Quello per la morte di Giuseppe Pinelli fu un processo di grande delicatezza, anche per le sue implicazioni politiche. Lo seguii dall’inizio per conto della vedova e delle figlie, allora bambine. Pinelli era morto, tre giorni dopo la strage di piazza Fontana, precipitando da una finestra della Questura dove era stato illegittimamente trattenuto e interrogato. Le prime indagini si conclusero rapidamente con un decreto di archiviazione: furono indagini frettolose e lacunose. C’era una gran fretta di chiudere la vicenda perché, sul versante istituzionale, tornava comodo a molti sostenere che si era trattato di un suicidio, sia per confermare la matrice anarchica della strage e la responsabilità di Pietro Valpreda (allora in carcere) sia per salvaguardare l’operato della polizia. II Questore di Milano – dopo la morte di Pinelli – se ne uscì con una frase diventata famosa: «Apprezzavo molto Pinelli. Era un cavaliere dell’ideale e quando gli abbiamo detto che Valpreda aveva confessato, ha gridato: “per l’anarchia è finita” e si è buttato dalla finestra». Una cosa davvero vergognosa. Ma in quel contesto anche una parte della magistratura non colse la gravità dell’accaduto, tant’è che le indagini si conclusero rapidamente.
A quel punto la vedova Pinelli, consigliata dagli amici che la sostenevano, si rivolse a me e ad alcuni altri avvocati per ottenere la riapertura dell’istruttoria e per costituirsi nel processo come parte civile. Decidemmo di rivolgerci alla Procura generale di Milano, retta da un magistrato di grandissimo prestigio, Luigi Bianchi d’Espinosa, noto negli ambienti culturali e politici come democratico, liberale e grande giurista. La vedova Pinelli presentò una denuncia per omicidio nei confronti degli agenti e dei funzionari presenti nella stanza della Questura durante l’interrogatorio del marito, o vicini, come il commissario Luigi Calabresi. Accadde allora una cosa grave e anomala: il difensore degli imputati mi denunciò per calunnia. La cosa era insidiosa e mirava a bloccare il processo. Peraltro, la vedova Pinelli – sentita dai magistrati – si assunse la responsabilità diretta del contenuto della denuncia, dichiarando che io mi ero limitato a fornirle consigli sul piano strettamente giuridico e confermando in pieno la sua volontà che i colpevoli fossero puniti. Ciononostante, rimasi, per ben due anni, nel processo come imputato, prima di uscirne totalmente prosciolto.
Il clima fuori dall’aula del tribunale era molto pesante. La vicenda di questo anarchico caduto da una finestra della Questura suscitò subito interesse, passioni e aspre polemiche. Camilla Cederna, giornalista e inviata de L’Espresso, fu tra i primi, insieme a Corrado Stajano, ad accorrere in Questura quando si diffuse la notizia della morte di Pinelli. Da allora, pur essendosi fino a quel giorno occupata di tutt’altro, si impegnò in prima persona, promosse e partecipò a eventi su quel tema di grande risonanza. Ci furono tantissimi dibattiti pubblici, ci fu lo spettacolo teatrale di Diario Fo, si impegnò gran parte del mondo della cultura: una parte della stampa capì, infine, che bisognava fare chiarezza.
Titolare del processo era nel frattempo diventato il giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio. Su nostra richiesta venne disposta la riesumazione del cadavere di Pinelli ma, purtroppo, era ormai passato troppo tempo e non fu possibile acquisire elementi utili a chiarire la dinamica dei fatti. Si fecero anche molte prove per stabilire, in base alla traiettoria della caduta, se questa fosse propria di un corpo inerte oppure se si potesse ipotizzare una spinta. Purtroppo gli esperimenti non produssero risultati significativi, anche perché poco sotto la finestra c’era un cornicione e ciò rendeva possibile che il corpo di Pinelli non fosse caduto direttamente al suolo ma fosse rimbalzato dopo averlo urtato. Un esperto consulente costruì – su nostra richiesta – un manichino del peso e delle dimensioni di Pinelli, che fu gettato dalla finestra e rimbalzò sul cornicione prima di precipitare al suolo, rendendo impossibile una conclusione tecnicamente valida. Si fecero anche delle simulazioni con un tuffatore che cadeva da un trampolino in una piscina. Si compirono, cioè in questa seconda fase, molti sforzi per giungere alla verità, ma non ci si riuscì e il processo si concluse con un proscioglimento generale.
Ma questo non fu l’unico processo innescato dalla morte di Pinelli.
Parallelamente si celebrò il cosiddetto processo Calabresi, conseguente alla querela proposta dal commissario nei confronti del giornale Lotta Continua che lo accusava di essere responsabile della morte di Pinelli. In quel dibattimento, molto animato, accadde di tutto. Quando sembrava che il Tribunale stesse per disporre nuovi accertamenti sul ruolo di coloro che erano presenti in Questura la notte della morte dell’anarchico, il difensore di Calabresi – quello stesso che mi aveva denunciato per calunnia – ricusò il presidente, che era, tra l’altro, un suo amico, per delle presunte anticipazioni del giudizio. Quest’ultimo decise di astenersi e il processo finì poi nel nulla perché nel 1972, come è noto, il commissario Calabresi venne ucciso in un agguato. Ci fu anche un processo civile, promosso dalla vedova Pinelli, assistita da me, per ottenere un risarcimento dallo Stato, trattandosi di una vicenda verificatasi in una sede pubblica, mentre Pinelli era illegalmente fermato. Nonostante l’evidenza e la semplicità della richiesta, il Tribunale la respinse e condannò Licia Pinelli perfino al pagamento delle spese processuali. No comment! […]
Il commento a quanto accaduto non può che essere amaro. La vicenda, mescolando fatti politici e giudiziari, ha dimostrato il comportamento di alcuni settori dello Stato, che falsarono e occultarono elementi essenziali. La cosa vale per la morte di Pinelli e per la strage di piazza Fontana il cui processo, come noto, venne sottratto dalla Corte di cassazione a Milano: non solo senza ragioni convincenti, ma trasferendolo addirittura a Catanzaro, cioè a mille chilometri di distanza, rendendo quasi impossibile una compiuta ricostruzione dei fatti e delle responsabilità. Quanto alla vicenda giudiziaria di Giuseppe Pinelli, resta l’amarezza non solo perché non è accettabile che un uomo muoia in Questura e non si riesca ad accertare la verità, ma anche perché ci sono voluti tanti anni per ottenerne la riabilitazione. Pinelli, infatti, è stato considerato sospetto ancora per molti anni e solo nell’ottobre 1975 la sentenza del giudice D’Ambrosio, che pure proscioglieva Calabresi e gli altri imputati, ha sancito la sua totale estraneità alla strage di piazza Fontana e, dunque, la mancanza di ogni ragione per essere fermato e per arrivare al preteso suicidio.
Il brano è tratto da “Con la Costituzione nel cuore”
(conversazione con F. Campobello, Edizioni Gruppo Abele, 2018)