1.
Nella mitologia greca, Europa è il nome della giovane figlia di Agenore (o Fenice), re della Fenicia. La giovinetta si trovava sulla spiaggia con alcune compagne quando venne rapita da Zeus, trasformatosi in toro. I suoi fratelli presero subito il mare e si divisero per cercarla in ogni direzione. Presto si resero conto che la ricerca d’Europa era vana. Ma non potevano tornare indietro: il padre Agenore aveva loro proibito di ripresentarsi a lui senza la sorella. Così, nel loro vagare – dice il mito – i fratelli d’Europa fondarono molte città e finirono per stabilirsi ciascuno in un luogo diverso.
Il mito suggerisce l’origine comune, anzi la comune fratellanza delle tante popolazioni stanziatesi nelle varie parti di quella terra che noi chiamiamo Europa. Ma quelli che il mito ci invita a immaginare come fratelli d’Europa, come i discendenti dei fratelli d’Europa, lungo i millenni della storia sono divenuti gli uni per gli altri stranieri, spesso nemici. Come si dice: fratelli-coltelli. Lo straniero è fin dalle origini della nostra cultura una figura ambigua, ancipite, che non nega di per sé un’ideale, mitica fratellanza, ma è suscettibile di rovesciarsi nel suo contrario. Lo straniero per un verso è ospite, che è sacro dovere accogliere e rifocillare, ma per l’altro verso è ostile, nemico da respingere e combattere: in latino hospes e hostis hanno la stessa radice, sono i due volti dello straniero. Sarei tentato di suggerire qualcosa in più: lo stesso straniero, che appare come hospes privato, ospite da trattare come un fratello, viene mostrato come hostis pubblico, nemico da proscrivere e bandire. Ed è a questa dimensione pubblica che dobbiamo guardare, considerando la storia d’Europa.
Le città fondate dai fratelli d’Europa in un mitico, remoto passato si sono evolute, diventando – alcune più di altre – magnifiche, poderose, aggressive. Le loro relazioni prevalenti sono state sin dall’origine di ostilità. Proprio all’inizio del dialogo più tardo di Platone, le Leggi, il personaggio principale, lo straniero ateniese, rivolge questa domanda ai due interlocutori, il cretese Clinia e lo spartano Megillo: «Un dio, ospiti, o un uomo da voi ha fama d’esser stato autore delle vostre leggi?». Risponde Clinia: «Un dio, ospite, un dio è stato». E poco oltre, parlando di alcune istituzioni comuni a Creta e a Sparta, da tutti considerate come modelli di ottima costituzione, osserva: «Tutte queste cose, da noi, ci preparano alla guerra e mi pare che anche tutte le altre le abbia disposte il legislatore guardando a questo scopo. […] E così egli intese, mi pare, condannare la stoltezza dei più, i quali non comprendono che sempre c’è la guerra per tutti gli Stati contro tutti gli Stati, continuamente, finché duri il genere umano» (Leges, 624a-625e).
2.
Per suggerire un’idea adeguata della storia, Hegel la paragonava al bancone del macellaio. L’attività pubblica principale delle collettività umane, per la porzione di gran lunga maggiore del tempo storico, è stata la guerra. Non solo nella terra dei fratelli d’Europa. Ma qui, in questa porzione di spazio relativamente ridotta, con una intensità e continuità impressionante. Sembra che l’homo faber europeo si sia dedicato a edificare solo per distruggere. Si ricordi: quelle che chiamiamo guerre mondiali – e le chiamiamo così perché hanno coinvolto l’estremo occidente, gli Stati Uniti d’America, e l’estremo oriente, il Giappone – furono eminentemente guerre europee. Scatenate in Europa. Devastatrici di Europa.
Nei nostri comuni modi di pensare, lo stato opposto alla guerra, lo stato di pace, si presenta come una nozione debole, difficilmente definibile in altro modo se non appunto mediante la negazione del suo opposto: concepiamo la pace come assenza di guerra. È quanto dire che quello di pace non è un concetto indipendente; e non lo è perché percepiamo che la condizione prevalente nella storia umana è l’altra, la guerra. Perché la storia è storia di guerre, non (o più che) di pace? Forse la domanda è insensata, o mal posta. E comunque, le risposte più comprensive che possono venire in mente, la volontà di dominio, la volontà di sfruttamento, rischiano di essere tautologiche, e quindi non spiegano molto, c’è la guerra perché c’è sempre chi vuole la guerra, oppure spiegano troppo, c’è la guerra perché c’è sempre chi mira al bottino di guerra, ma non tutte le guerre sono guerre di rapina.
Più che la riflessione, peraltro ineludibile, sulle cause ultime (non delle guerre ma) della guerra come tale, sembra utile, forse, la ricerca e l’identificazione di quelli che chiamerei i molteplici fattori di ostilità che si sono manifestati nella storia come storia di guerre: dai più generali e ricorrenti a quelli più specifici e legati a determinate circostanze di tempo e di luogo. Ad esempio: in tutte le età, sotto ogni cielo e in ogni stagione della storia, fattore persistente di ostilità sono sempre state, e continuano a essere, le religioni, la diversità religiosa. Oppure: secondo un noto (e sorprendente) testo manoscritto di Marx, nell’antichità, ma più ampiamente in tutte le epoche premoderne, è la stessa forma comunitaria delle collettività umane a generare inevitabilmente la guerra; una tesi che si accorda pienamente alla pagina platonica che abbiamo letto prima. Ma non è questa l’occasione per tentare di delineare una tipologia dei fattori di ostilità.
Piuttosto, importa osservare che in età moderna si afferma sino a imporsi come protagonista sulla scena europea della storia una nuova figura della convivenza, destinata a rivelarsi subito come un fattore potentissimo di ostilità: la nazione, e la forma politica di collettività su di essa modellata, lo Stato nazionale.
3.
Bisogna essere subito chiari: la nazione non esiste. La signora Nazione (con la maiuscola), anzi le signore Nazioni – italica, ispanica, ma anche catalana o basca, franca, germanica… – sono prodotti contraffatti: sono un falso, nello stesso senso in cui diciamo che una moneta è falsa. E i falsari sono i nazionalisti. Illustri studiosi hanno mostrato con argomenti difficilmente scalfibili che non è dalla nazione che sono sorti i nazionalismi, al contrario sono i nazionalisti che hanno fabbricato l’idea della nazione e le hanno dato la sua pseudo-realtà, lo stesso tipo di realtà che ha una moneta falsa. I nazionalisti hanno inventato la tradizione nazionale, con un’operazione di bricolage biologico-etnico-etica, e linguistico-culturale: un’invenzione presentata come una scoperta, la creazione di un’identità collettiva presentata come una resurrezione. Le nazioni sono diventate realtà senza smettere di essere false, prendendo corpo negli Stati nazionali. Qui l’idea di nazione si è coniugata a quella di sovranità.
Un’idea ancipite, ambigua, doppia. Sotto la spinta della Rivoluzione francese, la nazione esibisce un’anima progressiva: promuove l’emancipazione dai localismi e dagli idiotismi, la trasformazione dei sudditi diseguali in cittadini eguali, tutti enfants de la patrie; ma allo stesso tempo rivela la sua natura guerrafondaia. Gli eserciti rivoluzionari della Grande Nation dichiaravano di combattere non contro le altre nazioni, ma per liberarle da imperi, dinastie, antichi regimi. Senonché, alle dichiarazioni non corrispondeva la realtà, che era quella di una guerra francese di conquista. E questa contribuì non poco a far nascere e crescere gli opposti nazionalismi, che per un verso animarono le guerre di liberazione, per l’altro favorirono in molti casi la trasformazione dell’idea di nazione e di identità nazionale nel vessillo dei conservatori e dei reazionari.
Peraltro, alcune correnti del pensiero progressivo si incamminarono presto sulla strada opposta rispetto all’affermazione del principio di nazionalità e della sovranità nazionale. Addirittura prima che l’idea stessa di nazione dilagasse nella cultura politica europea, erano nati i progetti di pace perpetua: quello dell’abbé de Saint-Pierre è del 1713, il celebre trattatello kantiano è del 1795. Ma il contributo più significativo, e insieme sorprendente, all’apertura di quel percorso contrario ai nazionalismi apparve nel 1814: si tratta del libretto di Claude-Henry de Saint-Simon e Augustin Thierry intitolato Riorganizzazione della società europea, in cui veniva delineata seppur in modo embrionale l’idea di un’Europa federale. In questa piccola opera si suole indicare il precedente più significativo del Manifesto di Ventotene. In realtà, il quasi-progetto di Saint-Simon e Thierry poggiava sulla teoria – di origine montesquieuviana – della progressiva affermazione dello spirito di commercio, che avrebbe sconfitto lo spirito di conquista nell’evoluzione delle società umane, e in tal modo condotto al superamento della bellicosità degli Stati nazionali. Una visione ottimistica che è stata duramente smentita dai fatti, da tutta la storia successiva: soprattutto nel Novecento, l’inimicizia tra le nazioni ha sprigionato una quantità immensa e una qualità orrenda di violenza. Fino all’epilogo della guerra civile europea, scatenato dal connubio estremo tra nazionalismo e statalismo, realizzato dagli Stati fascisti.
