arrivato e la protesta ha preso in parte la strada del voto a Salvini, in parte quella dell’astensione. Bonaccini vince invece, come sappiamo, nei comuni medio-grandi collocati lungo la via Emilia, dove l’affluenza è stata più alta, grazie anche all’“effetto sardine”.
Detto questo, e visto che un milione di astenuti in Emilia Romagna non sono pochi (se si tiene presente che ancora alle politiche del 2018 aveva partecipato al voto il 78% degli aventi diritto, e nel 2013 più dell’80%), bisognerebbe anche tornare ad affrontare il doloroso capitolo della frammentazione “alla sinistra del PD”: con tre liste fortemente identitarie – due delle quali (l’Altra Emilia Romagna, filiazione diretta dell’Altra Europa con Tsipras, e Potere al popolo) nate dichiaratamente per unire e aggregare le varie anime della sinistra anti-liberista – che sopravvivono oggi al loro fallimento, divenendo un oggettivo ostacolo alla ricostruzione di un campo politico che esiste ovunque in Europa e di cui anche in Italia si sentirebbe disperatamente il bisogno (vedi l’onesta e tormentata intervista rilasciata da Maurizio Acerbo su il manifesto del 31 gennaio).

In Calabria, il quadro era opposto. L’offerta politica era assolutamente deprimente e “desolante”, come l’ha qualificata Ida Dominjanni. Soprattutto – ça va sans dire – per chi cercava un’alternativa alla destra e si è trovato di fronte tre candidati dichiaratamente “né di destra né di sinistra”, uno dei quali, Pippo Callipo, uomo della Confindustria transitato attraverso varie esperienze politiche, Forza Italia compresa (https://www.internazionale.it/opinione/ida-dominijanni/2020/01/24/calabria-elezioni-regionali). La legge elettorale iper-maggioritaria, con soglia di sbarramento-capestro all’8%, e l’impossibilità di voto disgiunto hanno fatto il resto. Rendendo, effettivamente, piuttosto comprensibile la diserzione dal voto dell’elettorato calabrese. Che non mi sentirei proprio di attribuire a “pigrizia e insensibilità”, come fa un lettore in dialogo con Revelli.

Resta il problema di una forma di protesta – l’astensione – che non produce quasi mai gli effetti sperati di smuovere e spingere all’autocritica coloro contro cui si rivolge. Chi vince, per lo meno, si dimentica presto di essere stato scelto da un’esigua minoranza, come insegna proprio Bonaccini, eletto nel 2014 da circa il 18% (!) degli aventi diritto. Qualcuno dirà che, se è stato rieletto, è perché, nel corso del suo mandato, è stato in grado di rappresentare anche chi inizialmente non lo aveva votato. È una tesi che ricorda la teoria della “rappresentanza virtuale” formulata per la prima volta da Edmund Burke, ai tempi del suffragio censitario, secondo cui l’importante non è che tutti votino, ma che chi vince governi nell’interesse di tutti (anzi, del “bene comune”). Tale teoria è tornata in voga in relazione al problema del “deficit democratico” delle istituzioni europee (di cui nessuno parla più): l’output legitimacy (la legittimità derivante dai “buoni risultati”) dovrebbe servire a compensare la carenza di input legitimacy (la scarsa democraticità degli organi che effettivamente decidono nell’Unione).
Peccato che la bontà dei risultati sia sempre presunta, relativa, soggetta a contestazioni. E che, in assenza di rappresentanza nelle istituzioni, i “senza voce” prima o poi si facciano sentire, anche in modo scomposto e distruttivo, come è successo con i gilet gialli in Francia: un Paese in cui regna quasi incontrastato un signore il cui partito, insieme ai suoi alleati, ha ottenuto, nel 2017, il 60,66% dei seggi parlamentari a fronte del consenso effettivamente espresso dal 18,9% degli elettori, grazie a un’astensione record del 57,36% e di un 10% di schede bianche e nulle.  

Gli autori

Valentina Pazé

Valentina Pazé insegna Filosofia politica presso l’Università di Torino. Si occupa, in una prospettiva teorica e storica, di comunitarismo, multiculturalismo, teorie dei diritti e della democrazia. Tra le sue pubblicazioni: "In nome del popolo. Il potere democratico" (Laterza, 2011), "Cittadini senza politica. Politica senza cittadini" (Edizioni Gruppo Abele, 2016) e "Libertà in vendita. Il corpo fra scelta e mercato" (Bollati Boringieri, 2023).

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2 Comments on “Le elezioni regionali e gli astenuti: apatici o arrabbiati?”

  1. Non sono né un sociologo né un politologo, “a naso” credo però che l’astensione da delusione oggi prevalga largamente su quella per protesta. L’espressione “voto di protesta” fu coniata, se ben ricordo, nel 1972, quando una consistente frazione dell’elettorato democristiano abbandonò lo scudo crociato (da loro ritenuto troppo morbido nei confronti del “pericolo comunista”) a favore del MSI, che potè così installare alla Camera ben un centinaio di Deputati. Nel mezzo secolo da allora trascorso, però, i “segnali di protesta” non raccolti dai politici sono stati talmente numerosi e ripetuti che penso siano rimasti in pochi a credere che, non andando a votare, qualche politico possa “rinsavire”. Ritengo perciò che la grande maggioranza degli astenuti sia costituita da persone definitivamente deluse, come del resto il trend crescente dell’astensione negli ultimi decenni dimostra.

  2. Grazie Valentina per le tue riflessioni e le argomentazioni, mi aiutano a meglio comprendere chi mi sta intorno. Condivido l’amaro pensiero di Paolo Ghisleni.
    Letizia Pizzutto – ANPI – San Mauro Torinese

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