La storia dell’insegnamento è una storia politica: dall’antica Grecia alla civiltà romana, dal Medioevo cristiano all’Umanesimo laico, dall’età dei Lumi alla società democratica, da sempre l’arte dell’insegnare rientra nella sfera del pensare e agire politico.
Con l’inizio del nuovo anno scolastico e con il ritorno in classe di milioni di studenti italiani è importante riaffermare, con forza intellettuale e slancio emozionale, questo concetto, sempre più dimenticato, travisato o addirittura negato e contrastato: fare l’insegnante, infatti, è un mestiere profondamente politico, è una sfida educativa dirompente, è un atto di quotidiana ribellione rispetto alle catene dello status quo individuale e collettivo, in quanto si pone come un progetto teorico e pratico di crescita ed emancipazione. Eppure molti rimuovono o contrastano tale liberatoria politicità.
Innanzitutto vi è chi dimentica la natura politica dell’insegnare in quanto figlio della grande disillusone che caratterizza la fine del Novecento e i primi decenni del XXI secolo. L’amara riflessione procede così: un tempo, forse, il docente era uno dei principali protagonisti dell’educazione critica e consapevole degli allievi, ora invece occupa un ruolo marginale se non addirittura del tutto inutile. Il ruolo educativo è evaporato ed è stato inghiottito dalla burocrazia e il docente si è trasformato in un impiegato della formazione, in un controllore dei biglietti del bus chiamato scuola, in un vigilante dell’ordine pubblico. L’insegnante è stato spodestato da altri centri politici educativi quali la TV, la rete, lo star system e i social media. Secondo chi si rassegna, l’insegnante politico appartiene a un passato ormai mitico ed è come un vello d’oro perduto, senza che ci siano dei nuovi Argonauti disposti a salpare in mare aperto per andare a cercarlo. Cercasi, pertanto, dei volonterosi Teseo per riprendere il viaggio.
Poi vi è chi osteggia la politicità dell’insegnante in quanto figlio di un crescente e inarrestabile analfabetismo di ritorno che confonde il termine politico con partitico. Tale ignoranza conduce a esaltare il falso idolo dell’insegnante oggettivo e neutrale. Tale neutralità porta alla noia formativa, all’apatia esistenziale e a un pernicioso relativismo valoriale, in cui tutto si equivale. Tutto, invece, si studia, tutto si comprende criticamente, tutto deve essere smontato e rimontato, proprio per capire che i partigiani e fascisti non si equivalgono, che Mandela e Pinochet non stanno dalla stessa parte della storia, così come chi salva le persone in mare e chi le lascia affogare. Insegnare significa, infatti, fare una scelta educativa netta, significa avere come bussola politica la Costituzione, i diritti umani, il rispetto della natura, la libertà, la giustizia sociale, i diritti del lavoro, la lotta al razzismo e la pace, intesa come ripudio netto della guerra, da sempre strumento di aggressione e di dominio. L’insegnante neutrale è di fatto un grigio burocrate dell’esecuzione, se non addirittura un Ponzio Pilato educativo.
Ancora, vi è chi nega la natura politica della professione docente in quanto figlio, legittimo o illegittimo, della fine delle ideologie e del trionfo disarmante della tecnica. Secondo questa prospettiva, l’insegnante è un sofista 2.0, un personal trainer della formazione, un trasmettitore acritico dei contenuti e delle competenze richieste dal mercato, dalle imprese e da un progresso tecnologico e scientifico che da mezzo per l’emancipazione umana si è tramutato in una finalità assoluta dalle sembianze metafisiche, da perseguire ciecamente in quanto tale. L’insegnante apolitico è dunque il cortigiano di un presente che si fa dittatura, di un pensiero unico dominante che cannibalizza ogni ricchezza del possibile, che annulla ogni strada alternativa.
Infine, vi è chi apertamente contrasta la politicità dell’insegnante, considerandolo un pericoloso sovversivo. In questa caso, siamo, quasi sempre, in presenza di figli di un potere conservatore e reazionario che vuole mantenere inalterata la struttura sociale in cui si realizza il dominio dei pochi sui molti. Coloro che contrastano la politicità dell’insegnante sono i costruttori di muri, i difensori di una tradizione che discrimina, i cantori delle disuguaglianze, gli esaltatori dell’uomo monodimensionale, mansueto esecutore di ordini e comandi. Si tratta dei nemici più intimi della democrazia, di coloro che spargono sale sulla terra per evitare la fertilità della disobbedienza e delle diversità, in nome di antichi valori da difendere.
L’apoliticità dell’insegnante segna, pertanto, la mutazione genetica, se non addirittura l’eutanasia della stessa professione docente. Insegnare, infatti, è l’atto politico più nobile e vitale che si possa compiere. L’insegnante deve educare al pensiero critico, deve trasmettere la potenza liberatoria del conoscere e del saper fare. Insegnare è un atto d’amore verso la possibilità di cambiare la realtà e di trasformare con essa anche noi stessi. Insegnare è stimolare i desideri di libertà, di scoperta, di viaggio e di giustizia. Insegnare è saper distinguere le molteplici bellezze della vita, troppo spesse nascoste e imprigionate nella mediocrità e frenesia dei tempi. Insegnare significa immaginare altri mondi e altri modi di stare al mondo.
Insegnare è il mestiere politicamente più rivoluzionario di tutti perché può portare le allieve e gli allievi ad aver fame e sete di felicità, conoscenza, giustizia ed emancipazione. E proprio per questo motivo la professione docente, se esercitata nella sua autentica essenza, è un’arte pericolosa e faticosa che deve essere praticata con tenacia e passione, resistendo alle ammiccanti o violente sirene che vogliono fare della scuola una industria dell’omologazione culturale, una caserma di obbedienza acritica e un centro commerciale del consumo veloce e compulsivo.