È questo connubio che costituisce il vero nemico da sconfiggere per gli autori del Manifesto di Ventotene.
4.
Quello che si conosce comunemente come Manifesto di Ventotene è un breve documento, frutto delle discussioni nate nel primo semestre del 1941 tra un gruppo di antifascisti confinati in quell’isola (ma in realtà era un carcere a cielo aperto, che diventava carcere chiuso di notte) e redatto da due di essi, Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi. Si articola in tre parti: le prime due, intitolate «Crisi della civiltà moderna» e «Compiti del dopoguerra. L’unità europea», furono scritte da Spinelli; la terza, intitolata «Compiti del dopoguerra. La riforma della società» fu scritta in gran parte da Rossi. Questa terza parte è ispirata al programma del movimento «Giustizia e libertà» e riformula idee e argomentazioni di Carlo Rosselli e di Gaetano Salvemini. Le altre due parti sono pienamente originali, pur se innestate su una lunga tradizione, che va dai progetti di pace perpetua al libretto di Saint-Simon e Thierry, alle opere di Carlo Cattaneo, e ancora al versante europeista del pensiero di Mazzini.
All’inizio, Spinelli richiama l’attenzione sul carattere ambiguo della «ideologia dell’indipendenza nazionale». Riconosce che essa «è stata un potente lievito di progresso: ha fatto superare i meschini campanilismi in un senso di più vasta solidarietà; […] ha fatto estendere entro il territorio di ciascun nuovo Stato alle popolazioni arretrate le istituzioni e gli ordinamenti delle popolazioni più civili». Ma quell’ideologia portava in sé «i germi dell’imperialismo […] sino alla formazione degli Stati totalitari e allo scatenarsi delle guerre mondiali» (pp. 9-10). La nazione, dice Spinelli, è ormai «divenuta un’entità divina»; la «sovranità assoluta degli Stati nazionali ha portato alla volontà di dominio di ciascuno di essi», e questa «non può acquetarsi che nella egemonia dello Stato più forte su tutti gli altri asserviti» (10). Ogni potenzialità positiva del principio di nazionalità si è rovesciata nel suo contrario: l’apertura all’eguaglianza di diritti tra tutti i cittadini si è capovolta nell’«instaurazione delle dittature» in nome della nazione e dell’interesse nazionale (11), e le dittature hanno inaugurato una «reazionaria civiltà totalitaria» (14).
Spinelli non dubita che il nazifascismo sarà sconfitto. Ma guarda con preoccupazione al dopoguerra: sopravviveranno «forze reazionarie», che «sapranno presentarsi ben camuffat[e], si proclameranno amanti della libertà, della pace, del benessere generale, delle classi più povere. […] Il punto sul quale esse cercheranno di far leva sarà la restaurazione dello Stato nazionale. Potranno così far presa sul sentimento popolare più diffuso […]: il sentimento patriottico» (20). Occorre contrastare questo pericolo con l’elaborazione di un programma politico radicalmente alternativo. Di qui, la dichiarazione del punto programmatico fondamentale: occorre mirare alla «definitiva abolizione della divisione dell’Europa in Stati nazionali». «Tutti gli uomini ragionevoli riconoscono ormai che non si può mantenere un equilibrio di Stati europei indipendenti» (21): l’unica soluzione è la federazione europea, un «nuovo organismo che sarà la creazione più grandiosa e innovatrice sorta da secoli in Europa» (23).
