Bar sport. Ben più di una partita…

image_pdfimage_print

Nei giorni scorsi ho letto con gusto l’intervista firmata da Paolo Galassi e pubblicata sul quotidiano la Repubblica a César Luis Menotti, il tecnico “filosofo” che ha guidato l’Argentina a vincere il suo primo (discusso) mondiale nel 1978, e che ora sta per compiere ottant’anni. Occasione di ricordi e di bilanci.

El Flaco è uno di quei rari maestri del calcio che hanno un carisma fuori dal comune e la capacità di lasciare un segno. Splendida la conclusione della conversazione, con queste parole riservate all’ossessione per i moduli che tanto appassionano tecnici e tifosi: «Il discorso è semplice: Do, Re, Mi, Fa, Sol. Il Do può essere lungo o corto, ma non sarà mai un Re. Oggi un allenatore inventa un’espressione, un giornalista la ripete e nasce un nuovo idioma: 4-2-3-1, 4-3-2-1; ma dove li vedi? Il fútbol è dinamico e la pelota è come una poesia, cominci a leggerla e non sai mai cosa troverai». Eh sì, proprio così. Lo sport in generale, e il calcio in particolare, può essere poesia, emozione, passione, ma anche specchio della società, entro certi limiti metafora della vita. Con questo sguardo ne parleremo qui nei prossimi mesi, perché la luna la si cerca anche sul terreno di gioco…

In questa occasione mi soffermo su due partite. Due partite che in realtà sono “la partita”. Lo scontro di due “mondi” contrapposti. Metafora, appunto.

Una la si è già giocata. Domenica 28 ottobre, a Barcellona. Nel mitico Camp Nou, il monumentale stadio del Futbol Club Barcelona. Il luogo più visitato della Catalunya, e una squadra che è da sempre ‒ come ricordato dalla scritta che campeggia nelle tribune ‒ “Més que un club”. Simbolo dell’identità catalana, orgogliosa della sua specificità, ma anche aperta al mondo, della resistenza al franchismo, della rinascita della Ciutat Condal e ora pure, almeno in parte, delle spinte indipendentiste. (Per inciso, deliranti ci appaiono le richieste della Fiscalía general di condanna contro Oriol Junqueras, Jordi Cuixart e gli altri vertici istituzionali della Catalunya. Decenni di carcere per un reato di opinione. Semplicemente assurdo. E anche i tifosi blaugrana non smettono di sottolinearlo dagli spalti, settimana dopo settimana). In campo, dall’altra parte, l’odiato Real Madrid. La squadra di Francisco Franco. Del regime e del potere. Dei successi a ripetizione, in Spagna e in Europa, spesso “agevolati” da arbitri compiacenti. Non c’è stato solo Buffon e quel direttore di gara con “il bidone di spazzatura al posto del cuore” (non pochi anche in Italia, invero…). Ma tralasciamo il lungo elenco degli aiutini che hanno accompagnato, da sempre, il cammino delle Merengues, in particolare negli ultimi tre anni, conclusi con tre Champions all’attivo. E torniamo al “Clasico”, probabilmente il match più atteso e più seguito a livello planetario.

Una sfida come sempre appassionante. Due mondi opposti che si incrociano su un prato e si concentrano su di un pallone. Che regala gioie e dolori. In modo certamente irrazionale, ma anche così tanto reale. È finita cinque a uno. Apoteosi della squadra di Messi, peraltro senza Messi, in panchina con un braccio rotto… Tripletta di Suarez e tripudio sugli spalti. Una manita che costa la panchina a Lopetegui, sostituito pro tempore da Solari (e non, come pareva scontato, da Antonio Conte, inviso allo spogliatoio madridista). E che ha regalato, per una sera, e almeno fino al ritorno, una gioia immensa a tutto il “barcellonismo” (che ‒ senza tirare troppo Hegel per la giacchetta ‒ si potrebbe perfino definire una categoria dello spirito).

L’altra partita la si deve ancora giocare. River Plate e Boca Juniors, le due grandi di Buenos Aires e dell’Argentina, dove il calcio è passione portata al parossismo, si contenderanno la finale della Copa Libertadores, il trofeo più importante e ambìto del continente latinoamericano. Un redde rationem attesissimo. “Xeinezes” contro “Milionarios”. Una sfida epocale, per una rivalità che affonda in un passato lontano, e che rimanda di nuovo a opposte “visioni del mondo”. La stampa argentina parla addirittura di “apocalisse”. Metafora, ancora. Dai toni certamente esagerati. Ma che rende bene l’idea. Della passione che si accende, in queste sfide al livello più alto, ma anche ogni volta che una palla rotola tra i piedi di chicchessia, dei ragazzini al campetto come dei campioni acclamati al Camp Nou.

Che il business risparmi un poco di purezza. Di democrazia, potremmo dire. Già si parla (troppo) di una Super League europea, con annessi scandali (iniziano a far rumore le rivelazioni di Football Leaks contro i vertici del calcio globale), che depotenzierebbe o addirittura annullerebbe i campionati nazionali. Le squadre medio piccole che coltivano e diffondono sogni sotto ogni campanile verrebbero inevitabilmente sacrificate. Speriamo che non passi il progetto. Speriamo che il calcio sappia mantenere almeno un po’ della propria poesia. Noi “romantici” proveremo a resistere. Anche qui. E continueremo a sognare la luna pure correndo dietro a un pallone…

Gli autori

Giorgio Barberis

Giorgio Barberis è docente di Storia del pensiero politico contemporaneo nell’Università del Piemonte orientale e vicedirettore dell’Associazione Cultura e Sviluppo di Alessandria. È autore di numerosi volumi e saggi nell'ambito della storia e della filosofia politica contemporanee.

Guarda gli altri post di: