La rappresentanza e i dilemmi del sindacato

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1.

Negli ultimi anni di una vita interamente dedicata al sindacato, Claudio Sabattini ripeteva quasi ossessivamente una domanda: «Come si fa a dare rappresentanza autonoma al lavoro nel mondo che sta cambiando, ammesso e non concesso che sia ancora possibile?». Eravamo agli inizi del secolo. Sono passati quasi vent’anni e siamo ancora fermi a quel quesito. Anzi, un po’ più indietro, visto che, non trovando risposte soddisfacenti s’è finito col rimuovere la domanda. Che, al contrario, andrebbe rimessa all’ordine del giorno, di fronte alle difficoltà in cui si dibatte il movimento sindacale. Da noi e nel mondo.

Tra processi oggettivi e carenze soggettive, le difficoltà sindacali sono leggibili persino nei semplici dati sulla crisi della sindacalizzazione, che riguardano tutto il mondo e in alcuni casi indicano un brusco declino. L’esempio più clamoroso è rappresentato dagli Stati Uniti, dove il tasso di sindacalizzazione negli anni Settanta era al 35% e oggi è ridotto al 10,7%, in particolare al 6,5% nel settore privato. Nella patria della deregulation la vita del sindacato è resa estremamente difficile dalle restrizioni sul diritto di coalizione e di sciopero, ma anche nella “garantita” Europa le cose per i sindacati non vanno benissimo. In particolare vanno male nei paesi dell’Est dove le percentuali di sindacalizzazione superano a stento la doppia cifra (Lituania 9%, Polonia 13%, Ungheria 16%, Repubblica Ceca 17,3%), con una tendenza in pesante flessione dopo l’ingresso di questi paesi nell’Unione europea e con una copertura contrattuale che in nessun paese, salvo la Slovenia, arriva al 50% del totale dei lavoratori. Le cose vanno un po’ meglio nell’Europa più ricca, ma nemmeno troppo. La sindacalizzazione è al 7,8% in Francia, al 15,9% in Spagna, al 18,8% in Germania. In Gran Bretagna le Trade Unions oggi hanno circa 7 milioni di iscritti, con un tasso di sindacalizzazione del 28%, quindi alto per la media europea, ma quasi dimezzato rispetto agli oltre 13 milioni di iscritti della fine degli anni Settanta. Va meglio nei paesi del nord Europa (si va dal 53% di sindacalizzazione del Belgio al 70% in Svezia, con una copertura contrattuale ovunque attorno al 90%) ma lì il sindacato gestisce i sussidi di disoccupazione e le Unions sono integrate nell’apparato dello Stato garantendo l’assistenza sociale.

Poi c’è il “caso italiano”. Stando ai dati da noi non si può parlare di crollo: secondo le autocertificazioni delle organizzazioni sindacali, un lavoratore su tre (il 32% del totale, un paio di punti in meno sull’inizio del secolo) è iscritto a un sindacato, mentre la copertura contrattuale tutela l’80% dei lavoratori grazie alla valenza erga omnes dei contratti nazionali. Quella aziendale – indicativa della presenza e dell’attivismo sindacale nei luoghi di lavoro ‒ è ben più bassa, attorno al 34%.

Vedendo più da vicino i dati del tesseramento della Cgil,emergono alcune indicazioni di merito sulla qualità della rappresentanza e sulle sue trasformazioni. In termini assoluti la Cgil nel 2017 (ultimo dato certificato disponibile) ha un numero di iscritti analogo a quello della fine del secolo scorso: 2.654.730 attivi e 2.545.000 pensionati, per un totale di 5.199.730. Nel 1990 il totale degli iscritti era 5.150.376, un po’ di più gli attivi (2.796.485), un po’ di meno i pensionati (2.353.891). Così, se focalizziamo l’attenzione sui lavoratori attivi – che indicano la vitalità di un sindacato di rappresentanza –, la Cgil sembra uscire indenne dalla tempesta che ha falcidiato gli altri sindacati europei tra la fine del ventesimo e l’inizio del ventunesimo secolo. Un nuovo “caso italiano”, una sorta di trasferimento in ambito sociale di quello che per alcuni decenni si era detto sul terreno della politica, con il “sindacato rosso” a prendere il posto del “partito di classe”, una volta dissoltosi quest’ultimo?

