Nello scorso novembre ho fatto parte di una delegazione di tre italiani in rappresentanza di Carovane Migranti che ha partecipato in Messico alla XV Caravana de Madres de Migrantes Desaparecidos – #15 AnosDeResistencia: madri e familiari di persone del centro America scomparse lungo le rotte della migrazione verso gli USA che, accolti dal Movimento Migrantes Mesoamericanos alla frontiera tra Messico e Guatemala, percorrono ogni anno migliaia di chilometri fino alla frontiera tra Messico a Stati Uniti. Cercano indizi, espongono foto, tengono conferenze stampa per richiamare l’attenzione dei media, organizzano incontri per trovare qualsiasi segno dell’esistenza dei loro cari che, ad esempio, possono essere rimasti vittime del crimine organizzato o dello sfruttamento sessuale, oltre che di persecuzione politica.
In 15 anni ci sono stati più di 300 ricongiungimenti.
Di seguito alcune mie testimonianze stilate “a caldo”.
Domenica 17 novembre
Huxtla
Eccoci alla prima busqueda nel pueblo di Huxtla: sotto un sole battente, accompagnati dallo scandire degli slogan, madri, padri fratelli, figlie si accostano agli abitanti che si affacciano sulle porte delle loro modeste abitazioni, spingendo in avanti le foto che portano al collo. Quella che, soprattutto a noi “esterni” può sembrare un’impresa disperata si accende della passione e della speranza che emanano i loro sguardi. «Non siate indifferenti», gridiamo, «unete unete que tu hijo puede ser» e il mio cuore di madre non riesce a concepire che uno dei miei figli possa sparire nel nulla e mi chiedo cosa farei, mentre in punta di piedi mi accosto ai gruppetti che mostrano le foto di fronte alle porte cui si sono affacciati gli abitanti. Mi sembra di essere invadente, di violare quella ricerca di confidenza e condivisione: ma è proprio in quel momento che capisco la determinazione che arriva dall’amore. E poco dopo, durante il pranzo offerto dal gruppo parrocchiale, seduta a terra insieme alle madri, le lacrime e la tristezza, sempre in agguato nello sguardo di tutti, si sciolgono nel canto, con qualche risata per gli svarioni e le stonature: ma, suvvia, è pur sempre la quindicesima carovana e merita pur un coro ufficiale! E dunque eccoci qua con l’inno alla gioia che cerco di seguire con il mio spagnolo un po’ zoppicante. Ma un bel “la la la” aiuta quando mancano le parole: quel che conta è essere lì con loro e sentirmi, con rispetto e discrezione, parte di loro.
Martedì 19 novembre
San Cristobal de Las Casas
Siamo stati accolti nel Centro Fray Bartolomé dove, nel corso dell’incontro tra la delegazione italo-spagnola e la carovana mesoamericana, ho parlato del nostro movimento No TAV e delle connessioni che ci sono con le lotte per la giustizia e i diritti. Ho preso la parola con il timore che mi deriva dal non completo controllo della lingua spagnola: ma le madri sanno porsi in ascolto e riesco a descrivere quello che facciamo a Clavière/Oulx e a denunciare l’indignazione che proviamo nei confronti di un decreto legge che ci rende tutti criminali, colpevoli di complicità con la migrazione “clandestina”.
Prendo coraggio e, pur nel timore di non riuscire a esplicitare il legame che esiste, parlo del movimento No TAV e di come in 30 anni si sia maturata la coscienza che non si tratta solo di una lotta contro un treno ma di una lotta per un modello diverso di società. Una società in cui di certo la priorità non è fare viaggiare liberamente e in sicurezza le merci, bensì garantire agli esseri umani il diritto alla libera circolazione.
Una lotta perché i denari che vengono sperperati nei centri di detenzione vengano utilizzati per una vera accoglienza, una vera inclusione o per accompagnare in sicurezza il cammino dei migranti che vogliono raggiungere altri Paesi europei. E il messaggio della necessità di connettere tutte le battaglie, anche quella contro un progetto folle e inutile, per una società migliore e in difesa dei diritti umani arriva, viene accolto.
Complice anche un adesivo No TAV, che, prima di iniziare l’intervento, ho visto affisso su una porta del centro, arrivato fino a qua non si sa quando, non si sa come.
Mercoledì 20
Cotzacoalco (Stato di Vera Cruz)
«Hijo escucha tu madre esta en la lucha»: forse l’eco lontana di questo slogan ha convinto un ragazzo honduregno, detenuto, a lasciare il suo lavoro e a venire nel piazzale interno del carcere dove le madri hanno esposto le foto.
Siamo nel carcere di Cotzacoalco e i detenuti stanno sfilando davanti alle fotografie: si sente un grido «mi amor!» ed Ermelinda dell’Honduras si trova tra le braccia di suo figlio che cerca da sei anni. Anche i carcerati si uniscono all’applauso che scaturisce liberatorio.
Ora si aprono le strade della burocrazia giuridica (stanno parlando con un funzionario della commissione statale per i diritti umani), la strada verso il ritorno alla famiglia è ancora lunga ma lui è vivo!
Da questo momento traggono forza e speranza anche tutte le altre e tutti gli altri che finora non hanno ancora avuto la fortuna di vivere una gioia così intensa.
La percezione è che sul comprensibile dolore di non essere al loro posto vinca la solidarietà, la capacità di condividere, nella coscienza che solo dallo sforzo collettivo possono sbocciare altri momenti come questo.
Una madre abbraccia Ermelinda: «questo è il tuo ultimo pianto ‒ le dice ‒ noi continuiamo a piangere ma con speranza». In realtà i suoi occhi di madre continueranno a piangere finché non lo riavrà libero. Ma ciò che conta è che è vivo.
Giovedì 21
Amatlan. Sede de Las Patronas
25 anni fa una ragazzina di Amatlán era andata a comprare pane e latte ma tornò a casa solo con il latte perché aveva lanciato il pane ai migranti che dal treno che attraversa la città gridavano di aver fame. Da allora lei, sua madre e tre sorelle per sette anni, tra le critiche dei concittadini, andarono ogni giorno al bordo dei binari per lanciare cibo ai migranti.
Poi alcuni studenti che stavano facendo un reportage sulla migrazione dal centro America tramite quel treno, alla fermata successiva scesero e tornarono indietro per parlare con loro e diedero voce e diffusione alla loro azione. E arrivarono le donazioni di cibo, tanto da consentire loro di preparare ogni giorno centinaia di sacchetti con riso, fagioli, una scatoletta di tonno, pane, pan dulce e acqua. Hanno elaborato una precisa tecnica per far sì che i migranti possano afferrare il sacchetto dal treno in movimento: non possono lanciarli perché c’è il rischio di colpirli, e allora occorre avvicinarsi ma non troppo per non essere travolte dal treno e i migranti devono sporgersi ma non troppo per non cadere. E se hanno fortuna magari quel giorno è in servizio un macchinista che rallenta. Altri invece accelerano, ma Las Patronas sono lì e sono abili nel fare andare a buon fine la “consegna”.
Il treno non ha orari fissi: arriva l’annuncio da una donna che è di sentinella in Aguasblanca qualche chilometro prima e che, a occhio, conta più o meno quanti sacchetti servono; e nella casa de Las Patronas hanno da quel momento tre ore di tempo per prepararne almeno il doppio e si organizzano per consegnare ogni giorno decine e decine, quando non centinaia, di sacchetti.
La funzione, tipicamente materna di nutrire, ancora una volta cerca di garantire la sopravvivenza a quelli che considerano figli loro e di tutte.