Come muore il Ministero per i Beni Culturali

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Morire di riforme (senza mai verificarne i risultati): ecco il destino del Ministero per i Beni Culturali. Un corpo esangue, anzi ormai uno scheletro ambulante, che ogni nuovo (o vecchio-nuovo) ministro si diverte a vestire con un vestito nuovo, a favore di telecamere. Pochi giorni fa, dunque, ecco la “nuovissima” riforma Franceschini ter, che riforma la riforma Bonisoli, che riformava quella fatta dal Franceschini bis (Gentiloni) che autoriformava quella del Franceschini primo (Renzi), che stravolgeva quella di Massimo Bray. «Che al mercato mio padre comprò», verrebbe da celiare in questa eterna Fiera dell’est che è diventato il Collegio Romano: se la situazione non fosse tragica. Già, perché tra blocco del turn over, quota cento, promesse di concorsi non realizzati, ormai l’organico del Mibact è sotto di migliaia di unità: solo con circa 8000 assunzioni immediate e lo sblocco istantaneo del turn over si potrebbe ricominciare a lavorare. Lo si vede in periferia, dove gli archivi e le biblioteche e i musei non di cassetta chiudono sempre più a lungo, ma anche al centro. Come presidente del Comitato tecnico scientifico delle Belle Arti ho appena chiesto formalmente al Direttore generale di inviarci in tempo utile le pratiche da esaminare, e la risposta è stata che «il carico di lavoro è diventato insostenibile».

È colpa di un avverso destino, o è il risultato di una attenta strategia? La risposta va cercata nell’avvento di Matteo Renzi che affida il Collegio Romano a Franceschini. Il mandato è chiaro: Renzi aveva scritto che «soprintendente è la parola più brutta del vocabolario». Di lì a poco, in TV da Vespa, la Boschi e Salvini si dissero d’accordo nell’abolire le odiate soprintendenze. Tutta l’esperienza Franceschini va letta in questa ottica: stroncare la tutela sul territorio (ricordate lo “Sblocca Italia” e la riforma Madia?) e, contestualmente, spingere per la commercializzazione di ciò che rende. Presentando questa ennesima riforma, Franceschini ha dichiarato: «Abbiamo un patrimonio dati che nessun Paese al mondo ha, il cui valore culturale, ma si badi bene anche commerciale, è enorme e va gestito con intelligenza». Dunque ormai non si parla più di valore “economico”, ma direttamente “commerciale”: e d’altra parte gli infiniti apologeti di Franceschini tendono a dimenticare il provvedimento forse più devastante che egli ha approvato, la legge Marcucci (scritta direttamente dalle lobbies dei mercanti, insediatesi al Mibact) che equipara i beni culturali a merci, e permette di esportarli con una semplice autocertificazione di valore.

Ed è proprio qua il cuore del consenso così largo che Franceschini ha costruito nelle redazioni dei grandi giornali, e di conseguenza nell’opinione pubblica. Una sua recente intervista al Foglio lo ha definito, con suo esplicito consenso, «ministro sviluppista». Nel nostro ritardo culturale, solo ora estendiamo al patrimonio culturale il dogma dello “sviluppo”, uniformando all’obsoleto metro del PIL anche i metri che ne misurano il governo: i musei si giudicano per fatturato e ingressi, il comitato scientifico che veglia sui musei autonomi è intitolato all’“economia della cultura”. Così, proprio mentre i più avveduti sottopongono a critica radicale il concetto stesso di sviluppo, e mentre si arriva a comprendere che la stessa economia non può essere misurata solo in termini di produzione (PIL), stiamo applicando proprio quei criteri a ciò che invece può dare alla nostra stessa vita un “valore” che non è concepibile in termini di valore economico.

Coerentemente, in quest’ultima riforma non c’è il paesaggio, ancora una volta dimenticato e abbandonato. Se c’è un bene appetibile per lo sviluppismo italico, attardato su paradigmi di mezzo secolo fa, quello è proprio il nostro martoriato territorio, l’ambiente.

