La politica tedesca è in movimento. Cosa rara, in un Paese che fa della stabilità e della prevedibilità delle decisioni pubbliche un valore assoluto. È particolarmente interessante, quindi, osservare cosa sta capitando in queste settimane nello stato egemone (ancorché, per alcuni, “riluttante”) dell’Unione europea, perché il cambiamento degli equilibri al suo interno si riverbera necessariamente su quelli dell’intero edificio comunitario.
La notizia più importante è nota: la cancelliera Angela Merkel, dopo il voto regionale dell’Assia, ha annunciato la sua progressiva uscita di scena. A dicembre, al congresso della CDU, non si ripresenterà per la carica di leader del partito, e alle prossime elezioni – sulla carta nel 2021 – non si ricandiderà più. Ora è stata imitata dal suo omologo bavarese, il ministro degli interni Horst Seehofer: anch’egli rinuncia alla guida della sua organizzazione, la CSU, costola della CDU nel ricco Land della Germania meridionale, ma resta membro del governo federale di “grande coalizione”. Che, in teoria, dovrebbe durare sino al termine della legislatura.
In realtà, tutto dipenderà da chi uscirà vincitore nella sfida per la successione a Merkel. Su tre concorrenti, due hanno un profilo che rende improbabile pensare che tutto proseguirebbe uguale a prima: Friedrich Merz, che dell’attuale cancelliera fu arci-rivale e sua “vittima” politica quindici anni orsono, e Jens Spahn, giovane e ambizioso ministro della sanità. Discorso diverso per la terza in gara: Annegret Kramp-Karrembauer, vicina a Merkel e suo attuale braccio destro nel partito. Schematizzando, i due uomini si orientano più verso il centro-destra, l’ex governatrice del Saarland più verso il centro-sinistra. La vittoria di Merz o Spahn andrebbe letta come una rottura con le politiche della cancelliera giudicate troppo progressiste – su tutte: l’apertura delle frontiere nell’estate del 2015 e la scelta per l’integrazione dei migranti, ma anche l’uscita dal nucleare e l’ok al salario minimo legale –, mentre l’affermazione di Kramp-Karrembauer sarebbe come un segnale di continuità.
Appare inevitabile augurarsi che sia quest’ultima a prevalere, dunque.
Eppure, chi difende le posizioni della solidarietà e dell’uguaglianza si trova di fronte a un paradosso, che complica il quadro. In Germania, da tempo, non sono solo gli elettori più conservatori della CDU ad auspicare un riorientamento verso destra del loro partito eccessivamente “socialdemocratizzato” da Merkel, ma anche molti dirigenti e attivisti di sinistra.
Il ragionamento suona così: se la CDU torna a “fare il suo mestiere”, la SPD può a sua volta tornare a distinguersi dall’attuale partner di governo, conquistando a sé quell’opinione pubblica di “centro che guarda a sinistra” approdata nell’ultimo decennio saldamente sotto le insegne merkeliane. Un leader democristiano più ostile di Merkel, in altri termini, potrebbe innescare nell’opinione pubblica di sinistra maggiore mobilitazione, e nei partiti progressisti maggiore capacità di far arrivare il proprio messaggio alle orecchie dei cittadini. E, last but not least, una CDU più “di destra” potrebbe forse recuperare il terreno perduto a vantaggio dei nazionalisti dell’AFD, una formazione che ha, fra i suoi fondatori ed esponenti attualmente più in vista non pochi ex democristiani ultra-conservatori.
La situazione, insomma, è complicata. Non solo per l’incerto futuro della CDU (e, in misura minore, della CSU), ma anche per l’assai precario presente dei socialdemocratici, ai quali i sondaggi attribuiscono ormai stabilmente meno consensi dei Verdi, che sono invece in piena ascesa. Insieme, le due forze che governarono il Paese fra il 1998 e il 2005 con Gerhard Schröder e Joschka Fischer sono date al 37 per cento, vent’anni fa erano al 47,5 per cento: la SPD, prigioniera nel suo ruolo di partner minore del governo di grande coalizione con i democristiani, è accreditata di un misero 15 per cento, mentre quando conquistò la canelleria fu scelta dal 40,6 per cento degli elettori.
Nessuno pensa al ritorno a quei fasti, ora l’obbiettivo è non fare la fine del PASOK in Grecia o del PS in Francia, possibilmente rimettendo i Verdi alle proprie spalle. Ci sta provando, con scarsi risultati, la segretaria e capogruppo parlamentare Andrea Nahles: il suo limite maggiore sta nell’essere stata ministra nel governo Merkel della passata legislatura, condizione che le impedisce di risultare credibilmente nuova rispetto al recente passato. Una carta (l’ultima?) che ora Nahles vuole giocarsi è quella dell’abbandono del sistema Hartz IV, nome con cui si identificano le misure che proprio i socialdemocratici di Schröder adottarono per ridurre le prestazioni sociali per i disoccupati: il simbolo della svolta neoliberista della SPD, all’origine della scissione di Oskar Lafontaine. La decisione di Nahles, che indubbiamente segna un avvicinamento alle posizioni della Linke, è una pesante rottura simbolica con il passato, nel disperato tentativo di creare una sorta di “momento-Corbyn” che faccia recuperare ai socialdemocratici tedeschi il terreno perduto fra le classi popolari, come sta accadendo ora al Labour nel Regno Unito dopo gli anni del blairismo.
Vedremo se ci saranno effetti. Intanto, da parte loro, i Verdi continuano a crescere. Allo stato attuale sono la formazione di sinistra-centro in grado di allearsi, da un lato, con i democristiani o, dall’altro, con i partiti “rossi”: in questa centralità nello scacchiere politico hanno preso il posto della SPD. Le correnti interne sono in equilibrio e in armonia, tutti remano dalla stessa parte: la recente trionfale conferma dei capilista per le elezioni europee, Ska Keller e Sven Giegold, lo conferma.
E Aufstehen? Il movimento “sovranista” che doveva sparigliare le carte e proporre strade nuove per la sinistra tedesca non ha fatto granché parlare di sé, finora. Nella Linke si cammina sulle uova, con una Sahra Wagenknecht un po’ incerta nella doppia veste di capogruppo parlamentare e di portavoce della nuova associazione. I risultati delle recenti elezioni in Baviera e Assia non sono stati risolutivi: né cattivi al punto da poter dire che la Linke è un ferro vecchio, né così buoni da poter affermare che non serve nulla di nuovo. E tuttavia, una cosa non può essere ignorata: la gran parte dei voti in uscita dalla Spd è finita ai Verdi, cosmopoliti e favorevoli all’accoglienza. Forse qualche riflessione i promotori di Aufstehen potrebbero farla.