Nel 1919, con l’approvazione della Costituzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), venne introdotto tra i diritti fondamentali dei lavoratori quello al “living wage”, il diritto a percepire un salario che permettesse di vivere. Non era e non è una norma vincolante e ogni Stato membro era chiamato a decidere sulla sua applicazione. Il principio è stato confermato nella Costituzione italiana all’articolo 36 e per decenni ha influenzato la contrattazione tra le parti sociali e la giurisprudenza. Il diritto a un salario dignitoso è stato comunque un terreno di lotta sociale e sindacale permanente e ancora oggi si presenta in questi termini.
Sempre nell’ambito dell’OIL si è discusso per dare vita a una Convenzione internazionale in materia e i rappresentanti dei lavoratori hanno proposto di ribadire questo diritto fondamentale mentre gli imprenditori hanno sempre respinto questa proposta: il termine “living” non doveva comparire.
Oggi più di un miliardo di lavoratori percepisce un salario da fame[1]. Non solo, ma la riorganizzazione produttiva e del lavoro in corso sta estendendo questo fenomeno. Anche in Italia, a partire dagli anni Novanta e soprattutto dopo la grande stagnazione iniziata nel 2008, il lavoro ha subìto profonde trasformazioni sgretolando non solo la sua tradizionale composizione ma anche i cicli di lavorazione e alla fine la stessa contrattazione collettiva, soprattutto nel settore dei servizi. Basta dare un’occhiata all’archivio dei contratti nazionali del CNEL per sorprendersi della fantasia e della varietà delle associazioni firmatarie.
Per conoscere comunque il grado di copertura offerto dalla contrattazione collettiva si deve ricorrere al recente rapporto dell’istituto di ricerca del sindacato europeo e scoprire che in Italia è dell’80%. Sono cioè tutelati 4 lavoratori su 5[2] mentre sono esclusi dalla tutela alcuni milioni. Sempre nello stesso rapporto si evidenzia come il grado di copertura del salario minimo nei Paesi europei che l’hanno adottato è passato dal 40% della retribuzione media del 2000 al 50% del 2017 mentre il tasso di adesione al sindacato è passato dal 49 al 27% negli ultimi 25 anni (ma va anche considerato il venir meno dei sindacati nell’est europeo) e l’andamento degli scioperi è passato dai 106 giorni ogni 1000 lavoratori del 1990 ai 16 giorni del 2016.
Comunque in Europa lo strumento del salario minimo ha limitato il deterioramento delle retribuzioni e si è progressivamente esteso: ultima la Germania che lo ha introdotto a partire dal 2014. Il salario minimo non è presente in Italia, a Cipro e nei tre paesi del nord Europa Danimarca, Svezia e Finlandia[3].
Le informazioni e i commenti che seguono sono tratti dal rapporto di ricerca citato.
Per fare alcuni esempi, a gennaio 2019 il salario minimo per ora lavorata era di 10,03 euro in Francia, di 9,19 in Germania e di 8,85 nel Regno Unito; agli ultimi posti la Bulgaria con 1,72 euro e la Romania e l’Ungheria, rispettivamente con 2,68 e 2,69 euro. Purtroppo dopo la crisi del 2008 non ci sono più studi sull’effettivo potere in termini di minuti o ore lavorate per acquistare un bene. I metodi calcolo cambiano in parte da Paese a Paese e così pure le procedure di consultazione delle parti sociali da parte dei Governi, ma la loro rivalutazione è sempre oggetto di proposte e di azioni da parte delle organizzazioni dei lavoratori che recentemente hanno portato, in Francia e in Spagna, a rivalutazioni del salario minimo. Finalmente c’è stata un’importante rivalutazione in Grecia. Negli Stati Uniti c’è un diffuso movimento per la realizzazione di una salario minimo di 15 dollari l’ora che era parte del programma del candidato democratico e socialista Bernie Sanders ed è ora diventato proposta di legge depositata al Congresso dei parlamentari democratici.
