Liliana Segre ha rievocato così il periodo in cui, dopo essere stata espulsa dalle scuole pubbliche italiane e prima di essere deportata ad Auschwitz, fu costretta a proseguire gli studi in un istituto religioso: «Mi trovai bene, mi trovai bene, ma fui sempre “La Segre, segnata da tante disgrazie”, disgrazie di cui non si doveva parlare».
Delle “disgrazie” che colpirono a partire dal 1938 gli ebrei che vivevano nel nostro paese oggi abbiamo più che mai il dovere di parlare. E Carlo Brusco lo fa in modo chiaro e approfondito nel suo libro La grande vergogna. L’Italia delle leggi razziali (Edizioni Gruppo Abele, 2019), a cui Liliana Segre ha dedicato un’incisiva prefazione.
Un libro indispensabile per capire meglio una parte della nostra storia, di cui si cerca spesso, con colpevole leggerezza, di fornire una versione edulcorata, rifugiandosi ancora una volta dietro al comodo e falso mito degli “italiani brava gente”. Brava gente che, in fondo, avrebbe considerato le norme che imponevano la discriminazione razziale nel nostro paese come una serie di provvedimenti di facciata, emanati per compiacere l’alleato nazista, da applicare in modo blando. Come sottolinea Liliana Segre si accredita così «una lettura riduttiva, minimizzante della legislazione antiebraica promossa dal regime fascista». A cui «non si reagirà mai abbastanza».
Questo è il principale merito del libro di Brusco: esclude ogni velleità autoassolutoria e permette di risalire alla responsabilità di coloro che scrissero le leggi antiebraiche; alla complicità di coloro che esplicitamente o implicitamente le avallarono; alla solerte diligenza di coloro che ne curarono l’applicazione; alla sostanziale assenza di reazioni da parte di una popolazione che, ormai piegata al silenzio dal regime fascista, scelse di accettarle e di sottovalutarne gli effetti.
La prima parte della ricerca ricostruisce, in modo molto attento, gli anni che precedettero il 1938, dandoci un quadro sintetico, ma esaustivo della situazione italiana. Nel nostro paese gli ebrei rappresentavano circa lo 0,1% della popolazione e nella società politica e civile, dove pur non erano del tutto assenti fenomeni di antisemitismo, radicati soprattutto negli ambienti nazionalisti, erano nel complesso bene integrati, tanto che alcuni suoi esponenti avevano potuto raggiungere le più alte cariche pubbliche: Sergio Luzzatti presidente del consiglio, Ernesto Nathan sindaco di Roma, Sydney Sonnino ministro degli esteri, Jung ministro delle finanze (nominato nel 1932 da Mussolini stesso!). Con il fascismo ormai indiscusso e unico detentore del potere la comunità ebraica intratteneva rapporti nel complesso normali e una prova di questa normalità è costituita dal dato che consegna il censimento del 1938: sui 47.252 ebrei censiti ben 10.125 erano iscritti al PNF.
La svolta si ebbe – sottolinea Brusco – nel 1936, quando il giornale Il regime fascista diretto da Roberto Farinacci pubblicò alcuni articoli violentemente antisemiti, in cui, tra l’altro, «gli ebrei italiani erano accusati di non aver contrastato adeguatamente l’Internazionale ebraica che si era posta alla base della formazione dei Governi comunisti e alla guida delle forze antifasciste nella guerra civile spagnola». Contemporaneamente, con l’occupazione militare dell’Etiopia, nella politica coloniale dell’Italia «ogni velo ipocrita scomparve e la politica razziale divenne manifestamente e normativamente disciplinata anche nei rapporti affettivi tra persone di razza italiana e indigeni ostacolati per legge».
Iniziava così ad affermarsi l’idea di una presunta supremazia della razza italiana, destinata poi a diventare e a essere considerata razza ariana. Un’idea che si affermò in modo compiuto del cosiddetto “Manifesto della razza”, che fu approvato il 14 luglio 1938 e apparve il 5 agosto successivo nel numero 1 della rivista La difesa della razza. La celebre copertina, con i tre profili divisi dalla spada che deve proteggere la perfetta razza ariana dal pericolo della contaminazione portato dagli ebrei e dai negri, è la chiara dimostrazione dell’adesione alle tesi del razzismo biologico, che si contendeva il ben poco onorevole campo con la concezione del razzismo “spirituale”, basato su fattori storico-culturali.
Firmato da un insieme abbastanza eterogeneo di personaggi ‒ tra i quali Nicola Pende, esperto di eugenetica, era probabilmente l’unico che almeno sapesse di cosa si stava parlando ‒ il Manifesto risulta privo di ogni dimostrazione scientifica, seppur discutibile, e Brusco si chiede, con sgomento, come sia stato possibile che «la vita di decine di migliaia di persone (per la gran parte cittadini italiani da secoli inseriti nella nostra vita sociale) sia stata sconvolta – e poi, negli anni della Repubblica sociale, addirittura distrutta o posta in pericolo – in base ad affermazioni banali, indimostrate, frutto di vere e proprie invenzioni che di scientifico nulla avevano, tanto da formare oggetto di imbarazzanti derisioni persino dall’interno del movimento fascista».