Forse, ma ciò non spiega le difficoltà del mondo del lavoro e dei suoi rappresentanti. Infatti se ai dati del tesseramento Cgil affianchiamo quelli sull’andamento dell’occupazione, la crisi della rappresentanza emerge e si racconta. Vediamo: nel 1990, la Cgil ha 2.796.485 iscritti su un totale di 16.405.000 lavoratori dipendenti; nel 2000, 2.374.440 iscritti su 16.882.000 attivi; nel 2010, 2.661.183 su 18.885.000; nel 2017, 2.654.730 iscritti su 18 milioni e mezzo circa di lavoratrici e lavoratori dipendenti (i dati precisi di quest’anno non sono ancora disponibili). Come si vede, tra l’inizio e la fine degli anni qui presi in esame i lavoratori dipendenti sono aumentai di circa due milioni di unità, mentre gli iscritti alla Cgil sono calati di circa 100.000 unità.

La forbice che si è aperta tra la rappresentanza e la sua platea è un sintomo di stagnazione e d’immobilismo rispetto ai cambiamenti del mondo del lavoro, confermato da qualche dato sulla composizione del medesimo. Infatti a partire dagli anni Ottanta-Novanta, da un lato è cresciuto il peso del lavoro autonomo (spesso tale solo giuridicamente ma in realtà subordinato), che oggi sembra essersi stabilizzato attorno ai 5 milioni e mezzo di unità; dall’altro lato è cambiata la composizione del lavoro dipendente, con un forte travaso dall’industria ai servizi (tra il 2000 e il 2010 l’industria ha perso 540.000 addetti, i servizi sono cresciuti di 2.400.000 unità) e con un forte aumento del lavoro “insicuro” in tutti i comparti produttivi, dal privato al pubblico: nel 2017 su 18 milioni e mezzo di lavoratori dipendenti, meno di 13 milioni erano assunti a tempo indeterminato, tutti gli altri – più di cinque milioni – avevano contratti “temporanei”, soprattutto a termine e in somministrazione, in misura minore a part time; forme contrattuali che vent’anni fa non esistevano o avevano scarsissimo peso. È presumibile che la Cgil abbia pagato questo cambiamento non riuscendo a rappresentare queste forme di lavoro, quelle cui sono stati condannati i giovani del ventunesimo secolo. E questo apre il discorso di merito sulle ragioni della crisi della rappresentanza sindacale.

2.

Tra le cause più comunemente evocate per spiegare la crisi della rappresentanza sociale e il declino del peso del sindacato c’è sicuramente la globalizzazione, o meglio la difficoltà d’affrontarla. Mentre il capitale si è internazionalizzato le organizzazioni dei lavoratori sono rimaste aggrappate a una dimensione nazionale inadeguata a fronteggiare la nuova dimensione della divisione del lavoro, a volte persino a comprenderla. Con una conseguente caduta di forza contrattuale e rilevanza politica. Così in Europa oggi ogni sindacato nazionale procede per conto proprio e per proprio conto perde. Invece di costruire – almeno in prospettiva ‒ un “contratto europeo” allargando i confini dei contratti nazionali e di avere regole comuni per combattere la concorrenza tra i lavoratori, l’unità d’azione sindacale si limita, nel migliore dei casi, a scambi di informazione.

