2020 / Saranno i giudici a risolvere i problemi del Paese?

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Anche in questa fine d’anno la giustizia è al centro del dibattito politico e c’è chi pensa che possano essere i magistrati a risolvere i problemi del Paese. Lo pensano molti giudici e pubblici ministeri, a cominciare dal procuratore della Repubblica di Catanzaro che, nella conferenza stampa a corredo di un’ampia indagine di ’ndrangheta da lui coordinata, ha parlato di una «giornata importante e storica, non solo per la Calabria» svelando di essere finalmente riuscito a realizzare, almeno in parte, il suo progetto di «smontare la Calabria come un treno Lego e poi rimontarla piano piano» (https://volerelaluna.it/societa/2019/12/24/pubblici-ministeri-e-processi-mediatici/). Non fanno mistero di pensarlo, da sempre, un giornale come Il Fatto Quotidiano, il suo direttore e molti suoi editorialisti. E ci sono eventi che sembrano dar loro ragione, se è vero che la più grande crisi industriale del Paese, con connessa fuga di ArcelorMittal dall’ex Ilva di Taranto, è stata per ora arginata, in mancanza di un qualsivoglia progetto della politica, solo con la minaccia dell’intervento di procure e tribunali (https://volerelaluna.it/controcanto/2019/11/08/ilva-no-alla-licenza-di-uccidere/) e che la drammatica questione del fine vita, stante l’inerzia del legislatore, ha trovato, infine, una parziale risposta, solo grazie a giudici e Corte costituzionale (https://volerelaluna.it/societa/2019/12/09/il-diritto-di-morire-e-la-corte-costituzionale/). Ma, al di là delle apparenze, il problema è più complesso.

Che il sistema dei rapporti tra politica e giurisdizione sia profondamente cambiato negli anni è fuor di dubbio. Lo segnala uno dei più lucidi studiosi del diritto e delle istituzioni, Luigi Ferrajoli, secondo il quale

“in passato era la politica il luogo della trasformazione della società in senso progressivo. Era la legislazione che innovava il diritto vigente, costruendo lo Stato sociale e introducendo o rafforzando le garanzie dei diritti fondamentali. La giurisdizione, al contrario, aveva un ruolo conservatore, quando non apertamente reazionario. Oggi il rapporto tra diritto e politica, tra giurisdizione e legislazione, tra cultura giuridica e cultura politica si è paradossalmente ribaltato: mentre la giurisdizione, sostenuta da una cultura giuridica in gran parte informata ai principi costituzionali, svolge un ruolo di tutela dei diritti, la politica e la legislazione svolgono il ruolo opposto di aggressione e restrizione dei diritti, non attuando ma al contrario riducendo le loro garanzie primarie” (https://volerelaluna.it/cultura/2018/12/06/magistratura-democratica-e-il-rinnovamento-della-cultura-giuridica/).

Puntuale sul versante della politica, l’analisi non appare scontata su quello della giustizia. È certamente vero che negli ultimi decenni si sono consolidati orientamenti e prassi a tutela dei diritti fondamentali sia nella giurisdizione civile che in quella penale. Cito alla rinfusa: in tema di bioetica la giurisprudenza è stata (ed è) assai più avanti della politica; altrettanto accade in punto riconoscimento dei diritti civili delle (diverse) minoranze; la salute in fabbrica ha trovato tutela anche in sede penale e gli infortuni sul lavoro hanno cessato di essere considerati una “tragica fatalità”; gli abusi di polizia hanno visto, seppur in tempi lunghi e in modo parziale, reazioni giudiziarie più incisive dei balbettii del legislatore (incapace finanche di dettare una disciplina adeguata del reato di tortura); la repressione delle organizzazioni mafiose ha raggiunto livelli inediti per quantità e qualità; molti pubblici ministeri e giudici sono intervenuti (e intervengono) a tutela dei diritti dei migranti vincendo pressioni politiche e vere e proprie intimidazioni.