Ormai, però, la macchina si era messa in moto. Nell’agosto del 1938 si diede avvio al censimento degli ebrei e nel settembre successivo furono emanati i primi provvedimenti antiebraici, cominciando significativamente dalla scuola e dalla università (regio decreto legge 5 settembre 1938, n. 1390). Gli alunni di razza ebraica furono esclusi dalla possibilità di iscriversi ad alcuna scuola ai cui titoli era riconosciuto effetto legale. In totale gli studenti espulsi furono 1.000 nelle scuole secondarie, 4.000, nelle scuole elementari. Il provvedimento colpiva anche gli insegnanti e pesantissimi furono gli effetti dell’epurazione all’università. Si può calcolare che almeno 400 docenti ebrei siano stati estromessi, ma con altri sistemi di calcolo si raggiunge addirittura la cifra di 621. È certo che la cultura italiana ne ebbe un danno irreversibile: intere scuole scientifiche furono spazzate via e non fu più possibile ricostituirle nel dopoguerra, anche perché molti studiosi che avevano scelto di espatriare decisero, comprensibilmente, di non rientrare in Italia.
Pochi giorni dopo il regio decreto legge 7 settembre 1938 disciplinava la presenza degli ebrei stranieri in Italia e colpiva duramente proprio coloro che avevano cercato rifugio nel nostro paese in seguito ai primi provvedimenti razziali assunti in Germania dopo le Leggi di Norimberga del 1935.
Il Gran Consiglio del Fascismo, tenutosi il 6 e 7 ottobre, approvò la dichiarazione sulla razza e aprì la strada all’emanazione di un altro regio decreto legge (17 novembre 1938, n. 1728) che stabiliva: la definizione di “appartenente alla razza ebraica”; il divieto di matrimoni fra cittadini di razza ariana e persone appartenenti ad altra razza; l’esclusione degli ebrei da numerose attività lavorative; l’esclusione degli ebrei dal servizio militare e dagli incarichi di tutore o curatore di minori o incapaci non ebrei; fortissime limitazioni all’attività di impresa e al diritto di proprietà. Ad esso sarebbero poi seguite le leggi che limitavano l’esercizio delle libere professioni e contenevano disposizioni restrittive in materia testamentaria e sulla disciplina dei cognomi.
Insomma, nel giro di pochi mesi, gli ebrei subirono una serie di lesioni gravissime ai loro diritti fondamentali. Il resto della popolazione fu, nel complesso, silente. Ma ciò che preme qui sottolineare è il fatto che nessuna delle due massime autorità che avrebbero potuto almeno tentare di porre un argine al dilagare della discriminazione scelse di schierarsi esplicitamente contro di essa.
La monarchia fu addirittura complice, poiché Vittorio Emanuele III firmò tutti i decreti legge che diedero il via alla discriminazione e promulgò tutte le leggi ad essi collegate «senza alcuna visibile riserva e, se qualche riserva vi fu, il re si limitò a comunicarla verbalmente a qualche esponente di rilievo per poi rimangiarsela».
Il Vaticano di fronte alle leggi antiebraiche apparve innanzitutto interessato a salvaguardare le prerogative concordatarie della Chiesa nel caso di matrimoni misti. Brusco ricorda giustamente che Pio XI aveva fatto predisporre un’enciclica, che, «pur confermando alcuni pregiudizi nei confronti degli ebrei, era molto ferma nel contrasto all’antisemitismo rispetto al quale venivano usati giudizi e toni durissimi». Ma l’enciclica non vide mai la luce, anche a causa dell’ostilità di gran parte della Curia e dell’Osservatore romano. E, dopo l’avvento al pontificato di Pio XII nel 1939, la linea del Vaticano fu sempre quella della prudenza e della “neutralità”: da papa Pacelli «non si sentirono mai parole contro l’antisemitismo e la persecuzione degli ebrei anche perché, probabilmente, egli non era immune dai tradizionali pregiudizi antisemiti affermatisi nell’ambito del cattolicesimo».
La posizione di Pio XII rimase “neutrale” anche di fronte a episodi di vera, crudele persecuzione. Non casualmente Brusco sceglie di chiudere il suo saggio – di cui spiace, per motivi di spazio, di non poter rendere tutta la ricchezza ‒, rievocando il rastrellamento del ghetto di Roma, avvenuto pochi giorni dopo l’armistizio, il 16 ottobre 1943. Con un’operazione iniziata alle 5 del mattino e terminata alle 14, nel ghetto, ma anche in altre zone di Roma, furono arrestate e condotte al Collegio Militare 1.259 persone: 689 donne, 363 uomini e 207 bambini. Dopo due passi (“semiufficiali”) delle gerarchie ecclesiastiche, il comando tedesco sembrava orientato, con il consenso di Himmler, a sospendere l’efficacia degli arresti, ma «nessuna parola ufficiale arrivò dal papa e dal Vaticano e la vicenda ebbe il suo seguito con la deportazione degli ebrei arrestati in Germania». Fu solamente rilasciato un certo numero di componenti di famiglie di sangue misto. E non fu neppure accettata la richiesta del Vaticano di liberare gli ebrei battezzati. I 1.023 rastrellati furono fatti partire il 18 ottobre dalla stazione Tiburtina: destinazione Auschwitz. Solo 16 di loro sopravvissero: 16 uomini, 1 donna, nessun bambino.