USA: novità e conferme nelle elezioni di midterm

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Commentare i risultati delle elezioni americane di medio-termine non è un compito semplice, sia per il rischio di incorrere nelle letture superficiali e stereotipate che spesso si ritrovano nella stampa nazionale, sia perché i risultati definitivi, ancora, semplicemente non ci sono. Le nuove camere si insedieranno a gennaio, ciascuno Stato organizza autonomamente il proprio sistema di voto e di spoglio e, in ogni caso, i dati ufficiali saranno comunicati non prima di un mese. Nel momento in cui si scrive, non si conosce l’esito di alcuni test-chiave (almeno 3 seggi del Senato, 14 seggi della Camera dei rappresentanti e un governatorato), in grado di influenzare in modo significativo i rapporti di potere nei nuovi organi parlamentari.

Fatta questa necessaria premessa, appare utile enucleare alcuni aspetti centrali che hanno caratterizzato queste elezioni, per poi arrivare a comprendere quali possano esserne le conseguenze politiche.

Il primo elemento è senza dubbio l’elevata partecipazione al voto. Anche se l’affluenza totale potrà essere valutata solo quando sarà completato lo spoglio delle schede inviate per posta e dei cosiddetti provisional ballots (i voti raccolti con riserva da elettori le cui credenziali devono essere verificate, ad esempio perché il loro nome non compare nelle liste elettorali della sezione in cui il voto è stato espresso), si stima che oltre 113 milioni di persone – pari al 48 per cento degli aventi diritto – abbiano partecipato al voto, l’affluenza più alta ad una elezione di midterm dal 1970. Se in Italia questo dato può apparire poca cosa, non è così per gli Stati Uniti: il dato del 2018 si avvicina di più a quello delle ultime presidenziali, quando votarono 138,8 milioni di persone, che a quello delle elezioni di midterm del 2014, quando gli elettori furono 83 milioni. Gli incrementi maggiori, stando alle prime stime, si sono registrati in alcuni Stati del Sud (Texas, Tennessee e Georgia), del Sudovest (Nevada e Arizona) e del Midwest (Missouri e Indiana). Tutti contesti che presentavano sfide competitive per il Senato federale o per la poltrona di governatore dello Stato, e che – sul fronte democratico – vedevano la partecipazione di candidati di elevata qualità, in grado di mobilitare la base progressista senza alienarsi il sostegno di una parte dell’elettorato rurale, tradizionalmente vicino al Partito repubblicano. Su tutti, Beto O’Rourke in Texas e Stacey Abrams in Georgia: entrambi, pur usciti sconfitti per un soffio, hanno portato in dote al Partito democratico un consenso che non si vedeva da decenni nei propri Stati. Basti pensare che nel 2012 Ted Cruz, il senatore ultraconservatore del Texas che O’Rourke ha tentato di spodestare, aveva staccato il concorrente democratico di 16 punti; stavolta, la distanza è stata di meno di 3 punti percentuali. L’aumento della partecipazione al voto, secondo gli exit poll, si deve soprattutto alla maggiore mobilitazione delle donne, dei giovani sotto i 30 anni e della popolazione ispanica, segmenti di popolazione che tendono – sempre più – a votare democratico. Trump ha voluto occupare il centro della scena, facendo appello al nazionalismo bianco e trasformando in modo inedito il midterm in un referendum sulla sua presidenza. Questo ha spinto alla mobilitazione tanto la base conservatrice – che ha permesso al Partito repubblicano di espandere la propria maggioranza al Senato, con vittorie in alcuni Stati rurali – quanto quella ostile al presidente, che ha consegnato al Partito democratico la maggioranza della Camera dei rappresentanti.

La rilevanza della questione di genere è il secondo elemento che vale la pena di sottolineare in questa analisi. Non c’è forse fenomeno sociale più evidente, dall’insediamento di Donald Trump alla Casa bianca, della presa di coscienza e della reazione delle donne americane, dalla Women’s March del gennaio 2017 alle manifestazioni contro la conferma del giudice Kavanaugh alla Corte suprema, fino a queste elezioni di midterm. Contraddistinte tanto dall’affermazione di un numero record di candidate (nella prossima Camera siederanno oltre 100 donne, in grande maggioranza democratiche), quanto da un marcato gender gap nelle scelte di voto: il 59 per cento delle donne ha votato democratico, contro il 40 per cento che ha votato repubblicano; il differenziale, di 19 punti percentuali, è quasi doppio rispetto a quello registrato due anni fa (+10 per cento per il Partito democratico). Tra gli uomini, il 51 per cento ha votato repubblicano e il 47 per cento ha votato democratico (+4 per cento per il GOP; nel 2016 il gap era di 12 punti). All’interno dell’elettorato femminile, si registrano notevoli differenze legate all’etnia, al livello d’istruzione e all’età, ma con un generale spostamento a sinistra rispetto alle tornate elettorali precedenti. Secondo gli exit poll, inoltre, il 78 per cento dei votanti considera importante l’elezione di un numero maggiore di donne alle cariche pubbliche, mentre l’84 per cento ritiene che le molestie sessuali costituiscano un grave problema negli Stati Uniti, un segnale dell’efficacia del movimento Me Too.