Troppo poco per contrastare debolezze e delegittimazioni. Troppo poco, soprattutto di fronte a un altro elemento strutturale dell’attuale fase capitalistica: la parcellizzazione delle attività lavorative e la costruzione di reti e filiere lunghe in cui la condizione del lavoro si frammenta. Una frantumazione che le imprese – e dietro di loro la finanza – possono controllare anche tecnologicamente grazie all’organizzazione informatica della produzione, mentre per i lavoratori comporta una dispersione in mille rivoli e persino in luoghi diversi tra loro. Un bel problema per chi vuole coalizzare il lavoro subordinato partendo – giustamente – dalle sue condizioni e raccogliendo il suo punto di vista. Guardiamo, per limitarci a un solo esempio, alla logistica dove chi trasporta una componente meccanica o chi confeziona o consegna un pacco Amazon è completamente separato da chi fabbrica quelle merci, risponde solo a un sms o una app. Ma nessuno può dire che sia più libero o più ricco del suo antenato magazziniere o carrellista che era dipendente diretto dell’azienda di produzione o trasporto.

Il capitalismo tende a dividere. Lo ha sempre fatto. Ma oggi lo fa strutturalmente, è più libero di un tempo da vincoli logistici e tecnologici. Ed è questa maggiore libertà che lo ha reso più forte anche ideologicamente. L’impianto della sua ultima rivoluzione rovescia gli assi cartesiani del conflitto sociale, spingendo le persone a combattersi tra loro, nascondendo le contraddizioni dietro l’astrazione del mercato e celando l’avversario reale dietro una rete di managerialità tecnica. Il nemico non è più il padrone (o i suoi derivati) ma l’altro da sé, l’altra persona, l’altra azienda, l’altra città, l’altra nazione, l’altro continente. E tutti gli “altri” che fanno parte di azienda, città, nazione, continente.

Il sindacato per sua natura è una coalizione d’interessi. Deve unire, altrimenti non è, oppure è altra cosa, una corporazione, un’associazione di servizi, un insieme di burocrati. Su questo principio ha costruito la sua storia e anche le sue strutture. Verticali, sulla falsariga dell’avversario di un tempo, che ne appesantiscono e rallentano l’azione. Così oggi ai problemi di merito – agli errori di analisi e contenuti – si aggiunge un nodo strutturale, la necessità di una ridefinizione anche organizzativa. E l’urgenza di capire come farlo senza rinunciare al proprio “scopo sociale”, per comprendere su quale strada mettersi.

Che difficilmente potrà essere quella che troppo spesso, nell’ultimo trentennio, ha trasformato la mediazione in compatibilità. L’organizzazione sindacale è portata per sua natura alla mediazione tra interessi e punti di vista diversi, tra capitale e lavoro, tra aziende e lavoratori. Finché cerca soluzioni interpretando il conflitto sociale, finché ne insegue una sintesi, svolge un ruolo dinamico e autonomo. Poi i risultati variano nelle diversi fasi storiche e in relazione ai rapporti di forza tra le classi o le parti. Ma se questi ultimi – che da tempo non sono favorevoli ai lavoratori – diventano l’alibi per cambiare la propria cultura e infine la propria natura, per rassegnarsi alla supremazia dell’avversario e cercare in esso la principale fonte di propria legittimazione, oppure quando si rinuncia alla propria autonomia accettando le ragioni del mercato o del quadro politico, allora la cultura della mediazione diventa cultura della compatibilità. E l’organizzazione sindacale si riduce a uno dei tanti soggetti che compongono il quadro istituzionale. Importante, ma altra cosa da una rappresentanza di valori e interessi.

3.

Su questo terreno, sul nodo dell’autonomia dalle imprese e dal quadro politico, negli ultimi trent’anni il confronto – e anche lo scontro – è stato acceso, almeno dentro la Cgil, ma anche in altri sindacati europei. E non si è trattato “solo” di un dibattito sulla teoria dell’indipendenza sindacale, ma il misurarsi con le trasformazioni radicali del sistema capitalistico, con le sconfitte campali maturate attorno agli anni Ottanta del secolo scorso che hanno accompagnato – dai controllori di volo di Reagan ai minatori della Thatcher, dai 35 giorni della Fiat al referendum sulla sala mobile – l’avvento del neoliberismo, con i suoi effetti brutali sulla carne viva delle classi operaie occidentali. Stravolgendone poteri e diritti e mettendo inevitabilmente in discussione il sindacato e la sua natura di rappresentanza democratica.

