Nel 2015 la foto del piccolo Aylan, il bambino curdo annegato nel tentativo di fuggire alla guerra insieme ai genitori, fece emozionare e indignare il mondo, fino a determinare l’avvio di politiche di intervento e salvataggio in mare delle persone in fuga. Oggi, a soli tre anni di distanza, le immagini di altri corpi di uomini e donne, bambini e bambine annegati non solo in troppi casi non determinano alcuna reazione ma molte volte danno sfogo a commenti rabbiosi e cinici, rancorosi nei loro confronti e verso chi prova ancora a salvarli o semplicemente esprime dolore e compassione per quelle vite perse così ingiustamente.
L’impressione è che, per un verso, il Paese si stia abituando all’orrore mentre, d’altro verso, molti per giustificare, prima di tutto a se stessi, la loro indifferenza, per dare senso al rancore che prevale sulla responsabilità della cura tendano a rintanarsi in un’idea di comunità e di identità che, in mancanza d’altro, si riconosce come popolo solo sull’individuazione di un altro differente da cui prendere le distanze. Da considerare come nemico, su cui scaricare ansie e responsabilità del nostro malessere.
Pulsioni che sono alimentate da politicanti che continuano a quotare il rancore e la paura sul mercato del consenso elettorale, finendo, in modo colpevole e irresponsabile, per spostare la “soglia etica” del Paese oltre limiti inimmaginabili solo qualche anno fa.
Certo per loro è più semplice, perché le parole del rifiuto sono più facili da comunicare e impattano con più facilità con la pancia delle persone, mentre i nostri linguaggi, quelli dell’ospitalità e della convivenza, sono più complicati e hanno bisogno di più tempo, perché se da un lato propongono la bellezza del mescolamento e del meticciato come “terra” per fare crescere comunità più colte e attraversate dalla bellezza, d’altro lato chiedono la fatica di convivere tra diversi, accettando lo sforzo che ogni relazione produce.
In ragione di questo, ogni luogo del nostro quotidiano va vissuto anche come ambito in cui trovare argomenti e riflessioni per proporre azioni e strategie di argine e contrasto a tale deriva. Sapendo che per avere qualche possibilità di successo tali posizioni non possono essere proposte solo sul piano della contrapposizione ideologica o della opposizione istituzionale, ma vanno innestate e strutturate, per forma, linguaggi e attenzioni, dentro ai nostri contesti di vita. Vanno proposte e sostenute nei luoghi di lavoro, sui mezzi pubblici, mentre facciamo la spesa o attendiamo il taglio di capelli da un barbiere o da una parrucchiera.
Perché ‒ è bene dirselo con chiarezza ‒ le politiche proposte da questo governo trovano ampio consenso tra le persone, spesso tra le aree più vulnerabili e povere del Paese. Tra quel popolo che non ha più trovato una sinistra capace di orientare il conflitto sociale verso istanze di rivendicazione collettiva, donandolo a chi proponeva,al contrario, ipotesi di uscita individualistiche, corporative, spesso cattive verso gli ultimi e i differenti. Visioni di chiusura, così diffuse tra ultimi, penultimi e vulnerabili da restituire un’idea che le posizioni orientate alla tutela e promozione dei diritti delle persone con background migratorio, e di quelle più fragili e in difficoltà in generale, siano nei fatti diventate, come propone provocatoriamente Marco Revelli, questione di chi se lo può permettere, perché benestante e non a rischio di scivolare verso il basso.
Per questo non basta affermare, per quanto giusto e liberatorio sia, che “Salvini è razzista”. Dobbiamo tutte e tutti, e prima di tutto chi si assume la responsabilità di governare o di agire la politica, investire e aggiornare il nostro fare e le nostre narrazioni, per provare a parlare con chi è preoccupato, anche con chi è cattivo e rancoroso, per provare a spiegare, con gli argomenti giusti e trovando terreni di alleanza, che solo nell’incontro e nella convivenza ci sono futuri possibili di benessere collettivo.
Dobbiamo provare su questi temi, con una paziente opera di rammendo, a rimettere insieme la frammentazione sociale che scompone le comunità e provare a ricomporre uno specchio in cui gli attori di un territorio possano riconoscersi reciprocamente.
Sapendo guardare anche alle responsabilità della sinistra, perché non vi è dubbio che negli ultimi anni la scelta di approcciare il tema immigrazione con l’unico parametro della risposta all’emergenza, tra l’altro provando a imitare la destra sul suo terreno, non solo non ha pagato sul piano elettorale (banalmente tra l’originale e la copia i consumatori scelgono quasi sempre l’originale), ma ha finito per mettere in difficoltà il mondo di chi provava a fare accoglienza con qualità e professionalità.