Psicopolitica. Ovvero: visioni della quotidianità

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Benedetto Saraceno dopo la laurea in Medicina a Milano si è formato a Trieste  con Basaglia (quindi ha un imprinting antipsichiatrico e deistituizionalizzante), ha lavorato all’Istituto Mario Negri di Milano, ha coordinato progetti per riforme psichiatriche in America Centrale e Meridionale e per 15 anni ha diretto il Dipartimento di salute mentale dell’ OMS a Ginevra. Attualmente insegna Global Health all’ Università di Lisbona ed è direttore scientifico del Centro Studi per la sofferenza urbana della Casa della Carità di don Colmegna a Milano.

Mi sono dilungato sul profilo professionale dell’autore di Psicopolitica, edito da DeriveApprodi, perché mi sembra introduca bene alla vocazione antistituzionale che  anima il testo e dà unitarietà ai vari scritti  (presumibilmente lezioni e conferenze) che lo compongono.

Prevale ovviamente il tema del disagio sociale e dell’emarginazione, ma il mood del libro è reso a mio parere da due citazioni. Una, a p. 125, dal Diario di Anna Frank: «È un gran miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo». L’altra, a p. 127, da una conferenza (Il pericolo delle certezze) del filosofo inglese Simon Critchley al Festival delle scienze di Roma: «La lezione della tolleranza, dell’accoglienza, del dubbio: cosa c’è di più importante in questi tempi di fondamentalismo, fascismo strisciante, dottrine economiche, politiche e pseudoreligiose fondate sulla presunzione e sull’odio?».

Queste due citazioni si sussumono poi in un auspicio di Saraceno verso la conclusione del libro: «Confondere le identità di ciascuno in una sola comune, che è quella umana di tutti» (p. 127).

Ecco, queste tre frasi danno unitarietà ai vari capitoli, che possono essere letti anche come un vademecum per chi cerca conforto nella solitudine e nello smarrimento in cui viviamo oggi, o in cui almeno vivono quelli della mia generazione che crede ancora nell’utopia come possibilità di liberazione (Volere la luna, appunto).

In numerosi passaggi del libro l’autore insiste sulla necessità, nella globalizzazione neocapitalistica in cui stiamo affogando, di produrre  “località”, intesa non nel senso vernacolare tanto caro alle leghe e ai sovranismi di ogni risma, ma come riappropriazione della vita sociale e delle proprie esistenze. Tra un locale identitario e paranoico e una globalizzazione anonima e mercificata occorre, aggiungo io, trovare lo spazio dell’oikos e l’economia del dono, intesa come il debito che ognuno di noi ha nei confronti degli altri e della società. Saraceno non la cita mai, ma leggendo a me è venuta più volte in mente la common decency (the free, equal and decent society) di cui parla Orwell, e che oggi si può intendere anche come la capacità degli esseri umani di vincolarsi reciprocamente uscendo dalla chiusura autistica del puro consumo o della propria fragilità. Averlo dimenticato è stato il grande errore della sinistra di governo che da almeno trent’anni non riesce più a trovare le parole della sua vocazione originaria. La gente comune è vittima di un capitalismo finanziario selvaggio e globalizzato spacciato per liberalismo, anzi neoliberismo (quanti trucchi si possono fare con le parole!). E la sinistra è caduta nella trappola del narcisismo e dell’enfatizzazione dei diritti individuali. Dimenticando che senza radici nel tessuto sociale l’uomo è come Robinson Crusoe, solo nella sua isola (non a caso Marx irrideva le “robinsonate” di Smith e Ricardo…). Qui sono le radici della struggle for life così cara, almeno a parole perché poi nei fatti abbondano cartelli e collusioni anche malavitose, a tutti i  difensori dell’attuale assetto economico.

Personalmente credo che dovremmo rileggere Mauss, Polanyi o Sahlins, in vario modo studiosi e difensori dell’antica strategia del dono: dare, ricevere, ricambiare. Così si creano il legame sociale e la comunità. Come scriveva Durkheim: «Morale è tutto ciò che è fonte di solidarietà, tutto quello che spinge l’uomo a tener conto degli altri, a regolare i propri gesti su cose diverse dalle pulsioni del proprio egoismo». Solo così si può tendere a una società libera, solidale e, appunto, decente. E anche tener presente che il mondo non è nostra proprietà: c’era prima di noi e abbiamo la responsabilità di farlo vivere anche dopo di noi.

Certo, sembrano queste, e forse sono, parole patetiche, scritte davanti a un computer mentre all’esterno furoreggia un torvo Capitan Matamoros (nella Commedia dell’Arte e nel dottor Dulcamara dell’Elisir d’amore è racchiusa tutta la sempiterna antropologia italica), maniaco delle divise di ogni genere e di felpe variopinte che nemmeno nella catena Decathlon, con evidenti tendenze paranoiche e aspirazioni più grandi di lui. Il che non gli impedisce di essere comunque pericoloso in una società delusa, sfibrata e corrotta come la nostra e di instillare batteri nazisti: «Dobbiamo essere crudeli, dobbiamo esserlo con la coscienza pulita, dobbiamo distruggere in maniera tecnico-scientifica» scriveva Hitler nel suo Mein Kampf, citato da Saraceno a p. 132.

