Sulla “Repubblica” del 24 novembre sono apparsi due articoli molto diversi ma in qualche misura convergenti. Uno di Melania Mazzucco, che parla della disperata situazione delle donne migranti in Italia, specie se africane: con figli rimasti laggiù con cui è difficile, anzi ormai impossibile, il ricongiungimento e, quando va bene, impegnate in lavori secondari con una paga oraria di poco superiore al costo di un biglietto del tram.
Il secondo articolo, mirabile e tempestivo, è di Gustavo Zagrebelsky: competente, chiaro e preciso come sempre. Alla fine di un ampio discorso sulle varie forme di quello che ormai genericamente chiamiamo per brevità “fascismo”, l’autore invita i lettori al dissenso e anche alla disobbedienza civile, quando il potere (e questo ormai sembra stia accadendo in Italia) travalica la Costituzione e le regole più elementari non solo di una democrazia moderna ma semplicemente dell’umano.
Mi domando come, concretamente, si possa poi esplicare questa resistenza civile.
Ci siamo tutti indignati, noi che un tempo saremmo scesi in piazza con la defunta sinistra, per lo smantellamento di Riace e per la destituzione di Mimmo Lucano. È trascorso poco più di un mese e nessuno ne parla più. Ed è solo un esempio, pur se clamoroso anche per la risonanza che ha avuto a livello internazionale.
Il problema non è indignarsi e protestare: l’attuale Governo ce ne offre occasioni tutti i giorni e più volte al giorno. Il problema è come riuscire a farlo in modo efficace, quindi collettivo e politico. Il tanto rimpianto (da noi) ceto intellettuale (chiamato “i professoroni” proprio da Renzi presidente del Consiglio, e ai tempi del referendum diventarono anche “archeologi travestiti da costituzionalisti”) è stato senz’altro protagonista nelle battaglie della sinistra, soprattutto in un Paese che accanto a tanti cialtroni e voltagabbana ha avuto anche alte tradizioni culturali, con alle spalle Gramsci e, per il versante liberale, Croce. Anche fondamentale nel dibattito delle idee e nella formazione di una coscienza civile. Ma senza un partito ben strutturato (do you remember l’intellettuale collettivo?) e soprattutto senza una forte classe operaia gli intellettuali avrebbero parlato solo tra di loro. Oggi il partito grosso modo di riferimento si è suicidato e gli operai non ci sono quasi più o sono ricattati. Nei mesi scorsi, alla morte di Marchionne, mi hanno colpito gli elogi unanimi di tutti, dico tutti, i mezzi di informazione all’uomo che aveva traghettato la Fiat non solo nei tempi nuovi ma anche fuori d’Italia, armi e bagagli (e tasse). Non era soltanto il rispetto che sempre si deve a chi ci lascia, è stato proprio un coro a una sola voce. (Un gustoso florilegio degli unanimi parce sepulto si può leggere in un articolo di Daniela Ranieri sul “Fatto” del 27 luglio 2018). Uniche eccezioni, tra tanti osanna, Marco Revelli e Guido Viale su “il manifesto” (questo solo per dire dell’indipendenza della nostra stampa).
Non solo: da decenni si è fatto di tutto, anche a sinistra, per distruggere una scuola, e un ceto insegnante, che erano tra i migliori d’Europa, e non solo sul versante umanistico, come si ama ora dire, come se gli insegnanti fossero stati tanti don Ferrante. E così molti nostri giovani non hanno gli strumenti per orientarsi nel mondo e il pensiero critico sufficiente per vagliare una comunicazione pervasiva e spesso imbrogliona.
Soprattutto sono cambiati i rapporti di forza in un passaggio epocale in cui i problemi si intrecciano tra loro, da quello del lavoro umano, sempre più sostituito dalla robotica, a quello ambientale (la catastrofe senza ritorno è prevista per il 2050), alle trasformazioni stesse del capitale, sempre più finanziario che produttivo, alle conseguenze di una globalizzazione che sembra ingovernabile e che per svilupparsi non può tener conto delle radici storiche e delle differenze culturali, religioni incluse, degli umani. Penso che la crisi dei partiti tradizionali, soprattutto di sinistra, sia dovuta non solo ma anche a questo stato di cose.
Zagrebelsky è concreto: si riferisce alla situazione italiana di oggi, hic et nunc, e alla bieca politica salviniana. E Melania Mazzucco si collega al libro Io sono con te (Einaudi), dove parla del dramma reale di una madre africana: una vicenda vera, che coinvolge l’autrice e il lettore, un libro-verità che andrebbe letto in tutte le scuole (E su temi in parte analoghi segnalo anche un libro per ragazzi di Paolo Di Stefano, Sekù non ha paura, Solferino, che chiude il dittico aperto con I pesci devono nuotare, Bompiani).
Queste storie ci fanno capire meglio le possibilità che ognuno di noi ha almeno di resistenza se non di disobbedienza civile, specie per quanto riguarda gli stranieri, anche senza la forza di un movimento collettivo. Il mondo intorno a noi è sempre una richiesta, e non solo di un obolo: anche quando tace, il migrante chiede e noi possiamo solo dichiararci presenti, indipendentemente da ogni disposizione governativa: perché solo per il fatto di esserci è titolare di diritti davanti ai quali non possiamo non sentirci obbligati. L’impulso alla disobbedienza civile, almeno statu nascenti, non ha bisogno di una forza collettiva, di un “noi”: basta che ciascuno dica “eccomi” e non siamo più noi a incontrare un prossimo, ma siamo noi a essere il suo prossimo, come in altro contesto, in dialogo con Arendt, Levinas, Rosenzweig e Derrida, dice il filosofo catalano Josip María Esquirol, cui ho rubato il titolo di questo intervento (La resistenza intima, Vita e Pensiero).