Domenico Lucano è libero ed è tornato a casa dopo la revoca, da parte del Tribunale di Locri, del divieto di dimora a Riace. Oggi prevale, anche nelle sue dichiarazioni, la gioia, la soddisfazione per la fine di un incubo. Ma non è possibile – non sarebbe giusto – dimenticare la persecuzione giudiziaria in atto nei suoi confronti da 11 lunghi mesi e non ancora terminata. Lo abbiamo detto e scritto ripetutamente anche su queste pagine, sin dal giorno successivo al suo arresto (https://volerelaluna.it/commenti/2018/10/02/larresto-di-mimmo-lucano-il-mondo-al-contrario/), ma oggi conviene ricordarlo e aggiornare l’analisi.
Lucano è sottoposto a processo (attualmente in fase dibattimentale) per una serie di imputazioni a dir poco incredibili. In particolare gli è contestato di avere costituito, con i suoi più stretti collaboratori, un’associazione «allo scopo di commettere un numero indeterminato di delitti (contro la pubblica amministrazione, la fede pubblica e il patrimonio)» orientando i progetti di accoglienza finanziati dallo Stato «verso il soddisfacimento di indebiti e illeciti interessi patrimoniali privati». L’imputazione così formulata criminalizza il sistema di accoglienza costruito da Lucano in quanto tale (e non eventuali reati commessi nel corso di un attività amministrativa complessivamente corretta). È il modello Riace che diventa un delitto, con un teorema non sorretto dall’indicazione di elementi probatori coerenti, respinto dal giudice per le indagini preliminari, smentito da una storia ventennale sotto gli occhi di tutti. La finalità della contestazione (e dell’operazione ad essa sottesa) è evidente: non già dare ai fatti la qualificazione giuridica più corretta ma stigmatizzarne la (ritenuta) gravità.
Due soli di tali reati sono stati ritenuti potenzialmente sussistenti dal giudice per le indagini preliminari in sede di decisione sulla richiesta di misura cautelare: a) l’affidamento diretto, senza procedure di gara, del servizio di raccolta dei rifiuti urbani di Riace a due cooperative sociali non iscritte al relativo albo regionale; b) il tentativo (non riuscito) di favorire l’ingresso in Italia di un cittadino etiope mediante la predisposizione della documentazione finalizzata alla celebrazione di un finto matrimonio con una sua connazionale residente a Riace. Reati – ove esistenti – di entità a dir poco modesta. E tuttavia per essi Lucano è stato sottoposto a misura cautelare: inizialmente gli arresti domiciliari, pur non consentiti dall’articolo 275, comma 2 bis, del codice processuale, nel caso in cui sia prevedibile, in caso di condanna, la concessione della sospensione condizionale (che, consentendolo l’entità della pena, è una certezza per un imputato come lui, incensurato e che non ha agito per personale tornaconto); poi, a seguito di decisione del giudice del riesame, il divieto di dimora a Riace (formalmente meno afflittivo ma in concreto ancora più duro comportando l’allontanamento da casa sua, dal suo paese, dal suo progetto). Quest’ultima misura è proseguita fino a un paio di giorni fa pur essendo venuta meno da mesi l’unica ragione giustificatrice inizialmente indicata, consistente nella (asserita) possibilità di commissione di ulteriori reati della stessa specie legati al suo status di sindaco, e nonostante l’avvenuto annullamento con rinvio da parte della Corte di cassazione che, con sentenza 26 febbraio 2019, ha letteralmente demolito l’impianto accusatorio (cfr. https://volerelaluna.it/commenti/2019/04/29/domenico-lucano-litalia-la-giustizia/). Come se nulla fosse, infatti, le ripetute richieste di revoca della misure sono state fino a ieri respinte dai giudici di Locri e di Reggio Calabria per lo più con motivazioni apparenti o elusive delle indicazioni della Cassazione.
Oggi, finalmente seppur con estremo ritardo,l’aspetto più brutale della persecuzione giudiziaria in atto è venuto meno. Ma restano alcuni profili di riflessione importanti per Riace e anche per lo stato di salute della giustizia nel nostro Paese. Con una suggestione inquietante: la misura cautelare nei confronti di Lucano è stata emessa il 26 settembre 2018, due giorni dopo l’approvazione da parte del Consiglio dei ministri del decreto sicurezza n. 113/2018 (con la nota stretta repressiva nei confronti dei migranti e delle ONG che se ne occupano) ed è stata revocata il 5 settembre 2019, cioè lo stesso giorno in cui, con il giuramento del nuovo Governo, si è conclusa l’esperienza di Matteo Salvini al Viminale. Una casualità? Certamente. Il nostro assetto istituzionale esclude interferenze dirette del Governo sull’operato e sulle scelte della magistratura.
E tuttavia la coincidenza temporale resta e propone una domanda non eludibile: cosa hanno a che fare con la giurisdizione i cambiamenti politici del Paese? Nulla, formalmente. Eppure, in concreto, non è esattamente così. Nei momenti di crisi sociale ed economica – come quello che attraversiamo – la tendenza dei magistrati ad allinearsi alle politiche d’ordine è fortissima. Talora inarrestabile, nonostante le eccezioni e le resistenze interne (pur importanti e significative). È accaduto e accade in molte realtà del Paese, dal nord al sud. E ne conseguono un ruolo della magistratura sbilanciato sulla difesa dello status quo anche a scapito delle garanzie e dei diritti e l’emergere di prassi distorte, eterogenee ma concorrenti, come l’uso spregiudicato e improprio delle misure cautelari. È in questa cultura che si colloca la vicenda giudiziaria di Domenico Lucano, inscindibile dalla delegittimazione politica e mediatica che l’ha accompagnata.
Oggi – come si è detto – qualcosa sta cambiando. Ma, nel momento in cui, giustamente, prevale la soddisfazione per la restituzione alla libertà di Domenico Lucano occorre non perdere di vista il contesto e non abbassare la guardia: a Riace (dove, mentre l’ex sindaco torna a casa, è costretto a dimettersi dal Consiglio comunale a causa della sua ineleggibilità conseguente a una condanna per bancarotta fraudolenta dolosamente taciuta il locale segretario della Lega) e nel resto del Paese.
L’immagine nella homepage è di Staino