La strategia è fin troppo chiara: far dimenticare che al Mibact non spetta solo governare la bellezza, ma anche vegliare sul territorio e fermare cementificazione e speculazione edilizia. Per farlo, occorrerebbe mettere le soprintendenze in grado di funzionare, di “dire di no”: tutto il contrario di ciò che vuole Franceschini, lanciato a tutta forza verso la poltrona che Sergio Mattarella libererà nel 2022, e dunque determinato a “dire solo sì”. Tanto che le famose “soprintendenze uniche” (quelle miste), pensate per far contare la competenza (e dunque la capacità di tutela) sempre di meno, nemmeno in questa riforma vengono messe in grado di funzionare

Poi ci sono i conigli dal cilindro, pensati per far scattare l’applauso. La creazione di una Soprintendenza del Mare a Taranto, per esempio: città dove non solo non si riesce a governare la tragedia dell’Ilva, ma dove non funzionano (per inedia) le istituzioni culturali che già ci sono. O la creazione di un’ennesima direzione generale centrale (la storia è sempre quella: un corpo sempre più magro e macrocefalo), stavolta la Direzione generale per la salvaguardia del patrimonio: idea in sé giusta, ma con questi numeri solo propagandistica e inerte se non si ridisegnano i confini delle competenze con la Protezione Civile e gli Enti locali, che nelle ultime catastrofi hanno di fatto esautorato ciò che resta delle soprintendenze (la tragedia del patrimonio del cratere umbro-laziale-marchigiano è lì a dimostrarlo). O, ancora, la creazione di un’altra (!) direzione generale, questa volta per la Digitalizzazione del patrimonio: diversa a quella per l’Educazione e ricerca, si badi. Un doppione assurdo: o forse la palmare dichiarazione del fatto che la digitalizzazione viene intesa in senso puramente commerciale, e dunque nulla a che fare con educazione e ricerca, pur estendendo il suo dominio sulle grandi Biblioteche nazionali, viste ormai come inerti depositi di immagini e testi da buttare sul mercato globale.

Il vero fine, naturalmente, è l’ennesima accelerazione sui musei autonomi (che follemente includono ora lo scatolone del Vittoriano), in una balcanizzazione del patrimonio che condurrà – se il governo regge – alla loro trasformazione in fondazioni di diritto privato. D’altra parte, Alberto Bonisoli assicurava che, al suo arrivo, si era già ad un passo dall’andare dal notaio per far partire questa esiziale “autonomia differenziata” e privatizzazione del nostro patrimonio.

Ma come sempre ­­– se togliamo le critiche della Cgil, di Emergenza Cultura e dei precari di “Mi riconosci?” – per Franceschini si leva solo un coro di elogi. La sua linea mette d’accordo Renzi e Salvini (non ci vuol molto, del resto), e ora che è diventato il perno del governo Conte bis, anche il mondo 5 Stelle o plaude o tace. Tuttavia, come diceva Gian Lorenzo Bernini, il tempo scopre la verità. Anche se spesso non la scopre in tempo.

Gli autori

Tomaso Montanari

Tomaso Montanari insegna Storia dell’arte moderna all’Università per stranieri di Siena. Prende parte al discorso pubblico sulla democrazia e i beni comuni e, nell’estate 2017, ha promosso, con Anna Falcone l’esperienza di Alleanza popolare (o del “Brancaccio”, dal nome del teatro in cui si è svolta l’assemblea costitutiva). Collabora con numerosi quotidiani e riviste. Tra i suoi ultimi libri Privati del patrimonio (Einaudi, 2015), La libertà di Bernini. La sovranità dell’artista e le regole del potere (Einaudi, 2016), Cassandra muta. Intellettuali e potere nell’Italia senza verità (Edizioni Gruppo Abele, 2017) e Contro le mostre (con Vincenzo Trione, Einaudi, 2017)

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3 Comments on “Come muore il Ministero per i Beni Culturali”

