1.
Il 7 ottobre 2019 la Camera dei deputati è chiamata a deliberare in merito alla seconda, e ultima, approvazione del progetto di legge costituzionale recante “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari” (A.C. 1585-B), già approvato, in seconda deliberazione, dal Senato, con la maggioranza assoluta dei suoi componenti, l’11 luglio del 2019.
Il progetto prevede una drastica riduzione del numero dei parlamentari, modificando gli articoli 56 e 57 della Costituzione: i deputati vedrebbero una diminuzione da 630 a 400 (i 12 eletti nella circoscrizione estero scenderebbero a 8); i senatori, da 315 a 200 (i 6 eletti nella circoscrizione estero diverrebbero 4). Quanto all’art. 59 della Costituzione, si stabilisce che il numero complessivo dei senatori in carica nominati dal Presidente della Repubblica non possa essere superiore a cinque.
Il dato comparato mostra come il rapporto fra numero dei parlamentari e popolazione in Italia si allinei a quello di altri Paesi europei, in un range basso (per riferimenti precisi, si rinvia all’articolo di F. Montorio, Ridurre i parlamentari? No grazie). In caso di approvazione della riforma, l’Italia si troverebbe ad avere una percentuale pari a 0.7 (la percentuale più bassa fra gli Stati membri dell’Unione europea). La riforma costituzionale muterebbe il rapporto fra parlamentari e cittadini: oggi vi è un deputato ogni 96.000 abitanti circa, diverrebbe uno ogni 151.200 circa.
La previsione di una riduzione così drastica del numero dei parlamentari incide sulla rappresentanza, sulla sovranità popolare e sulla democrazia sotto diversi aspetti.
2.
Il riverbero sulla rappresentanza è evidente, con una diminuzione della possibilità per il cittadino di veder eleggere un “proprio” rappresentante, abbassando il grado di potenziale identificazione del rappresentato con il rappresentante; si restringono le possibilità di scelta e si comprime l’angolo visuale della lente che specchia la realtà e la complessità della società. Ne risulta incrementato il senso di estraneità rispetto alle istituzioni, si approfondisce il solco che separa società e istituzioni.
Indebolire la rappresentanza, nella prospettiva di una democrazia rappresentativa, inficia tout court la democrazia, in quanto la sua declinazione come rappresentativa integra un elemento chiave nel disegno della democrazia stessa.
Ad essere depotenziato è il principio di sovranità popolare. Esso non vive solo nelle forme della rappresentanza (restando in particolare imprescindibile una partecipazione attiva dei cittadini, attraverso l’esercizio dei diritti e la mobilitazione dal basso) ma, indubbiamente, la rappresentanza ne costituisce un’estrinsecazione significativa. Si possono estendere all’alterazione della rappresentanza prodotta dalla diminuzione del numero dei parlamentari, le affermazioni della Corte costituzionale a proposito dell’uguaglianza del voto: non si può produrre «una eccessiva divaricazione tra la composizione dell’organo della rappresentanza politica, che è al centro del sistema di democrazia rappresentativa e della forma di governo parlamentare prefigurati dalla Costituzione, e la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto, che costituisce il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare» (sentenza n. 1 del 2014).
Minando la rappresentanza, si indebolisce il Parlamento, aggravando anche in tal caso un trend di ormai lungo corso, sintomo di una trasformazione surrettizia della forma di governo. Non privi di rilievo, inoltre, sono gli “effetti collaterali” che discendono da una deminutio nella rappresentatività sugli altri organi: basti pensare all’elezione del Presidente della Repubblica o alla votazione riguardante i giudici costituzionali. Ad essere compromessi sono i complessi congegni, equilibri e garanzie sui quali si regge una democrazia costituzionale.
A chi rileva come un Parlamento dai numeri più contenuti sia un Parlamento più efficiente ed efficace e, dunque, più forte e autorevole, si può obiettare osservando che, ammesso e non concesso che la riduzione dei componenti determini una maggior efficienza e compattezza dell’organo, ciò presuppone l’adesione alla concezione secondo cui la forza e l’autorevolezza discendono in primis dall’efficienza, dalla “governabilità”, assunta come un valore positivo, a prescindere dal suo rapporto con la rappresentanza, e anche quando comporta un sacrificio su questo profilo. È una posizione riconducibile alle versioni maggioritarie della democrazia: non la discussione, ma la decisione; non la rappresentanza del pluralismo, ma un vincitore, che, allontanandosi dalla tradizione del costituzionalismo, si vuole sempre più legibus solutus. Emerge chiaro il parallelismo, per non ragionare di mera traduzione, con le tendenze egemoniche delle élites del finanzcapitalismo; nella società, così come nelle relazioni industriali, la negazione del conflitto segna la vittoria di una classe (Gallino).
