Nel paese delle menzogne di Stato e dell’oblio collettivo della storia (della propria storia), le giornate del G8 del 2001 sono una maledizione. Ricordano a chi le ha vissute ‒ e sono ancora tanti, tantissimi ‒ e a chi le ha conosciute nei vari modi possibili ‒ e sono anche di più ‒ che esiste un’altra Italia. Un’Italia che pensa in grande, che scende in piazza a contestare otto autoproclamati padroni del mondo e lo fa in un clima di fervore ideale, sulla scorta di esperienze, competenze, progetti concepiti e realizzati su scala globale. Non c’è posto nell’Italietta di oggi per qualcosa del genere, perciò il luglio del 2001 non compare più ‒ da anni e anni ‒ nel discorso pubblico, occupato da pensieri ordinari e protagonisti per lo più mediocri.
Non c’è posto, nell’Italietta di oggi, tutta concentrata sulle proprie piccole e inverosimili ossessioni ‒ il decoro, la piccola criminalità, l’invasione dei barconi ‒ per le verità che ci portiamo dietro dal G8 di Genova: la disponibilità delle forze dell’ordine a violare le regole scritte e i vincoli costituzionali; l’uso spregiudicato e continuato della menzogna di Stato; la prassi del falso in atto pubblico per occultare le responsabilità; la rinuncia dei poteri elettivi ai propri obblighi di controllo e indirizzo sulle forze di sicurezza. Sono verità da cancellare perché mostrerebbero il potere attuale e la sua retorica per quel che sono: incarnazioni patetiche di quel che un tempo si intendeva per democrazia; simulacri osceni di quanto previsto dalla Carta costituzionale.
Christian Raimo in un libro uscito da poco ‒ Contro l’identità italiana, pubblicato da Einaudi ‒ ricostruisce la genesi del neonazionalismo e cita, fra gli altri, il professor Ernesto Galli della Loggia che, in alcuni scritti assai stimati a Palazzo, individua nella Chiesa e nei Carabinieri i pilastri dell’identità italiana, nell’assenza di un’élite borghese e di circoli aristocratici all’altezza del compito di incarnare un “partito” conservatore custode dell’idea di nazione. Poi verrà Ciampi con la sua fallimentare (e alla fine nociva) rivalutazione del concetto di patria, ma intanto ‒ scrive Raimo ‒ i pretesi pilastri di della Loggia cozzano con la realtà dei fatti, sia per il ruolo ambiguo della Chiesa, sia, soprattutto, per le vicende di Genova G8.
Proprio i carabinieri, a Genova il 20 luglio 2001, creano lo scompiglio caricando senza motivo un corteo e poi uccidono un ragazzo disarmato, mentre la polizia di Stato il giorno dopo compie un’ignobile spedizione alla scuola Diaz accompagnata da menzogne di ogni tipo. Con Genova G8 tutte le forze dell’ordine (anche la finanza e la penitenziaria) si macchiano di crimini imperdonabili, per strada e nei luoghi di reclusione, portando tutte insieme, queste forze dell’ordine pilastro dell’identità nazionale, alle tremende condanne subite dal nostro Paese alla Corte per i diritti umani di Strasburgo: non solo per avere praticato la tortura ma anche per avere ostacolato l’azione della magistratura e impedito qualsiasi azione di prevenzione di abusi futuri.
Genova G8 ‒ scrive ancora Raimo ‒ è un passaggio decisivo perché introduce nel discorso pubblico il tema dell’internazionale, della scena globale come teatro di confronto e di conflitto sui diritti, le libertà, l’emancipazione, il tema dell’attenzione alla sofferenza fisica del pianeta Terra, quello dell’apertura ai popoli in movimento. Tutto ciò che oggi è fuori gioco nella politica corrente, ma molto attuale nella verità della storia che viviamo.