  1. Montanari rappresenta la coscienza civica e culturale dell’Italia divenuta muta davanti allo scempio dell’arte e del territorio, Uno storico dell’arte serio e profondo, lontanissimo dalla barbarie e dagli eccessi del presenzialista onnipresente. Della stirpe dei Paolucci e degli Strinati, uomini colti e garbati. Una speranza è una luce da coltivare

  2. Leggo spesso di uno sviluppo culturale arretrato rispetto ad altri paesi. Certo, di sicuro è cosi! Ma il vero problema è il controllo sui tanti fondi stanziati per recuperare siti di notevole importanza o addirittura siti minori. In Campania, ed in particolare nei Campi Flegrei, molti sono i fondi stanziati, molti i progetti, ma puntualmente i lavori partono, finiscono, ma mai che un controllore vigili su quello che è stato fatto e se è stato farto ad opera d’arte. Un esempio lampante è il Museo Archeologico dei Campi Flegrei. Qui sono conservati notevoli tesori dell’archeologia, in particolare sale integre dell’epoca romana come il Ninfeo Imperiale Sommerso di Baia e il Sacello degli Augustali di Miseno. Ebbene queste due sale, punte di diamante dello stesso museo subito dopo poco tempo sono state chiuse non si sa per quale motivo e mai più riaperte. Qualche voce dice che ci sono problemi di sicurezza per il pubblico. Problemi di sicurezza?… Ma come è possibile? Le sale sono state recuperate con ingenti quantità di fondi…e allora viene spontanea la domanda del come tutto ciò accada …e ancora io dico, chi controlla il controllore?….è possibile che centinaia e centinaia di euro vengono spesi e spesi male? Dite a Franceschini che Cristo di è fermato ad Eboli…..ma nei Campi Flegrei lui non è mai arrivato….nonostante sono state presentate due interrogazioni parlamentari seguite da risposte veramente deludenti!

  3. Che la visione degli attuali signori del Mibact, Franceschini in testa, sia improntata a principi venali e mercenari è pacifico. È, però, altrettanto vero che le soprintendenze siano diventate delle satrapie detestabili.
    Spieghi Montanari come abbia potuto la competente soprintendenza rilasciare “A SANATORIA” il parere per il vincolo paesaggistico, per la realizzazione di un must ad uso scolastico, a Penne (Pe). La legge non lo consentiva (art. 146, comma 4, d.lgs  22 gennaio 2004, n. 42). Anzi, l’art.181, della stessa legge, in caso di opere eseguite in assenza di autorizzazione o in difformità da essa, prevede addirittura (esagerando un po’) “la pena […] della reclusione da uno a quattro anni qualora i lavori […] abbiano comportato […] una nuova costruzione con una volumetria superiore ai mille metri cubi”! Nulla è accaduto.

    Sempre a Penne (cittadina storica che combatté scontro l’antica Roma…) in occasione di un recente intervento di restauro conservativo su una delle porte di accesso al centro storico, la soprintendenza ne ha combinata un’altra delle sue. Alle polemiche seguite all’intonacatura della porta, il direttore dei lavori, non responsabile di simile scelta, ha chiarito, in un’intervista, che «il progetto di restauro […]  prevedeva di lasciare sulla parete di proprietà comunale che dà sulla piazzetta i mattoni a vista anche se l’intonaco in alcune parti era presente. La Soprintendenza ha però prescritto di intonacare la parete che affaccia sulla piazzetta proprio per rispettare il luogo che si presentava già intonacato». Un barbaro e deprecabile caso di “reductio ad absurdum” (“…SI PRESENTAVA GIÀ INTONACATO…”!!!).
    Ammesso che esistano, sarebbe interessante leggere, con maggiore dovizia di particolari storico-tecnici, meno sbrigativi di quelli riferiti, le (profonde?) motivazioni con cui la “soprintendenza” ha ritenuto di prescrivere l’uso dell’intonaco tinteggiato a ridosso di una porta (difensiva) storica di origine medievale!

    Personalmente, ritengo che, per i nostri beni culturali, architettonici e paesaggistici, siano un danno tanto i Franceschini di turno quanto siffatte soprintendenze!

    Absit iniura verbis

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