Nelle strategie sindacali la concertazione ha preso sempre più spazio ai danni della contrattazione, quando, nel tentativo di arginare i guasti delle ristrutturazioni capitalistiche e del liberismo, le centralità sono diventate le politiche generali ‒ nell’illusione d’indirizzarle, insieme a governi e imprese ‒ allontanandosi dai luoghi di lavoro e accentrando le decisioni. In Italia, l’esempio più clamoroso di questo rovesciamento del senso della rappresentanza è costituito dagli avvenimenti del biennio 1992-93: con il congelamento salariale, i lacci messi alla contrattazione e alla democrazia sindacale in nome delle politiche anti-inflattive necessarie per avviare il percorso della moneta unica europea; per poi cercare un recupero impossibile con la politica dei redditi caratterizzata dal contenimento salariale, mentre partiva l’attacco definitivo al welfare e iniziava una infinita serie di riforme previdenziali come principale mezzo utilizzato dai governi per fare cassa. Un biennio disgraziato, da cui il sindacato è uscito trasformato: “usato e gettato” sul piano istituzionale, che aveva scelto come terreno principale d’azione, e indebolito nel rapporto con i propri rappresentati.

Ma la concertazione è stata fallimentare soprattutto perché impossibile. Era un tentativo di gestione politica della crisi che non coglieva il cambiamento strutturale in corso e la nuova “soggettività” capitalistica. Quella secondo cui il lavoro è semplicemente una merce; o, meglio, deve tornare a esserlo.

Questa concezione merceologica del lavoro è oggi largamente prevalente, ne variano i toni, se ne articolano le modalità ‒ più o meno rigide ‒ non la sostanza. È arginata solo in rari luoghi in cui il lavoro conta (per collocazione professionale) o pesa (per forza contrattuale). Ma come insegna la vicenda Fiat-Fca, la parola d’ordine delle imprese è “esigibilità”: potere disporre liberamente della prestazione lavorativa, degli orari, di tutto il tempo della vita, senza dover discutere con nessuno, senza dover render conto a chicchessia, senza vincoli di alcun tipo. È emerso, appunto, clamorosamente nello scontro tra Fiom e Marchionne da Pomigliano a Mirafiori, con l’Ad di Fiat a spiegare che i lavoratori devono considerarsi “combattenti aziendali nella guerra per la sopravvivenza” contro i lavoratori delle aziende concorrenti e per questo non è data loro altra appartenenza o identificazione se non quella dell’azienda e con i suoi destini, cui bisogna “dedicare tutti se stessi”.

È in questa realtà che ha messo le radici sociali la tendenza alla cosiddetta disintermediazione, l’attacco ai corpi intermedi ‒ prepotentemente emerso nell’ultima fase politica – che raccoglie consensi tra gli stessi lavoratori e vede nel sindacato uno dei suoi principali obiettivi: è un’altra eredità della stagione della concertazione e dei suoi fallimenti.

4.

Tutte queste difficoltà per la rappresentanza del lavoro, maturate negli anni della globalizzazione e del neoliberismo, si sono radicalizzate con la crisi economica scoppiata nel 2008. Una crisi caratterizzata dal prevalere della sua natura strutturante della fase economica, della sua continuità nel tempo e, quindi, del suo essere un meccanismo di selezione non temporaneo ma permanente, ben diversa dai tempi dei cicli sviluppo-crisi-nuovo sviluppo. A indicare che la crisi sia diventata la natura del capitalismo globale non sono solo le volatilità dei mercati, le loro continue tensioni e incertezze e nemmeno l’enorme numero di imprese che chiudono o le concentrazioni dei capitali in enormi holding.