3.
L’incidenza della riduzione del numero dei parlamentari sulla rappresentanza, sulla sovranità popolare e sulla democrazia viene a essere ulteriormente aggravata se si inserisce la revisione nel quadro delle riforme in discussione.
In primo luogo, il riferimento è alla legge elettorale: una formula elettorale come l’attuale Rosatellum (legge n. 165 del 2017), o una sua revisione in chiave (vieppiù) maggioritaria, in presenza di Camere ridotte, penalizzerebbe ancor più la rappresentanza, divenendo difficile ragionare di compatibilità con il principio democratico.
Occorrerebbe, nell’ottica di una riduzione del danno, per bilanciare almeno in parte il vulnus arrecato alla rappresentanza (con la precisazione che in ogni caso non è sufficiente a sanare la ferita inferta), modificare la legge elettorale, adottando una formula proporzionale pura (si veda L. Pepino, Elogio del proporzionale).
Quanto alle riforme costituzionali, attraverso la modifica dell’art. 71 della Carta con la previsione dell’iniziativa legislativa popolare “rafforzata” e il connesso referendum, si innestano nuove forme di democrazia riconducibili alla cosiddetta democrazia diretta. Ora, gli istituti di democrazia diretta e partecipativa possono arricchire la democrazia rappresentativa, sempre che vi siano le condizioni per evitare che si traducano in pronunciamenti plebiscitari o che sponsorizzino una “partecipazione oligarchica”, ma la congiunzione tra il favor per l’appello al popolo e la riduzione del numero dei parlamentari produce una pericolosa convergenza nel mortificare il ruolo del Parlamento.
Infine, non si può omettere un riferimento alle proposte in tema di regionalismo differenziato. Da un lato esse privano il Parlamento nazionale di competenze significative, trasferendo poteri ad alcune regioni e minando l’immagine – e la sostanza – di un Parlamento che legifera sulla base, e a garanzia, di un principio di eguaglianza (nazionale). Dall’altro lato, la diseguaglianza che esse veicolano, e che mirano a istituzionalizzare, appartiene allo stesso idem sentire che ragiona in termini di efficienza, di logiche meritocratiche mistificatrici e di creazione di un “governo dei forti”, con buona pace della solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e del progetto di eguaglianza sostanziale e di emancipazione sociale di cui all’art. 3, comma 2.
4.
La riduzione del numero dei parlamentari, restringendo gli spazi della rappresentanza, esclude potenzialmente dalla sfera pubblica, voci – plausibilmente quelle fuori dal coro – di cittadini: incide, dunque, sulla democrazia come espressione del pluralismo e del conflitto.
L’opzione per la declinazione rappresentativa della democrazia è strettamente connessa con il riconoscimento del pluralismo, della complessità della società, della centralità della discussione e del compromesso politico; è coerente con il riconoscimento, contemporaneamente, del principio di maggioranza e della tutela delle minoranze. Con l’opzione “Camere mini” si afferma invece, una volta di più, una versione maggioritaria e decisionista della democrazia (posto che così procedendo possa ancora ragionarsi di democrazia…), abdicando alla sua esistenza come garanzia del pluralismo delle voci, anche, se non soprattutto, di quelle minoritarie e dissonanti.
La riduzione del numero dei parlamentari è, dunque, un tassello di una trasformazione della forma di Stato in senso autoritario, tendente ad espellere e a privare di agibilità politica, quando non a punire (il riferimento è ai decreti sicurezza), il dissenso.
Mi sa che il Giornalista vivenellaluna: se 400+200 parlamentari non sono sufficienti a rappresentare i cittadini, evidente vi sono parametri di valutazione “lunari”!
Saluti Fabrizio
Preciso, lucido, articolato, ben argomentato, ineccepibile. Chapeau. E grazie