Il 22 giugno, a commento dell’intervento di Tomaso Montanari contro la “santificazione di Zeffirelli” per VOLERELALUNA, gli avevo inviato questo messaggio privato per esprimergli tutto il mio consenso a una presa di posizione che consideravo “salvifica”:
“Caro Tomaso, sacrosanto il giudizio su Scespirelli, sacrosanta la risposta alla canea salviniana sgarbiana renziana che non tollera chi dice che il re è nudo. Ho detestato Zeffirelli da vivo, non lo detesto meno ora che è morto, per l’orrida estetica che ha messo in circolo a dosi tossiche e per tutto ciò che politicamente e culturalmente ha rappresentato. Gobetti scrisse che da un popolo di dannunziani non ci si poteva aspettare nulla di serio. Che dire di un popolo di zeffirelliani? Per fortuna che al coro dei gaudenti osannanti si contrappone almeno una voce in nome della serietà. Senza la tua voce fuori dal coro saremmo davvero sprofondati nella vergogna di un’autobiografia della nazione irredimibile.
Un abbraccio forte. Marco”
A dieci giorni di distanza sento il bisogno di rendere pubblico quel “messaggio privato”, perché la canea non è cessata, anzi: il linciaggio si è fatto corale, ha travalicato il caso specifico per investire la persona tutta di Montanari, ne ha messo in discussione il suo “essere di sinistra” (un certo Langone sul “Foglio” lo definisce addirittura “reazionario” in base alla lettura di una sola riga), il suo essere uomo di cultura (c’è chi ha chiesto che gli sia negata la consulenza nel Consiglio degli Uffizi), persino il suo “essere” nel senso di esser vivo (così Luca Sofri in un ignobile pezzullo). La sua piccola pietra l’ha portata anche Michele Serra, che dall’alto della sua Amaca ha lasciato cadere una goccetta di veleno, rivendicando certo uno spazio alla critica , ma nello stesso tempo cerchiobottisticamente riaffermando il diritto/dovere dell’Amministrazione cittadina di “celebrare un morto importante senza che i suoi avversatori lo considerino un oltraggio di Stato ai danni delle libere e indomite minoranze” (con un tono d’irrisione verso queste ultime che suona abiura di ciò che egli stesso fu in passato). E nel far questo iscrivendosi d’ufficio a quell’”autobiografia della nazione” di cui le santificazioni fiorentine sono un esempio: unendosi (il piacere di “essere come tutti”) all’ormai sterminata schiera che schifa le distinzioni nette, i valori identificanti, i “contenuti” delle parole e delle azioni in nome del successo che riscuotono i personaggi di turno, o del fatturato che fanno, dell’appartenere a quelli “importanti”, o genericamente in omaggio a un universalismo del bon ton che impone di accogliere serenamente tutti (i portatori di successo) a prescindere da ciò che hanno detto o scritto, per cui che importa che Zeffirelli avesse invocato la pena di morte per le donne che abortiscono o che Fallaci avesse sognato di mettere bombe nelle moschee, quel che conta è che “contassero”, che fossero tra i cittadini “importanti”.
Montanari dice che non si può essere contemporaneamente con don Milani e Zeffirelli. Che non ci si può dire “di sinistra” e dedicare piazzali a Oriana. Difende la sostanzialità della Cultura contro la curialità mercuriale della gente di mondo e contro il predominio dispotico del bon ton sulla durezza delle antitesi etiche. Va messo al rogo come novello Savonarola?
Noi su quel rogo (mediatico) saliamo volentieri con lui.