Cucchi, ovvero dell’indifferenza

image_pdfimage_print

I familiari hanno calcolato che Stefano Cucchi incontrò circa 140 persone nel suo calvario seguito all’arresto e concluso con la morte, fra caserme, celle di sicurezza, infermerie, camere d’ospedale, tribunali, mezzi di trasporto. Nessuno lo soccorse, nessuno si allarmò per le sue condizioni, per quanto i segni delle violenze e delle sofferenze fossero ben visibili. 

Dieci anni dopo due carabinieri sono stati condannati in primo grado per le violenze fisiche che furono all’origine del decesso, altri due per i falsi in atto pubblico che accompagnarono e seguirono l’arresto. La verità giudiziaria sembra finalmente allinearsi alla verità storica, ma i dubbi suscitati dal percorso di Stefano, la sua solitudine, l’abbandono che dovette subire, restano intatti, senza risposta. Com’è possibile che un cittadino in stato d’arresto, sofferente, segnato dalla violenza, sia trattato con tanta indifferenza, con tanto disprezzo?

Il caso Cucchi è angosciante e al tempo stesso esemplare per tre precisi motivi: il poco valore attribuito alla vita di Stefano da chi lo picchiò e poi abbandonò; l’attitudine alla menzogna mostrata a più riprese da appartenenti all’Arma dei carabinieri, fino a livelli gerarchici molto alti (a dicembre comincerà un  processo per i depistaggi); il fatto che la famiglia sia stata costretta ‒ e con che coraggio, con che costanza ‒ a sostituirsi alle istituzioni nella ricerca di verità e giustizia.

Il secondo processo Cucchi è stato quasi un miracolo, dopo le menzogne e i depistaggi durati per anni e così gravi da indurre a un grave errore la magistratura, che nel primo processo ha portato alla sbarra le persone sbagliate. Si è arrivati al secondo processo grazie ai familiari, alla tenacia di alcuni magistrati e alla defezione di due carabinieri, che hanno rotto la consegna dell’omertà e indirizzato le indagini sulla pista giusta: il pestaggio avvenuto la sera stessa dell’arresto, i falsi costruiti a tavolino grazie a una fitta rete di complicità. Alla fine la stessa Arma dei carabinieri si è costituita parte civile, considerandosi vittima di alcuni suoi dipendenti infedeli.

Questa condanna, che sia confermata o meno nei successivi gradi di giudizio, sarà utile davvero solo se sarà l’inizio di un’operazione di verità e di trasparenza. La parte più difficile comincia proprio ora. I carabinieri e in generale le istituzioni pubbliche devono affrontare subito i dubbi più inquietanti sollevati da questa storia. Il dubbio che il corpo dei detenuti non sia considerato sacro, tutt’altro: perché Stefano fu subito picchiato? Perché 140 persone, incontrandolo, non mossero un dito? C’è il dubbio che la prima reazione, di fronte ad abusi così gravi su cittadini inermi, sia l’occultamento dei fatti e delle prove, a costo di contrastare e sviare l’azione della magistratura. Il dubbio che le istituzioni siano indifferenti alla sorte dei cittadini vittime di abusi e torture e alle attese di giustizia dei familiari, quando i responsabili delle violenze appartengono a corpi istituzionali.

Abbiamo alle spalle ‒ non dimentichiamolo ‒ casi drammatici nei quali molti di questi elementi si sono in vario modo presentati e accavallati: pensiamo a Federico Aldrovandi, a Giuseppe Uva, a Riccardo Magherini per fare qualche nome. Abbiamo alle spalle anche il caso Genova G8 e le pesanti condanne subite dall’Italia davanti alla Corte europea per i diritti umani. I giudici di Strasburgo, in merito al caso Diaz, scrissero scandalizzati che i vertici della polizia di stato avevano “ostacolato impunemente” l’azione della magistratura. Si legga bene l’espressione: non solo avevano ostacolato i magistrati nella ricerca della verità, cosa già gravissima, ma lo avevano fatto senza essere per questo puniti. Niente è seguito a questa denuncia, pur così grave e autorevole. E ancora dovremmo ricordare le parole di Roberto Settembre, giudice nel processo d’appello per le torture nella caserma di Bolzaneto, sempre al G8 del 2001, il quale si è chiesto, nel suo libro Gridavano e piangevano (Einaudi 2014), quale cultura si respiri nelle forze dell’ordine, quale sia la formazione, quale l’etica professionale, visto che centinaia di agenti  frequentarono per tre giorni la caserma mentre avvenivano gli abusi, senza che nessuno notasse o segnalasse alcunché.

La magistratura, nel caso Cucchi, sta facendo la sua parte, ma tutto il resto è ancora da fare. I dubbi restano. Le risposte mancano.

Gli autori

Lorenzo Guadagnucci

Lorenzo Guadagnucci, giornalista e blogger, lavora al “Quotidiano nazionale” (Resto del Carlino - La Nazione - Il Giorno). Durante il G8 di Genova del luglio 2001 fu tra i giovani percossi e arrestati nella suola Diaz. Fondatore e animatore del Comitato verità e giustizia per Genova ha scritto, con Vittorio Agnoletto, “L’eclisse della democrazia. Le verità nascoste sul G8 di Genova” (2011).

Guarda gli altri post di:

Comments are closed.