Oggi la crescita è frantumata in linee spezzate, tra recessioni e sviluppo, che convivono in uno stesso luogo o si susseguono con una rapidità straordinaria. Mettendo, alla fine, in discussione il concetto stesso di sviluppo per come era stato inteso dall’800 in poi. Che potrebbe essere anche una buona cosa, se ne mettesse in discussione la qualità e la voracità con cui ha consumato le risorse, le persone, il pianeta portandolo alla soglia del collasso. Ma il problema è che di quella crescita, ciò che è saltato è l’equazione sviluppo/progresso, a partire dal principio redistributivo. Il capitalismo non è più sinonimo di sviluppo: che non lo sia per tutti è chiaro da sempre, ma che non lo sia in assoluto rappresenta un salto di qualità non di poco conto. I capitalisti ne hanno ormai piena coscienza, mentre a sinistra tra gli eredi della cultura marxista è una convinzione che si fa strada con fatica e in molti non se ne sono ancora per nulla convinti e attendono in fiduciosa attesa il nuovo progresso mondiale.

Questo carattere strutturale della crisi, questo collasso dello sviluppo e delle sue potenzialità redistributive di un benessere che andrebbe “solo” gestito diversamente o “strappato” dalle avare mani di pochi, rappresenta un bel problema per il sindacato. Che è nato sullo sviluppo e sulla sua redistribuzione, mentre, al contrario, nella realtà odierna – ma già da almeno un ventennio – gran parte dell’azione sindacale è assorbita dalla gestioni delle crisi, dal “macro” al “micro”, dalle scelte generali a quelle particolari: chiamato a dare la propria “copertura” alle crisi economiche o finanziarie, alle “riforme” strutturali; costretto alla contrattazione difensiva o a rincorrere azienda per azienda dismissioni e licenziamenti. Nella vita quotidiana di un qualsiasi funzionario sindacale, a qualunque livello, di qualunque categoria e di qualunque paese occidentale, il 90% dell’attività è assorbito dalla gestione di crisi di ogni tipo, piccole o grandi, mentre è ridotta al lumicino quella che un tempo veniva chiamata “contrattazione offensiva o migliorativa”.

È un’intera cultura politica sindacale – cresciuta in decenni di lotte, vittorie e sconfitte – a essere messa in discussione; non da un’altra cultura sindacale, non da una critica più o meno radicale su strategie o tattiche, ma da un cambiamento di paradigma operato dall’avversario che toglie ai sindacalismo strumenti e ruolo. È una rivoluzione nello stretto senso del termine e per affrontarla servirebbe un’altra rivoluzione, d’intensità almeno uguale e in senso contrario. Basta pensare alla contraddizione ambientale, al concetto di “limite” che si scontra con quello di “crescita” e a come tutto questo si traduce quotidianamente nei luoghi della produzione – non solo industriale – e del consumo, a come impatta sulla questione occupazionale in una fase in cui il lavoro è sempre più comunemente concepito come “merce rara e preziosa”. Al sindacato, a tutto il mondo del lavoro, servirebbe una rivoluzione culturale per rovesciare il primato dell’economia sulla natura, privilegiando il “cosa” e il “come”, piuttosto che il “quanto”, quando si parla di prodotti, servizi o infrastrutture. Ma per fare questo serve un livello di autonomia – di vera e propria indipendenza – dal pensiero corrente che è tutta da costruire e che chiama in causa la soggettività dell’organizzazione sindacale, per nulla esente da profondi travagli d’identità.

5.

È corretto dire che se il lavoro è in difficoltà anche per il sindacato la vita è difficile. Ma ciò non basta a spiegare le responsabilità, non può giustificare gli errori commessi, le cause “soggettive” della crisi della rappresentanza sociale.

Il sindacato, almeno in Italia, ha colto con molto ritardo – e nemmeno ancora appieno – la portata dei cambiamenti epocali dell’economia politica capitalistica. A differenza della sinistra politica non ha – almeno la Cgil – sbandato sull’infatuazione per una globalizzazione vista come fattore di certo progresso e automatico aumento della ricchezza per tutti. Tuttavia nemmeno il sindacato si è sottratto completamente al neopositivismo che sottovalutava la portata del neoliberismo e, in questo modo, non ha visto in tempo le trasformazioni. In molti, nella Cgil, fino a pochi anni fa hanno continuato a ritenere possibili le “politiche di scambio” (prima fra tutte tra garanzia occupazionale e compressione salariale) o una “ritirata ordinata” sul tipo di quella iniziata negli anni Ottanta di fronte alle prime grandi ristrutturazioni industriali (sperando di governare le riorganizzazioni produttive come un momento transitorio in attesa di una futura ripresa). In sintesi, non cogliendo che il nuovo modello di “sviluppo” che si affermava aveva come tratti organici e non reversibili i tagli occupazionali, la compressione dei salari, la piena disponibilità delle imprese sulla condizione lavorativa, la trasformazione del welfare state in un business privato. Solo pochi sindacalisti – in Italia e in Europa – affermavano fin dagli anni Novanta che “non c’era più nulla da scambiare” e che il governo dei processi era totalmente sfuggito dalle mani delle organizzazioni sindacali, a tutti i livelli, dai luoghi di lavoro ai vertici confederali.