Il testo che Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi vollero intitolare Per un’Europa libera e unita fu concluso in prima stesura nel giugno del 1941, ma poi fu ripreso e riveduto in seguito. Nel 1944 Eugenio Colorni, giovane filosofo che aveva partecipato alle discussioni di Ventotene da cui il documento era scaturito, curò l’edizione poi riconosciuta come definitiva dai suoi autori, facendola precedere da una Prefazione illuminante, che ne ricostruisce non solo la genesi ma l’ispirazione fondamentale, e la individuava nel «bisogno […] di rienunciare i termini dei problemi politici con mente sgombra da preconcetti dottrinari o da miti di partito. Fu così che si fece strada – dice Colorni – l’idea centrale che la contraddizione essenziale, responsabile delle crisi, delle guerre, delle miserie e degli sfruttamenti che travagliano la nostra età, è l’esistenza di Stati sovrani, geograficamente, economicamente, militarmente individuati, consideranti gli altri Stati come concorrenti e potenziali nemici» (pp. 3-4).
L’idea non era nuova, ma doveva essere riproposta e riformulata in modo netto e radicale per combattere le sclerotiche abitudini di partiti e movimenti ad affrontare i problemi politici «partendo dal tacito presupposto dell’esistenza dello Stato nazionale», mentre «la prima mèta da raggiungere» doveva essere «l’instaurazione di un ordinamento federale che abbracci tutto il continente» (pp. 5-6). Di questa instaurazione, Colorni condensava in poche righe (siamo nel 1944!) i punti fondamentali: «esercito unico federale [cioè: superamento o abolizione degli eserciti nazionali], unità monetaria, abolizione delle barriere doganali e delle limitazioni all’emigrazione tra gli Stati appartenenti alla federazione, rappresentanza diretta [non indiretta tramite le istituzioni nazionali] dei cittadini ai consessi federali, politica estera unica» (p. 8).
In un passaggio per noi molto significativo, Colorni affermava: «l’idea di una federazione europea, preludio di una federazione mondiale, mentre poteva apparire lontana utopia ancora qualche anno fa, si presenta oggi, alla fine di questa guerra, come una mèta raggiungibile e quasi a portata di mano» (p. 6).
5.
Domandiamoci infine: il progetto di federazione europea delineato nel Manifesto di Ventotene è, a dispetto delle attese di Colorni, rimasto un’utopia? Oppure possiamo dire che quella istituzione sovra-statale e/o sovra-nazionale che chiamiamo Unione europea ha realizzato, seppur in modo alquanto imperfetto, l’utopia concepita (riformulata) in quel carcere fascista? La risposta non è affatto facile. Ma sarei tentato di rispondere: né l’uno, né l’altro.
Anzitutto, non è per nulla chiaro che cosa sia l’Unione europea. È forse riconoscibile come una federazione, quale era stata pensata nel progetto di Spinelli e dei suoi compagni? In un saggio abbastanza recente, Luigi Ferrajoli ha sostenuto – se così posso interpretare le sue tesi – che l’Europa presenta i caratteri della federazione se consideriamo il suo ordinamento giuridico, ma non se guardiamo all’organizzazione politica. Per dirlo in modo semplificato: il mondo europeo delle norme è federalistico, il mondo europeo dei poteri non lo è affatto. Come in uno Stato federale, le norme prodotte dalle istituzioni comunitarie entrano immediatamente in vigore negli Stati membri senza necessità di ratifica da parte dei loro parlamenti, sono superiori e prevalenti rispetto alle norme di livello (per così dire) statale-nazionale. Il che significa che gli Stati membri dell’Unione si sono privati di una parte, divenuta col tempo sempre più rilevante, della loro sovranità. Ma a questa diminuzione delle sovranità nazionali non ha corrisposto l’affermazione di una vera sovranità politica dell’Unione. Non esiste un potere europeo politicamente rappresentativo dell’insieme dei cittadini europei; al suo posto vi è un consesso internazionale di 27 Paesi nel quale non si decide a maggioranza, come accade in una universitas, in un soggetto politico collettivo, ma si procede per continue mediazioni pattizie tra gli interessi degli Stati membri dell’Unione, che questi fanno valere uti singuli.
