Dopo mezzo secolo, a ricordare la strage che cambiò l’Italia (cfr. E. Deaglio, La bomba. Cinquant’anni di piazza Fontana, Feltrinelli, 1969), Milano ha vissuto una giornata importante. Prima, intorno alla fontana che dà il nome alla piazza sono comparsi piccoli segni, 17 pietre di inciampo con i nomi dei 17 morti nella banca; una quercia rossa è stata messa a dimora dal sindaco Beppe Sala, nel quartiere San Siro, davanti alla casa dove abitò Pino Pinelli; una grande lapide ora è ben visibile nel quartiere Ticinese, davanti al circolo Scaldasole dove Pinelli fu fermato, due ore dopo la strage, per un “normale controllo”, che durò abusivamente per tre giorni e mezzo e si concluse con il suo corpo che cadde dal quarto piano della Questura. E il sindaco Sala, davanti alle figlie, per questo «ha chiesto scusa e perdono», a nome della città di Milano. In un’altra occasione, davanti al consiglio comunale, per Pinelli e Valpreda ha parlato di «persecuzione». È toccato poi al presidente della Repubblica Sergio Mattarella (il primo presidente della Repubblica che si reca a Milano per la strage di piazza Fontana – all’epoca dei fatti, il presidente Giuseppe Saragat invece non presenziò neppure ai funerali) parlare di «depistaggi compiuti dallo Stato e quindi doppiamente gravi» e di una verità ancora da trovare.
È dunque stata una giornata “di svolta”, dopo quarantanove anni di commemorazioni stanche, ambigue, fumose e incomprensibili, di volta in volta seguendo le umiliazioni che la giustizia continuava ad abbattere sui ricercatori di verità, umiliazioni fatte di menzogne, assoluzioni, ricusazioni, diffamazioni, amnesie, reticenze, tutte praticate con tracotanza.
A suggello del raggiungimento di una nuova verità ufficiale, una piccola lapide in bronzo in piazza Fontana ricorda il luogo in cui venne compiuta la strage «ad opera del gruppo terroristico di estrema destra Ordine Nuovo». Da questo vorrei partire, perché l’effetto che fa questa “rivelazione”, lascia piuttosto perplessi, per il troppo e il troppo poco. Troppo perché si parla di un’organizzazione sconosciuta ai più, operante nella seconda metà del secolo scorso, sulla cui responsabilità collettiva a dire il vero la giustizia non può vantare nessuna condanna; troppo poco, perché la strage non fu opera solo di quel gruppo, o di alcuni personaggi di quel gruppo, ma avvenne con il concorso attivo di istituzioni dello Stato italiano.
La piccola lapide di inciampo, ieri era circondata di fiori e proprio dove il bronzo finisce con le lettere Ordine Nuovo, qualcuno ha aggiunto, su un pezzo di carta tenuto fermo da due piccole pietre, le parole «e dallo Stato, Ufficio Affari Riservati». Chissà quanto durerà quel pezzo di carta…
Forse poco, ma in effetti quelle poche parole raccontavano un’altra parte di verità. Per cui potremmo così riassumere: militanti della sezione veneta del gruppo Ordine Nuovo, il gruppo – io direi, piuttosto che “di estrema destra”: “nazifascista” – preparò, trasporto e collocò la bomba, di concerto con l’Ufficio Affari Riservati, servizio di polizia apicale operante al ministero degli Interni e dotato di un notevole potere sulla struttura territoriale della polizia italiana. Questo Ufficio (o meglio: Divisione) era una diretta filiazione di un’analoga struttura fondata negli anni Trenta dal fascismo per la repressione delle opposizioni e del dissenso, sopravvissuta nei suoi metodi, nei sui archivi, e addirittura nei suoi dirigenti, al ritorno della democrazia in Italia. Sono ormai provati i rapporti stretti tra il gruppo di Ordine Nuovo e quell’Ufficio, rapporti di business partenariato che coinvolgevano la presenza di agenti a doppio servizio, l’uso comune di logisitica, di appoggio bancari e soprattutto la gestione di depositi di armi e munizioni.
Le inchieste giornalistiche, prima ancora che giudiziarie, hanno ormai assodato che gli Affari Riservati erano informati in largo anticipo delle attività terroristiche di Freda, Ventura, Maggi e Zorzi, i principali esecutori delle stragi (bombe in una scuola slovena a Trieste, bombe del 25 aprile, bombe sui treni dell’agosto, bombe del 12 dicembre) e che 14 dei loro “top agents” si precipitarono da Roma a Milano per gestire lo scoppio della bomba e furono i responsabili in particolare dell’organizzazione del depistaggio sugli anarchici e della “persecuzione”, come ora è stata chiamata dal sindaco di Milano, degli anarchici Pinelli e Valpreda. In questa azione godettero del supporto attivo dei vertici della Questura di Milano dell’epoca.
Tutta questa macchina organizzativa è dietro alle stragi del 12 dicembre, alla quale bisognerà aggiungere la collaborazione, non si sa ancora quanto passiva o quanto entusiasta, della Procura di Milano dell’epoca, che si consegnò mani e piedi ai voleri dell’Ufficio Affari Riservati, dando veste giuridica a quello che fu, a tutti gli effetti, un disegno golpista – parole del presidente Mattarella – teso a far finire la giovane democrazia italiana.
Questa ricostruzione dei fatti – che finora nessuna istituzione della magistratura ha mai tentato, e non si capisce perché, essendo copiose le notizie di reato che si sono accumulate nei decenni – dà un senso nuovo, a mio parere, alla parola “depistaggio”. Si tratta, piuttosto, di “concorso” – concorso in strage, in questo caso reato che non va in prescrizione – o più genericamente di “complicità” o “favoreggiamento”.
Queste sono alcuni pensieri che mi sono venuti osservando i luoghi e ascoltando i discorsi a distanza di mezzo secolo da piazza Fontana e rendendomi conto di quanto quell’evento sia rimasto così tragicamente moderno. Mi è venuto in mente anche che il tempo che passa non deve spaventare; piuttosto il passare del tempo rende più chiaro quello che avvenne nel passato. Una volta chiesero al ministro degli esteri cinese Ciu En Lai, che giudizio dava della rivoluzione francese, e lui rispose: «è un po’ troppo presto per dirlo». Ricordo che la riabilitazione ufficiale del capitano Alfred Dreyfus, il capro espiatorio che cambiò la Francia di fine Ottocento, avvenne solo nell’anno 2002, da parte del presidente della Repubblica francese Jacques Chirac, nel grande piazzale des Ivalides, dove Dreyfus era stato pubblicamente e barbaramente degradato.
E ancora allora, qualcuno nelle alte gerarchie dell’esercito, storse la bocca.