Qualche anno fa la Corte Costituzionale degli Stati Uniti si vide sottoporre un quesito apparentemente paradossale. Un cittadino chiedeva se fosse legittimo che in uno stato laico si facesse festa per una ricorrenza a carattere religioso come la nascita di Gesù Cristo, assolutamente confessionale. La risposta fu precisa: in realtà il Natale non è più da tempo una festa cristiana, meno che mai conserva un significato religioso. Quindi è ormai una festa civile.
Nella faticosa identificazione di una identità la problematica religiosa non è da poco. Non tanto dal punto di vista strettamente personale, sul cui piano si può avere il massimo della serenità sia nel professare una fede sia nel constatare di non averne affatto: quanto sul piano culturale e sociale, quindi politico. Perché la questione è propriamente questa: come valutare l’identità religiosa di chi ne professa una quasi totalmente scollegata dai contenuti oggettivi di quella stessa confessione? In altre parole, sto riflettendo sul dato dei molti cattolici che sono cristiani disattendendo clamorosamente il dettato evangelico. Cristiani senza Cristo, cattolici senza sapere cosa realmente ha detto Gesù.
La questione non è nuova. Da sempre i fedeli di una chiesa sono variamente giudicati dall’esterno per come mettono in pratica i valori che professano: giustamente si è molto critici verso chi si comporta con l’ipocrisia di chi dice ma non fa o fa all’opposto. Anche Gesù parla spesso di ipocrisia, definendola come uno dei pericoli peggiori corsi dalla coscienza umana. Già, la coscienza. Ci si continua ad appellare ad essa. Ma: cosa la forma? In riferimento a cosa? C’è modo di definirne i contenuti su di una base comune? Quel che si agisce in nome della propria identità religiosa può diventare normativo per tutti? E quando le proprie convinzioni sociopolitiche le si fanno scaturire direttamente dalla volontà divina, come ci si deve porre? Soprattutto quando, come si accennava, quel divino non somiglia per niente a quanto ci sembra di capire, come si può capire dove smascherare l’inganno, confutare chi spaccia il cattolicesimo come ideologia classista, razzista, maschilista, neoliberista?
Per un credente il riferimento diretto è ai contenuti della Rivelazione della propria confessione, espressi nel Testo sacro. E quando questo Testo non lo si conosce? Già don Lorenzo Milani parlava in Esperienze pastorali del fallimento di una Chiesa che ha avuto a disposizione gli strumenti della formazione di massa (scuola, mass media, istituzioni civili) senza riuscire veramente a formare, a far conoscere i contenuti autentici del cristianesimo. Forse perché si è provato a indottrinare per fare proselitismo, piuttosto che a dare alle persone strumenti formativi per la coscienza. Milani aveva compreso il radicale senso critico che spira dalla Scrittura: un cristianesimo che non forma ad esso, costruendo sulla libertà di ermeneutica, sconfessa se stesso perché non ha sufficiente fede nella Parola, nella sua capacità di indirizzare alla verità. Verità peraltro compresa, ma mai posseduta, nel contempo: il di più di Dio rispetto all’umano sta nell’intangibilità di una verità che non può essere proprietà assoluta di nessuno. Proprio perché è da Dio essa è comune a chiunque la voglia raggiungere, non la si possiede totalmente in questa dimensione dell’esistenza. Questa trascendenza della verità salva dal fondamentalismo e rimanda a una visione dell’umano che non consente suprematismo di sorta. La verità, afferma il vangelo di Giovanni, sta al centro del rapporto con la libertà e l’amore. E proprio queste tre dimensioni dell’essere fondano lo spirito critico.
Critici quindi verso ogni fenomeno umano, si deve tornare alla radice di ogni pensiero religioso attraverso una lettura (critica) dei testi sacri. E qui si capisce quel che teorizza, nel proprio ambito, la Corte Costituzionale degli Stati Uniti. Nella vicenda umana di Gesù Cristo c’è poco di quanto corrisponda al sentire dei più riguardo alla stagione natalizia. Che rapporto può sussistere tra la storia di un giovane maestro di pace, capace di insegnare con mansuetudine, ma pure con forza e passione, estremamente determinato contro le condizioni di cattività e di menomazione a cui sono sottoposti gli esseri umani e la sacralizzazione del potere economico, che distingue, discrimina e maledice la povertà? L’uomo nato e vissuto povero, partorito in una stalla e morto nudo della morte degli schiavi ribelli sulla croce, che ha a spartire con le ritualità dell’opulenza e gli indottrinamenti sul significato assoluto del lusso?
Gesù è stato capace di sfidare a più riprese i poteri teocratici che indirizzavano la cultura del suo paese e la sua tradizione religiosa, le autorità che reggevano le fila della morale collettiva anche non solo riguardo alla fede, ma pure sul piano sociale e politico. Nonostante il potere imperiale di Roma, l’autonomia etico religiosa del regno di Israele era reale. Non a caso daranno atto i romani a quel che stabilisce il Sinedrio riguardo all’esecuzione di Gesù. E l’impero stesso di lì a non molto si dovrà confrontare con il pensiero sovversivo dei suoi seguaci. Prima di imbrigliare questo pensiero decretandolo religione di stato.
Quel che di conformistico sta nelle sociologie odierne è decisamente sconfessato dall’insegnamento di chi trascorrerà l’esistenza a recuperare fuori dai recinti sacri, a vivere feste e banchetti con chi veniva considerato indegno del sacro, ad annunciare un divino tessuto di umano, ma non per questo meno trascendente. Gesù che senza usare violenza dà una schiaffo a mano aperta alla cultura della borghesia del suo tempo dichiarando che le prostitute e quei servi di Roma che erano i pubblicani (per questo insieme alle prime esclusi dal Tempio, decretati fuori casta dal perbenismo di sempre) passeranno avanti a scribi e farisei, le élites socio religiose del suo tempo, nel Regno che deve venire. Un Regno costruito su giustizia e misericordia, mai separate tra di loro: su tenerezza e forza, una forza che agisce con tenerezza e questa capace di resistere alla violenza del potere: su bellezza e fragilità, ed esse si illuminano a vicenda.
Nel biglietto di auguri della mia comunità cristiana, a Sant’Andrea in Percussina sulle colline del Chianti, dove Machiavelli scrisse Il Principe, ho riportato il racconto di Luca, con il messaggio riguardo alla nascita di Gesù che giunge ai pastori (2,8-12). «C’erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento, ma l’angelo disse loro: “Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore”». Ci ho voluto aggiungere un haiku, un componimento poetico di Jorge Luis Borges, nel tentativo, usuale per me, della possibile sintesi tra parola umana e parola divina: «Sopra il deserto avvengono le aurore. Qualcuno lo sa».
I pastori erano a loro volta fuori categoria, oggetto del disprezzo farisaico. In questa esclusione, il Dio incarnato si rivela. Se continuiamo a sapere e vivere questo, custodire e testimoniare tale consapevolezza, siamo araldi di futuro, consolatori non stucchevoli, fautori di gioia, contestatori di ogni status quo doloroso e iniquo.
Questo è Natale. Auguri, quindi.