Nel calcolo del salario minimo si tiene conto del livello medio della retribuzione dei lavoratori per cui, banalmente, è noto quanto mediamente guadagnano i lavoratori per confrontarlo con altri redditi. Nel Regno Unito, dove l’evasione fiscale non ha la diffusione che noi conosciamo, si può confrontare il reddito di un lavoratore subordinato con quello di un lavoratore autonomo e proprio in questi mesi le Trade Unions hanno aperto una polemica nazionale sul falso lavoratore autonomo che svolge le stesse attività di un lavoratore dipendente con metà della paga. Un secondo aspetto è che il salario minimo deve essere rivalutato di anno in anno in relazione al tasso di inflazione. Ma se deve essere rivalutato il salario minimo perché non dovrebbero essere rivalutati anche gli altri salari?
In Germania c’è una contrattazione collettiva nazionale che, peraltro, inizia sempre in qualche Land. Orbene, l’introduzione del salario minimo non ha avuto effetti particolari sul sistema di relazioni sindacali (che sono proseguite sia sul salario che sull’orario di lavoro) mentre ha ridotto le diseguaglianze tra lavoratori[4].
All’inizio di quest’anno il ministro del lavoro tedesco Hubertus Heil ha proposto di avviare una discussione per l’istituzione di un salario minimo europeo. La Confederazione sindacale europea sta predisponendo uno studio in questo senso. Stanti le differenze tra gli importi massimo e minimo (espressi rispettivamente da Francia e Bulgaria) la discussione non si presenta facile ed è evidente che almeno in parte la proposta tende a contrastare i processi di esternalizzazione verso l’est europeo. Comunque la questione delle diseguaglianze tra lavoratori in Europa è posta e agire per ridurle è indispensabile anche per contrastare le derive di destra in corso.
Due sono le principali obiezioni alla proposta di salario minimo: la prima riguarda un suo possibile uso come strumento per superare la contrattazione collettiva nazionale e la seconda muove dal fatto che in molti Paesi europei dove vige il salario minimo non esistono i contratti collettivi nazionali. Se stiamo però ai dati concreti non possiamo non evidenziare, ad esempio, che i lavoratori italiani, anche in presenza della contrattazione collettiva nazionale, fanno parte di quella minoranza di lavoratori di paesi europei dove i salari reali sono diminuiti[5].
La contrattazione collettiva nazionale per settore merceologico ha funzionato nella fase dello sviluppo manifatturiero sino alla fase fordista in cui serviva a regolare la concorrenza tra lavoratori e anche tra imprese. Ma ora, con la deregolazione sia nel corpo della classe lavoratrice che nella struttura produttiva, con esternalizzazioni e delocalizzazioni di imprese e rami d’impresa, il primo obiettivo è inevitabilmente quello di contrastare la corsa verso il basso dei redditi e delle condizioni di tutti i lavoratori.
Usando un vecchio linguaggio: chi sono i nostri? Oggi quel lavoratore ogni cinque che non ha tutela e lavora, (come ancora avviene dopo la sentenza d’appello relativa a Foodora) a 3,50 euro l’ora, pare non farne parte e non ne farebbe parte neppure estendendo erga omnes i contratti collettivi nazionali. Molto della crisi di rappresentanza del sindacato e del venir meno di una vita associativa tra lavoratori attiene proprio alla domanda iniziale: il sindacato deve organizzare e difendere solo i lavoratori subordinati o deve ri-tornare a una cultura del lavoro e a una prassi conseguente che guardi al “lavoro in tutte le sue forme”? Come era e faceva alle sue origini.
[1] Guy Ryder, Direttore dell’OIL: «Il vero dramma è il miliardo di lavoratori con salari da fame» (intervista a la Repubblica, 1 ottobre 2017).
[2] Confederazione sindacale europea, ETUI: Banchmarking Working Europe 2019, p..56.
[3] Thorsten Shulten, Malte Luebker: WSI Minimum Wage Report 2019.
[4] https://www.socialeurope.eu/germanys-minimum-wage-has-reduced-wage-inequality.
[5] Confederazione sindacale europea, ETUI: Banchmarking Working Europe 2019, p. 50.