Si è preferito spostare il baricentro della propria azione sul terreno delle politiche generali: l’ultimo decennio del secolo scorso è stato paradigmatico, da questo punto di vista, con il sindacato confederale che si trasformava vieppiù in una istituzione politica – in senso lato – e che spendeva le sue principali attenzioni ed energie sul terreno della politica e delle istituzioni statali, nella già citata concertazione a tre con governi e organizzazioni padronali. Cosa che, da un lato, ha cancellato definitivamente ciò che restava dell’eredità consiliare degli anni Settanta, ha rinsecchito il rapporto con la propria base e ha messo a rischio le stesse relazioni tra camere del lavoro, federazioni di categoria e confederazioni. Dall’altro lato ha sbilanciato sempre più le organizzazioni sindacali sul terreno della politica propriamente detta, facendone vacillare l’autonomia e rischiando un ritorno a quella subalternità che era stata cancellata dalle lotte degli anni Sessanta e, in Cgil, dal successivo superamento delle componenti di partito.

Su questo si è anche innescato, paradossalmente, il ruolo di supplenza che il sindacato italiano ha assunto ‒ con la fine della “prima repubblica” e la crisi dei partiti di massa – come principale risorsa per l’opposizione ai governi di centro-destra del ventennio berlusconiano, potendo contare su una massa critica da mobilitare, a differenza di partiti (suicidatisi o diventati liquidi al limite dell’evaporazione). Una supplenza d’opposizione che si rovesciava regolarmente in subalternità alle politiche dei “governi amici” quando il pendolo della politica passava dal centro-destra al centro-sinistra. Così gli scioperi e le manifestazioni, che nell’autunno del 1994 mandarono in crisi il primo governo Berlusconi sul taglio delle pensioni, si sono presto ridotti all’accettazione della riforma previdenziale del governo Dini. Così i tre milioni con Cofferati al circo Massimo del 23 marzo 2002 sono sfumati negli arretramenti sociali della “finanziaria scritta a quattro mani con Prodi” millantata da Epifani nel 2007. Giustificando con lo stato di necessità i sacrifici più dolorosi, ma anche sprecando importanti occasioni, come quando la Cgil nel biennio 2008-2009, di fronte agli accordi separati confederali, alle deroghe per legge ai contratti nazionali e al sacrificio della democrazia sindacale reagiva con un nuovo Circo Massimo – ben più piccolo di quello di sette anni prima – dove ci si limitava a chiedere un tavolo di confronto per riaprire il dialogo interrotto con governo e Cisl e Uil.

Dall’opposizione alla subalternità, il rapporto con la politica ha nuociuto gravemente alla rappresentanza sociale, fino ad arrivare a veri e propri assurdi logici come affidare un nuovo “piano del lavoro” all’esito delle elezioni del 2013, scommettendo sulla vittoria elettorale della coalizione guidata da Bersani e a un possibile incarico da ministro del lavoro per qualche ex leader sindacale. Che poi non sia andata proprio così forse non è un caso. E nemmeno è frutto della sorte che in tutti questi anni si sia accumulato un rancore, – prima sordo e poi esplicito, contro il sindacato, accomunato alla “casta” in sintonia con ciò che avviene a livello sociale, in un dilagare qualunquista, pericoloso ma non privo di motivazioni e diffuso fin nei luoghi di lavoro dove il sindacato deve trovare le ragioni e la base della propria rappresentanza.

