«La povertà va abolita, non nascosta. Bambini con le toppe nei pantaloni non ce ne dovrebbero essere più, ecco tutto». Nel 1968, sul Corriere dei piccoli, Gianni Rodari rispondeva così a chi gli faceva osservare che se non ci fosse stato il grembiulino – allora si portava ancora – i bambini poveri avrebbero avuto l’umiliazione di mostrare “le toppe” nei pantaloni ai bambini ricchi, vestiti come figurini.
Le parole di Rodari sono sempre attuali, anche se oggi le differenze di abbigliamento fra ricchi e poveri non sono né rappresentabili, né riassumibili con la presenza o meno delle “toppe” nei vestiti. Ma anche a volerlo coniugare in termini più moderni, parlando, ad esempio, di capi o meno “griffati”, il discorso sull’uguaglianza garantita dal grembiule è, innanzitutto, di un’impressionante faciloneria: le scarpe o altri accessori, come, ad esempio, gli zaini, i piumini – spesso ben più costosi di un paio di jeans o di una maglietta – non vengono coperti dal grembiulino. E restano lì, ben in evidenza, a testimoniare la differente capacità o voglia di spendere delle famiglie degli allievi.
Non c’è bisogno di ricordare quanto, nel nostro Paese, la speranza di un abbattimento delle disuguaglianze fra le classi sociali sia ancora molto lontana dall’essere realizzata. E sarebbero necessarie molteplici azioni per assicurare quell’uguaglianza delle opportunità formative che il nostro sistema d’istruzione non è ancora in grado di garantire.
Occorrerebbe aumentare l’impegno culturale e finanziario per la scuola, l’università, e gli altri centri di formazione. Occorrerebbe riconoscere il valore delle “buone pratiche” che pur esistono nelle scuole, ma al tempo stesso promuovere la ricerca e l’innovazione nei metodi e nei contenuti. Occorrerebbe valorizzare la professionalità degli insegnanti.
Insomma, ci vorrebbe una radicale inversione di tendenza, che, però, non sembra proprio rientrare fra le principali preoccupazioni dell’attuale ministro dell’istruzione Bussetti. Il ministro, in compenso, non ha dubbi sull’effetto egualitario del grembiule e corre a sostenere l’utilità di questo indumento, non trascurando di farci conoscere le sue esperienze personali: «li ho indossati anche io, li ho portati e credo che permettano, dal punto di vista dell’inclusione sociale, di far sì che tutti gli studenti e i nostri alunni possano sentirsi a miglior agio all’interno delle classi». In realtà il suo obiettivo è di accodarsi a Salvini, che però ha parlato in termini ben più chiari, rivelando il vero obiettivo dell’“operazione grembiulino”: «Abbiamo appena reintrodotto l’educazione civica a scuola e vorrei che tornasse anche il grembiule per evitare che vi sia il bambino con la felpa da 700 euro e quello che ce l’ha di terza mano perché non può permettersela. Ma sento già chi griderà allo scandalo ed evocherà il duce, ma un Paese migliore si costruisce anche con ordine e disciplina». E aggiunge: «è soprattutto sui bambini che dobbiamo investire in educazione per non avere ragazzi che a vent’anni sono solo dei casinisti».
Non è possibile commentare qui l’idea abborracciata di educazione civica che la maggioranza parlamentare ha espresso attraverso questa proposta di legge e illustrare i problemi che la maldestra operazione creerà nella scuola italiana. Ma è bene sottolineare che nella mente di Salvini la reintroduzione dell’educazione civica e il rilancio del grembiule devono andare di pari passo. Hanno una funzione specifica: aiutarlo a superare la profonda diffidenza che ha nei confronti dei giovani. Ordine e disciplina rappresentano gli strumenti con cui Salvini vuole cercare di esorcizzare il pensiero critico, giungendo a bollare i ventenni che vogliono giudicare e discutere quanto accade nella nostra società con il termine di “casinisti”.
Si delinea, attraverso le sue parole, un’idea di disciplina che rievoca le caserme. E il grembiule diviene una divisa, come quelle che erano – e forse in qualche caso sono ancora – indossate nei collegi. E quando sento questo elogio dell’uniformità il mio pensiero corre inevitabilmente a uno dei peggiori collegi della storia della letteratura, quello povero e inospitale dove trascorre l’infanzia e l’adolescenza, Jane Eyre, protagonista dell’omonimo romanzo di Charlotte Bronte. Non pago dell’uniformità della divisa, l’inflessibile gestore pretende che anche ai capelli delle ragazze non siano consentite trasgressioni, e rimbrotta l’intelligente e tollerante direttrice che ha permesso che qualche ricciolo sfuggisse all’obbligo di una pettinatura liscia, semplice e modesta. Perché, se ci si mette su questa strada, la perfezione consiste nell’assoluta uniformità e i capelli devono essere o coperti o tagliati tutti allo stesso modo. L’obiettivo è quello di spegnere ogni creatività e di impedire quella ricerca della propria identità che ciascun ragazzo o ciascuna ragazza può compiere anche attraverso la scelta di un colore, del modo di indossare una camicia o di pettinare i propri capelli.
La lotta alle disuguaglianze che sembrerebbe stare tanto a cuore al ministro ‒ e anche ad alcuni opinionisti, come, ad esempio, Beppe Severgnini, che, se ho capito bene, la estenderebbe sino ai portapenne ‒, non si realizza facendo mettere il grembiule a tutti. Sarebbe ben più seria ed efficace in una scuola in cui gli edifici sono, in ogni parte del paese, sicuri e dignitosi; in cui si contrasta l’abbandono, che è ancora uno dei più elevati d’Europa; in cui si può contare su attività integrative e su percorsi personalizzati; in cui nei primi otto anni di obbligo le famiglie hanno maggiori possibilità di scelta a favore del tempo pieno e del tempo prolungato; in cui esiste un rafforzamento generalizzato della scuola del pomeriggio; in cui diminuisce, soprattutto nelle situazioni di più acuto disagio sociale, il numero di alunni per classe.
Queste sono le vere esigenze. E, non infondatamente, molti pensano che l’“operazione grembiulino” sia stata avviata per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dall’incapacità che l’attuale governo sta dimostrando nell’affrontare i problemi reali della scuola e non solo della scuola. È possibile, ma non si deve trascurare anche il messaggio che, nella sua ossessione autoritaria, Salvini ha voluto inviare al Paese attraverso le parole ordine e disciplina.
Ma, anche in questo caso, si può tornare a Rodari, che, affrontando il problema del grembiule, ha spiegato una volta per tutte che la scuola non deve essere una caserma e neppure un collegio ottocentesco come quello prima rievocato: «secondo me una classe non è veramente disciplinata quando ascolta immobile e impassibile le spiegazioni di un maestro, pena un brutto voto in condotta, ma quando si sta facendo una cosa interessante, così interessante che a nessuno viene in mente di guardare dalla finestra, o di tirare le trecce alle bambine o di leggere un fumetto sotto il banco».
Oggi è difficile che una bambina abbia le trecce, ma la differenza fra la scuola caserma e la scuola come luogo di trasmissione e di elaborazione di un sapere comune resta immutata.