Per finire, ma non meno importante, c’è la questione dell’assistenza sanitaria: la tutela della salute, attraverso la difesa dell’Affordable Care Act (la cosiddetta Obamacare), è stata al centro della piattaforma dei candidati democratici. La lunga campagna che i repubblicani hanno condotto per cancellare la riforma sanitaria di Obama, oggi che la legge è sempre più popolare, si è in definitiva dimostrata controproducente. I democratici hanno avuto gioco facile ad accusare gli avversari di mettere a rischio i pazienti con “condizioni mediche pre-esistenti” (cioè malattie croniche, degenerative, mortali o con rischio di recidiva), dato che è stata proprio la riforma a obbligare le compagnie di assicurazione a garantire la copertura a questa fascia di popolazione. L’assistenza sanitaria è, secondo le rilevazioni, la più importante questione che il Paese deve affrontare (lo pensa il 41 per cento degli elettori), davanti all’immigrazione (23 per cento), all’economia (22 per cento) e alla regolamentazione delle armi (10 per cento). Il tema è importante non solo per l’elettorato democratico, ma anche per quello repubblicano che vive negli Stati rurali e conservatori: non a caso tre di questi (Nebraska, Idaho e Utah) il 6 novembre hanno deciso, tramite referendum propositivi, di aderire all’espansione di Medicaid, l’assicurazione federale gratuita per le persone a basso reddito. La riforma Obama prevedeva l’estensione automatica di Medicaid a tutte le persone al di sotto di un certo reddito fissato a livello federale (circa 34mila dollari annui per una famiglia di 4 persone), ma una sentenza della Corte suprema ha permesso agli Stati di decidere se aderire o meno. Con gli ultimi 3, sono 37 gli Stati che hanno potenziato Medicaid, che oggi copre circa un quinto degli americani.

Ma ora che cosa succede? E quali saranno le conseguenze politiche del voto?

La sconfitta repubblicana alla Camera e un quadro di marcata polarizzazione politica ridurranno la produttività legislativa del Congresso, già piuttosto bassa, spingendo ulteriormente Trump a ricorrere agli executive orders, i decreti presidenziali. La Camera a guida democratica, inoltre, utilizzerà il proprio potere di investigazione per passare al setaccio i diversi scandali che attraversano l’amministrazione, a cominciare dal Russiagate. Non a caso, il giorno dopo il voto Trump ha chiesto le dimissioni del proprio ministro della giustizia, Jeff Sessions, un suo sostenitore della prima ora che tuttavia, agli occhi del presidente, si era macchiato della grave responsabilità di rinunciare alla supervisione dell’inchiesta federale sull’interferenza russa nelle elezioni del 2016, poi affidata al consigliere speciale Robert Mueller. D’altronde l’ampliamento della maggioranza repubblicana al Senato permette a Trump di ottenere più agevolmente la conferma del nuovo Ministro, così come di nuovi giudici conservatori. La capacità di mobilitazione che la strategia aggressiva del presidente ha avuto sull’elettorato conservatore e la sconfitta di numerosi repubblicani moderati nei distretti suburbani che già nel 2016 avevano votato per Hillary Clinton, inoltre, rafforzano la presa di Trump sul Partito repubblicano.

Sul fronte democratico, il voto restituisce la speranza di riconquistare il Midwest industriale e post-industriale, che nel 2016 ha consegnato la presidenza a Trump: il Partito democratico ottiene importanti vittorie in Pennsylvania, Michigan, Wisconsin e Illinois. Ohio e Florida si confermano, tra i cosiddetti swing-state persi due anni fa in favore di Trump, i terreni più difficili.

Dalle elezioni, infine, vengono alla ribalta figure carismatiche, che uniscono il rinnovamento generazionale a quello programmatico, tra le quali potrebbe emergere il prossimo candidato alla presidenza che correrà nel 2020. Quel che più conta, la cosiddetta onda blu (dal colore del Partito democratico) ha sospinto numerosi eletti a livello locale: i democratici hanno conquistato la maggioranza di 7 assemblee legislative e oltre 350 seggi statali. Sono queste vittorie, sotterranee e silenziose, che possono rappresentare l’impalcatura per costruire successi più grandi.

Gli autori

Antonio Soggia

Antonio Soggia (1982) ha conseguito un dottorato di ricerca in storia americana all'Università di Torino. È autore di diversi contributi sulla storia e la politica degli Stati Uniti, in particolare "La nostra parte per noi stessi. I medici afroamericani tra razzismo, politica e riforme sanitarie, 1945-1968" (FrancoAngeli, 2012). I suoi interessi riguardano soprattutto il welfare state, la questione razziale e i movimenti sociali.

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