6.

Nonostante questa massa di problemi il sindacato rimane, non solo in Italia ma in buona parte dell’Europa più ricca, l’unica organizzazione di massa (se si escludono quelle religiose e di volontariato). È l’unica eredità viva della sinistra novecentesca, una potenziale risorsa per qualunque cambiamento delle relazioni sociali. Ma, contemporaneamente, questo patrimonio e queste potenzialità non garantiscono nulla, né rispondono alla domanda iniziale: il sindacato può avere un futuro?

Una risposta precisa non c’è, ma per iniziare a cercarla bisogna partire dalle rimozioni vissute negli ultimi anni del Novecento per riscoprire, invece, lo “scopo sociale” delle origini.

Bisogna proporsi una pratica democratica che ridia voce e potere ai lavoratori e che sia la base per ricostruire la conoscenza dell’organizzazione del lavoro e dei suoi meccanismi; allargare la rappresentanza a tutte le forme del lavoro subordinato, anche quelle fintamente autonome, per essere la coalizione sociale del lavoro e riunificare ciò che il capitale divide; porre l’indipendenza (dalle imprese e dalla politica) come discriminante per ogni valutazione e scelta; rinnovare organizzazioni oggi troppo irrigidite, fatte di troppi funzionari e troppo pochi delegati di produzione e allargare il “terreno” della contrattazione alla società; cambiare il proprio sistema di comunicazione ritornando a parlare una lingua comprensibile ai lavoratori; e infine non avere paura del conflitto, non temere di dire “non siamo d’accordo”, perché non è mai obbligatorio concludere un negoziato con una firma.

Da questo punto di vista, l’ultimo congresso nazionale della Cgil apre una possibilità. E non solo per il suo esito finale, che tutti hanno voluto semplificare nell’elezione a segretario generale di Maurizio Landini, le cui qualità umane e sindacali possono dare una scossa alla Confederazione (anche grazie a una comunicazione che “arriva” e ridesta passioni). Ancora di più conta che la sua elezione sia arrivata dopo una discussione che può essere l’avvio di una ridefinizione del senso e delle pratiche sindacali. È nello scontro con le politiche sul lavoro del centro-sinistra – culminate con Renzi – che la Cgil ha iniziato a praticare davvero l’autonomia da quello che, comunque, in moltissimi tra dirigenti e iscritti ancora riconoscevano come l’erede del partito di riferimento, il Pd. È stato nella necessità di costruire delle proprie proposte (un nuovo statuto dei lavoratori, una campagna referendaria contro il Jobs Act, une serie di vertenze territoriali e di categoria, dall’industria al commercio ai braccianti immigrati) che il maggior sindacato italiano ha messo le basi materiali per un congresso non rituale, più partecipato di altri e che senza questi passaggi non avrebbe mai avuto un esito impensabile solo un paio d’anni fa. In sostanza, per ridefinire almeno un metodo di lavoro (di ricerca e di pratica) per ricostruire una propria visione del mondo (e un’agenda) spostando lo sguardo dal “centro” alle “periferie”, dagli sfruttatori agli sfruttati per intercettare il malessere e il bisogno del cambiamento evitando che virino nel corporativismo e nel conflitto orizzontale.

Un sindacato molto “politico”? Forse a qualcuno potrà sembrare così e storcerà il naso. Ma nell’era in cui il lavoro subordinato è privo di rappresentanza politica, se non ci si vuole accomodare al ruolo di sindacato di servizio o – peggio – di mercato, questa politicità è inevitabile. Non è una nuova supplenza in attesa che i “titolari” ritornino in cattedra. È la radice di una storia; certamente antica, forse anche nuova.

Una versione più ampia dell’articolo è in corso di pubblicazione in “Alternative per il socialismo”

Gli autori

Gabriele Polo

Gabriele Polo, giornalista e scrittore, è stato, tra l’altro, direttore de “il manifesto” dal 2003 al giugno 2009.

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