Per tutto ciò di Genova G8 non si parla, se non per esorcismi utili alla bisogna. Può accadere, per dirne una, che un gruppo di poliziotti, per l’appunto a Genova, pesti brutalmente il primo che capita ed ecco il questore, il capo della polizia, quelli che contano precisare subito che siamo a Genova ma non al G8, che quella pagina è chiusa, che ora è tutta un’altra storia. E invece è proprio la stessa storia: i fotogrammi del pestaggio di Stefano Origone li potremmo tagliare e incollare dentro uno dei tanti documentari usciti nel 2001 e nessuno si accorgerebbe della manomissione. Stessa tecnica, stessi risultati, anzi no, perché Origone è stato salvato da un funzionario che l’ha riconosciuto e la precisazione è stata divulgata senza nemmeno coglierne l’enormità. Se al posto del giornalista, è stato detto in sostanza, ci fosse stata un’altra persona, questa avrebbe fatto al fine di Mark Covell, di Lena Zhulke, di Melanie Jonasch, per citare tre casi risalenti alla notte della Diaz, casi di persone picchiate fino allo sfinimento di chi usava i manganelli e fino allo svenimento di chi li subiva.
Può anche accadere, per dirne un’altra, che un vascello di soccorso impegnato a raccogliere naufraghi nel Mediterraneo appena prima del loro annegamento, sia apostrofato con disprezzo come “nave dei no global”, nel tentativo di evocare nel popolo stremato e stordito da almeno due decenni di allarmi fasulli e di violenza verbale l’immagine del facinoroso, dell’estremista, dell’esaltato. L’immagine criminalizzante che fu creata con un certo successo in politica e nei media prima durante e dopo il G8 del 2001.
Viene in mente quel che disse una volta la compianta Marina Spaccini, medico pediatra a Trieste, testimone in piazza Manin di un pestaggio di massa, modello Stefano Origone, ai danni degli attivisti della Rete Lilliput; molti la ricorderanno, perché Marina compare in una fotografia molto conosciuta mentre versa dell’acqua sul capo di un ragazzo a terra pestato a sangue. «Quelli che come me ‒ disse Marina ‒ hanno alle spalle tanti anni di impegno in Africa, di azioni concrete sul campo, si sono detti a un certo punto che tutto ciò non bastava più, che dovevamo unirci per cambiare lo stato delle cose sulla scala più grande. Dovevamo scendere in piazza, perciò venimmo così tanti a Genova». Dalla concretezza del fare al confronto politico su larga scala. A ben vedere, siamo oggi nella stessa situazione: le ONG lavorano sul campo in Italia e nel mondo, conoscono bene lo stato reale delle cose, pattugliano il Mediterraneo, disobbediscono a leggi infami e rappresentano il meglio di cui oggi disponiamo. Ma c’è bisogno di qualcosa di più. E vale anche per i tanti singoli e collettivi che si battono sul terreno per la giustizia sociale e climatica, lontano dai riflettori.
C’è bisogno di un movimento collettivo, di un progetto di società che letteralmente si metta in marcia e imponga, con la forza delle proprie persuasioni, il cambiamento di rotta che tutti sappiamo essere necessario per ragioni di giustizia e per le stesse prospettive di sopravvivenza della specie. L’avvento di un nuovo movimento globale per la giustizia sociale e per la salvezza del pianeta è quel che tutti temono nei palazzi del potere, specie quando vedono i ragazzi disertare le scuole il venerdì o una ragazzina con le trecce che li mette in imbarazzo dicendo semplici verità conosciute da tutti.
Temono, i potenti, che le persone comuni, gli attivisti già in campo, i tecnici e i professori che ammoniscono sui rischi che corriamo come specie, si rimettano insieme e pensino in grande. Che si propongano ‒ ohibò ‒ di cambiare il mondo. Sanno i potenti ‒ quanto e in un certo senso più di noi ‒ che qualcosa del genere è già successo, ad esempio fra Seattle 1999, Porto Alegre e Genova 2001, tutto il mondo nel 2003 contro la guerra in Iraq, e temono perciò che possa ripetersi in nuove forme ma con altrettanto se non maggiore slancio. Ecco lo spettro che incombe e di cui non si deve parlare.
A Genova il 20 luglio per le cosiddette commemorazioni si presentano di solito poche centinaia di persone, ma molte molte di più quel giorno e anche il resto dell’anno pensano a Genova G8 e sanno che la rimozione pubblica, gli esorcismi del potere, il silenzio di chi finge di opporsi alle brutali destre oggi dominanti nascondono una verità che cova sotto la sabbia. Genova G8 non è un ricordo, semmai parte della memoria e dell’identità collettiva di un bel pezzo d’Italia. Genova G8 è un lievito.