Populismo penale 2.0

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Il populismo penale, o il populismo tout court, costituisce oggetto di analisi approfondita nelle sedi più varie, al punto tale che, per eterogenesi dei fini, anche chi intenda disvelarne le cause e le mistificanti soluzioni proposte rischia di infilarsi nello stesso cul de sac, del Popolo contrapposto alle élite.

In una parola, ciò che contraddistingue il populismo penale è l’idea della strumentalizzazione della giustizia penale per la ricerca di un facile consenso politico (Vigani), utilizzando ogni metodo utile (principalmente veloce, pervasivo, suadente, ma anche muscolare, alla bisogna). Del resto, il diritto penale è la sede principale del dato emotivo (Sgubbi) ed è facile utilizzare la disposizione di cui all’art. 101, 1° comma Costituzione («La giustizia è amministrata in nome del popolo»), per farle dire ciò che non dice. Con essa, infatti, si è inteso conferire autonomia, indipendenza e imparzialità al giudicante, e non certo un’immedesimazione del giudice col Popolo.

La legalità democratica può giovarsi del consenso sociale in società omogenee, altrimenti prevale il conflitto, ed è appunto il populismo che serve a creare un consenso artificiale, che si sostituisce alla prima. Così, i temi della sicurezza (penale, non certo sociale), o della sua percezione e della indotta risposta di giustizia sono sempre più evocati in chiave di rassicurazione collettiva (Fiandaca). Come ha scritto di recente Didier Fassin (Punire. Una passione contemporanea), «in linea di principio, di fronte ai disordini vissuti da una società, alla violazione delle norme e all’infrazione delle leggi, i suoi membri si affidano a una risposta fatta di sanzioni che alla maggior parte degli individui appaiono utili e necessarie. Il crimine è il problema, e il castigo la sua soluzione. Con il momento punitivo, è il castigo a diventare il problema». Dunque; paure, processi, pene, sempre più lunghe, o fisse. Sempre maggiori preclusioni. In barba alla Carta, e alla Corte, poiché siamo disposti a barattare un pezzo della nostra libertà e della legalità che la sorregge in nome della sicurezza (Pelissero). Un Paese inaridito e impoverito, imbavagliato da un paternalismo penal-giudiziario, in un “diritto penale massimo” (Ferrajoli), o “no limits” (Manes).

Prima dei processi, tuttavia, si invocano moralizzazione e castigo. Sulle macerie fumanti di una società in frantumi, nella quale il sistema politico tradizionale si è scomposto e ricomposto in un contratto scritto con l’inchiostro simpatico, si fanno strada moralizzatori e nuovi profeti di un palingenetico ritorno all’ordine. Ordine nuovo. Dio, patria e famiglia, come scrive Maran sul Foglio. Abbandonata l’interlocuzione con i corpi intermedi, s’impone l’idea di una rassicurante risposta a tutto ciò che invece è complesso. Si assiste dunque a una saldatura tra organi di governo nazionale e locale (ministri, prefetti, sindaci) che, con circolari, o addirittura per implicito, storcono garanzie, riducono l’habeas corpus e perfino rivendicano la disobbedienza alle decisioni giudiziarie o (all’opposto) predicano un’osservanza cieca alla legge, che ne precluda la necessaria interpretazione.

Il populismo promette comunione d’intenti e disprezza il dissenso, vive il conflitto e il meticciato come minaccia alla sua stessa esistenza. E allora ogni pensiero critico e libero diventa ostile alla causa moralizzatrice, la cultura un ostacolo, i princìpi dei lacci da sciogliere. E tuttavia, riprendendo l’aforisma di Mark Twain, «quando ti trovi d’accordo con la maggioranza, è il momento di fermarti a riflettere», giacché «il diritto, per sfuggire al rischio di porsi come dinamica autoreferenziale, deve essere giustificato filosoficamente a partire da opzioni valoriali che attengono alla concezione della Giustizia», anche se «il Diritto non è la Giustizia» (Derrida). Invece, si deve marcire in galera; prima gli italiani; i giudici si facciano eleggere, e via così.

Ma la strada è smarrita da un pezzo; di fronte al terrorismo, e poi allo stragismo fascista e mafioso, si rispose con leggi speciali, che son diventate ordinarie. Con Mani Pulite vi fu la saldatura del cerchio tra opinione pubblica e nuovi tribuni, mentre quelli agonizzanti con la saliva impastata sulle labbra offrivano traccia del loro tracollo in prima serata. Doppio binario, pene nascoste, pene terribili, una matière penale che in Alsazia riconoscono, e che qui si nasconde, o si nega. Città divise come il formaggio coi buchi, aree riservate, come al 41 bis, lancette che si fermano e processi infiniti; messaggi fuorvianti, in dispregio alla necessità di igiene linguistica (Palma), che fanno più danni (immediati) dei risultati cui tendono. Contrapposizioni e contraddizioni (chi oggi governa si dice antisistema); dicotomie (inclusione-esclusione, sovranisti-europeisti), dicono molto, ma non spiegano tutto. È una vecchia storia. Non spiegano, ad esempio, la rinuncia alla riforma dell’ordinamento penitenziario, sulla quale si era impegnato il Parlamento con voto di fiducia. Non spiegano l’indecenza del Memorandum d’intesa con la Libia, sottoscritto a Roma il 2 febbraio 2017, e prima ancora il Trattato di amicizia Italia-Libia, stipulato il 30 agosto 2008 dall’allora presidente del Consiglio Berlusconi e dal leader libico Gheddafi. Non spiegano i prodromi del turbamento emotivo. Non giustificano la cessione di sovranità della politica ai requirenti, lo scudo protettivo e il condizionamento, né, per converso, i dossieraggi di questi giorni. Erinni ed Eumenidi.

Le garanzie e le regole valgono non solo per i presunti innocenti, ma per i sicuri colpevoli (Giunta). Resta la base di tutto; d’après les règles. «È ciò che determina la categoria concettuale, l’istituto. Senza, i processi scompaiono, diventano travisamenti» (Nobili).

L’articolo è pubblicato anche su “Ristretti Orizzonti”

Gli autori

Michele Passione

Michele Passione è avvocato a Firenze. È stato componente dell’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane.

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