Insomma: secondo il progetto ideale – l’utopia di Ventotene – l’Europa avrebbe dovuto diventare uno Stato federale, costituzionale e democratico. Dopo lunghi decenni di tortuoso e tormentato processo di integrazione, il cosiddetto e proverbiale «deficit democratico» dell’Europa persiste insuperato, fino all’assurdo: guardando alle sue istituzioni politiche, l’Unione continua a non avere i requisiti democratici che si richiedono agli Stati per farne parte. Il progetto di dotare l’Europa di una costituzione si è interrotto nel 2005 con la bocciatura in Olanda e in Francia del testo, peraltro assai poco attraente, proposto a referendum, ed è poi stato sostituito (surrogato?) dall’approvazione a Lisbona di una «costituzione per trattato», che chiamerei «semi-octroyée». E come abbiamo visto, l’Europa politica non è uno Stato federale. Anche e soprattutto perché, fin dall’origine del processo di integrazione nell’immediato dopoguerra, l’indirizzo promosso dal movimento federalista europeo, animato e guidato da Altiero Spinelli, fu contrastato dai fautori della confederazione, ossia del mantenimento sostanziale delle sovranità nazionali, e poi in modo più efficace dall’orientamento dei funzionalisti, che finì per prevalere. Questi miravano a un’integrazione graduale, spontanea, naturale «per settori e per funzioni», soprattutto sul piano economico. L’orientamento funzionalista aveva avuto le sue origini e i suoi banditori negli Stati Uniti. La loro «idea centrale», ha scritto Norberto Bobbio nel 1975 (!), «era la fine del primato della politica», per questo «oggi ci appare più chiaro di quel che apparisse allora che il funzionalismo era una prima avvisaglia della concezione tecnocratica del potere». Alcuni decenni dopo questa precoce diagnosi di Bobbio, l’affermazione dell’egemonia neo-liberale ha reso l’euro-tecnocrazia europea sensibile agli imperativi del mercato globale ma impermeabile alle domande sociali, e l’ha indotta a imporre agli Stati, in gran parte privati di sovranità economica, le regole della cosiddetta austerità. Suscitando malcontento diffuso e sfiducia politica. Rendendo fertile il terreno per quei partiti e movimenti che propugnano il ritorno alle sovranità nazionali. Per questo sono chiamati sovranisti. Sono i nuovi (anzi, i vecchi) nazionalisti, risorti fomentando l’astio anti-europeo.
È mai possibile non ci si avveda che la millantata «Europa dei popoli» o «delle nazioni» è un micidiale inganno, che in realtà è una non-Europa, è l’Europa dis-unita, l’Europa dei fratelli-coltelli? Che il sovranismo rischia di preparare gli stessi disastri del vecchio nazionalismo più reazionario? Come si può dimenticare che l’impulso federalista dell’utopia di Ventotene, pur ostacolato e contrastato da coloro che hanno fuorviato il cammino dell’unificazione, è comunque riuscito a strappare alcune grandi conquiste, come la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la Corte europea di giustizia, la Corte dei diritti? Che è grazie a quell’utopia se i fratelli d’Europa hanno avuto settant’anni di pace? Ma come diceva Machiavelli, «gli uomini si stuccono nel bene».
6.
Secondo gli usi più comuni, la nozione di utopia indica la rappresentazione (il disegno) di un mondo possibile, o meglio non impossibile, concepibile senza contraddizione, e desiderabile in base a una scala di valori condivisi; ma altamente improbabile, difficilmente realizzabile. Un mondo che non c’è, non c’è mai stato, e probabilmente non sarà; ma che può essere assunto come metro di giudizio del mondo che c’è, e come idea regolativa per guidare l’azione verso un mondo migliore, anche se questo non sarà mai perfetto e adeguato all’idea.
Tale è stata (ma vien proprio da dire «fu») in modo paradigmatico l’utopia del comunismo che ha attraversato tutta la storia della cultura occidentale, a partire da Platone. In un noto frammento giovanile, Marx scrive che l’umanità ha da sempre «il sogno di una cosa». Quando nel Novecento si è tentato di realizzare l’utopia, di portarla dal cielo delle idee sulla terra della vita concreta, non è passato molto tempo che il sogno di Marx si è rovesciato nell’incubo di Orwell. L’utopia si è capovolta. Quest’immagine fu coniata da Norberto Bobbio nel 1989, in un celebre articolo dedicato alla repressione del dissenso in Cina, alcuni mesi prima della caduta del muro di Berlino.
L’utopia di Ventotene, l’utopia di un’Europa unita e pacifica, pacifica perché unita, si è anch’essa capovolta? Sarà rovesciata, annientata dai nuovi nazionalismi, dai sovranismi? Lo sapremo presto.