Però le pagine di Psicopolitica, pur nella loro gergalità psichiatrica e sociologica, sono utili e ridanno fiducia, soprattutto là dove fanno trasparire esperienze pratiche vissute e riuscite di «politica della generosità».

A un certo punto del libro (p. 98) Saraceno commenta il famoso passo sulla carità della prima Lettera ai Corinti: «È interessante come, per Paolo, la carità non ha a che fare con la distribuzione delle sostanze, quanto più con il compiacimento della verità, con la ricerca dell’interesse  dell’altro, con la giustizia. Invece, troppo spesso la carità concede semplicemente i resti del banchetto e, al tempo stesso, chiede al povero di essere grato e responsabile». E definisce «autoritaria» questa concezione di un falso altruismo, analogo a tutte le forme di pubblica assistenza che anziché «promuovere autonomia, capacità e potere» di fatto concedono invece risorse solo se i beneficiari (generalmente i diversi) sono o diventano «compatibili» con il sistema. Cioè se si misconosce la loro diversità, che è anche però il loro modo di essere umani. E trascurando il fatto che  «povertà, disuguglianza, ingiustizia, esclusione sociale, violenza e malattia» sono strettamente connesse e si possono alleviare solo con riforme di sistema e con il riconoscimento della vulnerabilità, e ancor prima del diritto alla propria vulnerabilità e/o diversità. Vale per «i matti da slegare» ma anche per i ragazzi di Barbiana e gli scarti di ogni genere che la società confina ai margini, ricordandosene solo per qualche episodio di cronaca nera: adolescenti demotivati perché senza futuro, anziani soli e abbandonati, giovani madri senza casa e lavoro, carcerati, tossicodipendenti… E in generale tutti i soggetti «costantemente al margine dei diritti, dell’accesso ai servizi, dell’accesso alle opportunità, dell’accesso ai beni e agli scambi, dell’accesso alla speranza  di esserci per il futuro» (p. 31). Oggi soprattutto per i migranti, che non sono veicoli di malattie e di miseria ma portatori di culture diverse, di una ricchezza umana di cui usufruire, di una sofferenza da condividere empaticamente. In ogni caso non da affrontare con «ricette di gestione aziendale, come se il pianeta fosse un’azienda un po’ più grande» (p. 104).

Utopia? Certo, ma anche un modo di fare della speranza un progetto di ricerca e una scossa alla rassegnazione e stagnazione attuali. Non bisogna demordere, ci ricorda questo libro, e la  speranza è basata su una struttura teorica sperimentata e su esperienze concrete, locali ma esemplari. Come scrive l’antropologo Arion Appadurai (Modernità in polvere, Cortina), più volte citato nel libro: «Dobbiamo accettare la dimensione locale come laboratorio permanente e smetterla di pensarci “significativi” al di là del locale».  È poco? Al momento sembra l’unica possibilità: fare rete tra le tante realtà, anche micro realtà, che sperimentano e solidarizzano. Come diceva un antico maestro, rabbi Tarfon: «Non spetta a te compiere l’opera, ma non ti è dato sottrartene».

Gli autori

Gianandrea Piccioli

"Una lunghissima esperienza alla guida di marchi storici, prima Garzanti, poi Sansoni, più tardi Rizzoli, ancora Garzanti, a settant’anni è considerato uno dei grandi saggi dell’editoria («Ma che esagerazione, sono solo capitato fra le due sedie: dopo i grandi e prima del marketing»), cresciuto alla Corsia dei Servi, l’eretica libreria milanese che negli anni Sessanta mescolava Bellocchio e padre Turoldo. Passo resistente da montanaro, è abituato a scalare le vette impervie di giganti quali Garboli o Garzanti, Steiner o Fallaci. L’editoria che incarna è molto diversa da quella attuale, «per imparare il mestiere non ti portavano a fare i giochi di ruolo in luoghi esotici». Quasi dieci anni fa la decisione di lasciare, «perché il mondo era cambiato e non riuscivo più a intercettare il mutamento». Oggi il suo sguardo appare molto nitido, nutrito di letture meticolose condotte nel buen retiro di Rhêmes o nel silenzio di Casperia, un borgo medievale nell’alta Sabina. «La crisi dell’editoria è una crisi culturale. Si fanno troppi libri, molti anche interessanti, ma oscurati dalla censura del mercato. E soprattutto le case editrici hanno rinunciato a un progetto, a una visione complessiva che suggerisca un’interpretazione del mondo»" [da https://ilmiolibro.kataweb.it].

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