Ma non è tutto oro… Mi limito al settore penale. Primo. C’è sempre più nella giurisprudenza una torsione sicuritaria in senso opposto alla tutela dei diritti fondamentali. 50 anni fa, il 31 dicembre 1969, i detenuti erano 34.852 mentre oggi sono quasi il doppio (61.174). È un trend costante. Le presenze in carcere aumentano in maniera vertiginosa, solo arginate da provvedimenti tampone. E i numeri non dicono tutto. La crescita dei detenuti, infatti, è avvenuta (e avviene) parallelamente alla diminuzione del numero e della gravità dei reati denunciati e degli ingressi in carcere dalla libertà. A dimostrazione che la ragione della crescita sta negli orientamenti dei giudici e ha a che fare con una diffusa sottovalutazione culturale del valore della libertà personale. Secondo. La “questione legalità” ha assunto negli ultimi decenni una centralità etica e politica inedita a seguito del crollo dell’etica pubblica e della diffusione crescente della corruzione, della strumentalizzazione a fini privati di uffici pubblici, della mercificazione finanche della funzione legislativa, della prevaricazione mafiosa, dello sfruttamento del lavoro altrui, dell’evasione fiscale come metodo, della regola dei condoni, della pretesa di impunità per chi ha potere e di molto altro ancora. Tale centralità è, ovviamente, un fatto positivo: per fortuna che c’è stata, almeno, una reazione giudiziaria! Ma non sono mancati (e non mancano) gli effetti regressivi. Molti, infatti, sono gli strappi, soprattutto da quando si è ingenerata tra i magistrati la convinzione che le garanzie processuali sono dei trabocchetti e dei cedimenti a chi mal tollera il controllo di legalità. Ciò ha prodotto, talora, un interventismo senza freni in cui il doveroso esercizio dell’azione penale si è trasformato in panpenalismo controproducente, la cultura del risultato ha prevalso su quella della prova, il carattere personale della responsabilità penale è parso soccombere rispetto all’obiettivo di combattere fenomeni criminali (o ritenuti tali) e si è finanche arrivati a teorizzazioni del ruolo dei magistrati come garanti della legalità a prescindere dalle regole. Terzo. In questo contesto ha, poi, fatto irruzione un fenomeno devastante per il sistema dei diritti: il cosiddetto populismo penale (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2019/03/06/il-populismo-penale-nelleta-dei-populismi-politici/) che ha acuito il ricorso all’aumento delle pene a fronte di ogni (asserita) emergenza e ha alimentato l’insofferenza dell’opinione pubblica nei confronti delle regole e delle garanzie. Di qui la richiesta sociale diffusa – spesso fatta propria dai giudici – di punire alla svelta e in modo esemplare il nemico di turno che attenta alla presunta sicurezza della collettività.

Nel silenzio di molti (rotto quasi soltanto da critiche interessate e strumentali) c’è voluto, per richiamare l’attenzione, il monito del papa di Roma che, nel discorso ai partecipanti al XX Congresso mondiale dell’Associazione internazionale di diritto penale del 15 novembre 2019, ha detto parole esplicite e di inusitata durezza: «La sfida per ogni penalista è quella di contenere l’irrazionalità punitiva, che si manifesta, tra l’altro, in reclusioni di massa, affollamento e torture nelle prigioni, arbitrio e abusi delle forze di sicurezza, espansione dell’ambito della penalità, criminalizzazione della protesta sociale, abuso della reclusione preventiva e ripudio delle più elementari garanzie penali e processuali» (https://volerelaluna.it/materiali/2019/11/20/il-papa-e-la-giustizia-penale/).

L’intervento giudiziario è, dunque, multiforme. Per alcuni versi è veicolo di tutela e di promozione dei diritti, per altri mantiene il ruolo tradizionale di garanzia dello status quo e di repressione di ogni forma di dissenso. Irrealistico pensare che esso possa sostituirsi in modo strutturale e in chiave progressista alla politica, è forse possibile consolidarne il ruolo di effettiva tutela dei diritti fondamentali. Ma come? Il richiamo ai valori costituzionali e alla necessità di una loro applicazione rigorosa è, ovviamente, sacrosanto ma, da solo, è destinato a soccombere. Occorre un salto di qualità: l’apertura, nel mondo dei giuristi, di una fase nuova di ricerca del senso del diritto e di un ruolo consapevole nel sistema politico. E ciò esige una mobilitazione a sostegno dei fondamenti dell’ordinamento democratico, una rinnovata cultura dell’interpretazione, un controllo critico della comunità dei giuristi sulla giurisprudenza e sui provvedimenti giudiziari, il rinnovamento delle forme associative e delle aggregazioni dei giuristi (che superino il corporativismo imperante). In difetto il sogno di un rinnovamento della società affidato ai magistrati può trasformarsi in una delusione non piccola.

Gli autori

Livio Pepino

Livio Pepino, già magistrato e presidente di Magistratura democratica, dirige attualmente le Edizioni Gruppo Abele. Da tempo studia e cerca di sperimentare, pratiche di democrazia dal basso e in difesa dell’ambiente e della società dai guasti delle grandi opere. Ha scritto, tra l’altro, "Forti con i deboli" (Rizzoli, 2012), "Non solo un treno. La democrazia alla prova della Val Susa" (con Marco Revelli, Edizioni Gruppo Abele, 2012), "Prove di paura. Barbari, marginali, ribelli" (Edizioni Gruppo Abele, 2015) e "Il potere e la ribelle. Creonte o Antigone? Un dialogo" (con Nello Rossi, Edizioni Gruppo Abele, 2019).

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