Degli insegnanti pericolosi e di altre specie meno fantastiche.
Lavoro nella scuola della Repubblica da circa trent’anni, ma, voglio dire la verità, di insegnanti pericolosi nel senso di Saudino, di insegnanti, cioé, che nel quotidiano ed ordinario esercizio delle loro funzioni istituzionali (interrogare, valutare, sanzionare, chiedere giustificazioni, invocare a ogni piè sospinto le Regole, sospendere, convocare i genitori ecc.: le normali e normalizzanti espressioni, insomma, del potere scolastico), avendo tuttavia colto – platonicamente suppongo – l’«autentica essenza» politica e rivoluzionaria dell’insegnare, riuscissero anche, grazie a quell’intuizione, non dico ad abolire lo stato di cose presente – che sarebbe decisamente troppo anche per un insegnante di filosofia – ma quanto meno a metterlo, ex cathedra, radicalmente ed efficacemente in discussione, di tale favolosa specie, dicevo, credo di non avere mai avuto la soddisfazione di vedere un solo esemplare. E dio solo sa cosa avrei dato in cambio di una tale soddisfazione! Ma, per quanto mi sforzi di ricordare, nemmeno quando ero studente ho mai avuto la fortuna di incontrarne.
Dirò di più: di questa rappresentazione idealistica, o idealizzante, della scuola pubblica, quale inespugnabile cittadella del pensiero critico, irriducibile nucleo di resistenza alla barbarie dilagante, sicura promessa di emancipazione universale (se solo ricevesse, beninteso, maggiori investimenti), ecc. ecc., ne ho piene le tasche, per non dire altro. La trovo retorica, mitologica, ideologica (in senso marxiano), stucchevole e, in ogni caso, immemore della grande lezione di coloro (Illich, Althusser, Bourdieu e, per quel che ne so, pochi altri illustri sconosciuti al 95 % degli insegnanti italiani) che sulla realtà della istituzione scolastica, e sul suo ruolo effettivo in una società segnata dalla divisione di classe, hanno davvero criticamente riflettuto.
Come non vedere, mi chiedo, che ciò che Saudino, in fondo, paventa e tenta illusoriamente di scongiurare, evocando l’intrinseca e, parrebbe, miracolosa politicità dell’insegnare – ma prescindendo completamente dalla cornice istituzionale in cui esso si dispiega (vincoli, norme, valori, logica del sistema) – l’omologazione, vale a dire, della scuola pubblica alla società di mercato, ai suoi valori, al suo linguaggio, lungi dall’essere solo un pericolo, è oramai, e da gran pezza, cosa fatta? Perché, continuo a chiedermi, non riconoscerlo una buona volta? Ne mancano forse le prove? A me pare, al contrario, che di prove ce ne sia una caterva. Non ne costituisce una inoppugnabile il ripugnante gergo parafinanziario (crediti e debiti formativi) in cui la scuola formula le sue valutazioni? Davvero formativi, non c’è che dire, soprattutto i debiti; vi è, in effetti, implicita, tutta una pedagogia. Date un’occhiata ai “documenti sulla qualità”, di cui, per accedere ai finanziamenti europei, ogni scuola si è volentieri e alacremente dotata: gli studenti e le famiglie non vi figurano ad altro titolo che a quello di “clienti” (proprio cosi! nero su bianco, senza traccia di vergogna). Nella repubblica democratica fondata sul lavoro, vi sono addirittura scuole, credo non poche, in cui si tengono corsi di «educazione all’imprenditorialità», ed altre che, coll’ausilio dell’immancabile psicologo, attraverso appositi “sportelli”, istruiscono la forza lavoro in formazione su come prepararsi e presentarsi a un colloquio di lavoro (sorridere, postura corretta, mi raccomando; positività innanzitutto!). Ma, in fondo, ad allarmare chi ha orecchi per intendere, bastava la locuzione, apparentemente più neutra, ma per niente più innocua, di “offerta formativa”, succintamente illustrata su pieghevoli patinati (la pubblicità, contemplata nei bilanci delle scuole in un specifica voce di spesa, è com’è noto l’anima del commercio).
Se poi si pensa alla rapidità con cui il processo di colonizzazione si è compiuto, con la complicità oggettiva, evidentemente, per quanto inconsapevole, della quasi totalità del cosiddetto corpo docente, si è autorizzati a supporre che il famoso spirito critico, di cui la scuola sarebbe, per statuto, la gelosa custode, quel corpo lo avesse abbandonato da tempo, o, per dirla in maniera più cruda – sperando che nessuno si offenda – si è legittimati a concludere – con buona pace della sparuta pattuglia dei Saudino – che quel corpo di variamente titolati (diplomati, laureati, abilitandi e abilitati, tirocinanti e tirocinati e, qualcuno, finanche “masterizzato”) versasse da tempo, e versi tuttora, in condizioni di profonda debilitazione culturale. Se, per concludere, è questa oggi – prove alla mano – la realtà della scuola repubblicana, cosa fare per risollevarne le sorti (posto, ovviamente, che non si ritenga opportuno invocare un Basaglia)? Francamente, lo confesso, non lo so. Ma di una cosa sono certo: per risalire la china, se è ancora possibile, la prima cosa da fare dovrebbero essere questa: disfarsi una volta per tutte delle rappresentazioni edulcorate ed edulcoranti che, a dispetto delle buone intenzioni, tanto acriticamente quanto colpevolmente, nascondono l’abisso in cui la scuola si è lasciata trascinare.