Non è dall’alto che si può ripartire: ma dal basso delle associazioni, dei comitati spontanei di ogni tipo, dei centri sociali, dei preti di strada, delle scuole di periferia, del lavoro ben fatto di chi vive in comunione con la terra e con le cose. Dal basso delle lotte quotidiane, delle vertenze, delle “intelligenze contro” che accendono, nonostante tutto, il Paese. Scegliendosi i compagni tra i poveri, e «tra quelli che quotidianamente si occupano della loro salute e del loro cibo, del loro vivere e del loro abitare, che mettono in piedi mense popolari e occupano case, che insegnano le parole per esprimersi ai migranti e agli zingari, che cercano di costruire organizzazione fra i precari del lavoro cognitivo e fra i disperati della logistica» (Andrea Ranieri).
È dal fuoco di queste lotte che potrà prendere forma qualcosa che non sappiamo ancora immaginare. Uno dei massimi studiosi del precariato, l’inglese Guy Standing, ha notato che «stiamo già assistendo alla diffusione di forme complementari di battaglie associative nuove. Il modello ideale non esiste ancora. Si evolverà. Al momento non possiamo prevederne la natura e gli esiti. Ma il precariato deve necessariamente forgiare una nuova forza politica. E lo farà. Per questo, assai più utile che lavorare alla fondazione di un nuovo partito è oggi impegnarsi nella costruzione di un fronte unico del lavoro, capace di tenere dentro tutti i lavoratori: anche i più atipici e più precari, anche i volontari travestiti. Anche gli schiavi senza nome e senza dignità per cui lottava Soumayla Sacko, il sindacalista nero ucciso in Calabria il giorno della festa della Repubblica e della Costituzione, il 2 giugno 2018. A questa decisiva impresa dovrebbe collaborare un sindacato diverso da quelli di oggi. Un sindacato dei diritti: quello che immaginava Bruno Trentin, anche lui proveniente dalla resistenza di Giustizia e Libertà, che nel 1975 spiegava a Enrico Berlinguer che ciò che gli stava davvero a cuore, più della “presa del governo”, era la «costruzione di una nuova rete di potere democratico nel tessuto sociale del Paese». Più tardi, nel progetto della Coalizione Sociale che Maurizio Landini e Stefano Rodotà hanno animato, era giunta ancora una volta a maturazione questa consapevolezza: non per fare un nuovo partito, ma anzi per “fare sindacato” in modo così innovativo e radicale da costruire (in un tempo necessariamente non breve) un popolo dei diritti e della Costituzione, che potesse dare vita a una nuova sinistra.
È solo battendo strade come queste che si può evadere dalla stanza senza porta e senza finestre in cui il discorso pubblico italiano ha murato il futuro della sinistra politica: quella in cui, per esistere politicamente, bisogna fondare un partito, candidarsi alle elezioni e cercare di andare al governo. Messa in quei termini forzati, la sinistra che non c’è non ci sarà mai. Perché un partito, le elezioni, il governo sono le possibili conseguenze di una esistenza nella realtà: non ne sono il presupposto. E, più profondamente, perché «un partito occupato nella conquista o nella conservazione del potere governativo non può discernere in queste grida altro che rumore»: le grida di cui parla Simone Weil sono quelle di coloro a cui «viene fatto del male». Questo è il punto: coltivare, condividere, diffondere un senso della giustizia che non sia astratto, ma concreto. E cioè che non si arresti alle dichiarazioni di principio sulla persona umana, ma che le viva nei fatti di fronte a ogni essere umano in carne ed ossa: «Ecco un passante: ha lunghe braccia, occhi celesti, una mente attraversata da pensieri che ignoro, ma che forse sono mediocri. Ciò che per me è sacro non è né la sua persona né la persona umana che è in lui. È lui. Lui nella sua interezza. Braccia, occhi, pensieri, tutto». La sinistra “astratta” – quelle delle idee, quella della sacrosanta difesa della dignità della persona umana, quella della necessaria rappresentanza politica – non può esistere se non passando attraverso la sinistra concreta: quella di tutti i giorni. Quella che si prende cura di braccia, occhi, pensieri. Di ogni singolo, concreto, essere umano: tutto intero. Quella di un pensiero critico che si fa mutualismo, opponendosi allo stato delle cose con pensieri, parole e opere.
Si potrebbero citare infiniti nomi: la mia esperienza mi suggerisce esempi di esperienze e associazioni come l’Orchestra multietnica dei Quattro Canti a Palermo e Baobab, la Rete dei Numeri Pari e Grande Come una Città, Volere la luna e le Città in Comune. E come dimenticare le ONG, nazionali e internazionali, tanto odiate dall’estrema destra europea? Ognuno di noi ha il suo personalissimo canone delle tante altre associazioni e realtà, dei mille comitati per l’ambiente e il diritto alla cultura: la sinistra che c’è e che non vota, la sinistra che fa politica e che è senza rappresentanza politica. È un grande movimento “contro lo stato delle cose” e “per una società umana”: senza una organizzazione unitaria, senza capi e senza padroni. Un movimento la cui vocazione sta in due parole: «Insorgere, risorgere!». È il motto che Emilio Lussu dette a Giustizia e Libertà: insorgere per la libertà contro il fascismo, risorgere nella giustizia sociale.
Oggi abbiamo bisogno di risorgere da questa politica di morte, da questa economia che uccide: e la via per questa resurrezione è quella dell’insurrezione, per abbattere i potenti dai troni, per innalzare gli umili; per rimandare i ricchi a mani vuote, per saziare chi ha fame. Insorgere interiormente, contro ogni ingiustizia, in un cammino personale di pensiero e di amore: per poi insorgere pubblicamente, in una lotta collettiva.
Cambiare noi stessi, per vedere l’ingiustizia del mondo. E per combatterla, con le parole e con le opere. Perché «la giustizia consiste nel vigilare che non sia fatto del male agli uomini». Insorgere nell’impegno concreto di quella sinistra di tutti i giorni che non è solo l’unica sinistra che possiamo avere qui e subito. Ma è anche l’unica sinistra che il mondo lo cambia davvero: per abbattere i potenti dai troni, per rimandare i ricchi a mani vuote. Per risorgere, fuori e dentro di noi.