Clavière, i migranti, il confine

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Regna la quiete nel cuore della tenebra. Il viaggio che attende questi uomini radunati in cerchio, che sotto la neve cadente mercanteggiano nella notte, è un viaggio alle origini del mondo, quando la natura tiranneggiava l’essere umano.

Cammineranno verso uno stato primordiale di nomadismo migrante punteggiato di pericoli, di nemici, di lupi, di buio. Cento euro per qualche informazione, per un vai di là e poi di là, e poi prosegui dritto, e poi non accendete mai i cellulari, e nemmeno le torce, e non fumate, e non parlate, andate dritto e basta e state zitti.
Non una parola sul vestiario inesistente, i mocassini spaiati, non una parola sul posto di blocco che inesorabile attende i venti uomini che partono dalle viuzze di Clavière, direzione Briançon , via Monginevro.

Gli ultimi dodici chilometri di un viaggio che ha attraversato mari, deserti, catene, schiavitù, barconi, violenza, razzismo, stupri, morte. Gli ultimi chilometri prima di un rifugio, dove si ammassano tutti i migranti che ce la fanno. Un punto dell’universo dove lo Stato francese riconosce la vittoria a chi ce l’ha fatta, a chi ha superato perfino la sua Legione Straniera, ultimo ostacolo di una sorta di video gioco in cui si passa di livello per giungere alla meta finale.

Osservo da qualche metro, chiuso nella mia auto, gli uomini neri chiusi in cerchio che ascoltano il passeur giunto poco prima di loro. Anche lui è africano: giovane, col cappellino da baseball calato sugli occhi.

Sono arrivati con l’autobus di linea i migranti, quello che alle otto di sera si ferma di fronte al bar Roma di Clavière. Da lontano l’anziano parroco che ha duramente lottato, e vinto, contro l’occupazione del sottoscala della sua chiesa, osserva la scena. Gli anarchici avevano approntato un piccolo rifugio per gli assiderati che tornavano indietro dopo essere stati rimbalzati dalla Gendarmeria francese.

Di fronte alla chiesa che è tornata a fare la chiesa e nulla più, c’è la vecchia dogana chiusa da anni. Vuota e con le finestre murate, l’intonaco che si stacca e le serrande corrose dalla ruggine che crea grossi buchi, attraverso cui guardare l’interno dove giacciono decenni di polvere e cartacce.

Intorno a noi polizia ovunque: anche loro guardano. Si assicurano che gli africani scesi dal pullman vadano avanti, ovest, direzione Francia.

Gli africani scesi dall’autobus vengono presto raggiunti dal passeur che se li porta via: sono sette, tutti giovani. Sul vecchio torpedone hanno fatto un casino, hanno rovesciato la birra, così l’autista francese, di fronte al variegato pubblico presente, gli fa una piazzata. «Che hanno fatto?» gli domanda il carabiniere posto a difesa della chiesetta. «La bière partout!».

Mi passano accanto gli africani, senza uno sguardo, sfiorandomi, nella totale indifferenza che hanno solo gli uomini infelici. Ma non sarò io a tratteggiare un quadro da cliché, fondato sull’estetica che vorrebbe creare un senso di colpa. Non smuove più nessuno la pietà, non smuove più alcuna coscienza, la pena. Nel tempo ho capito che puoi raccontare l’orrore finché vuoi, ma l’unica reazione che si ottiene è il dilagare di un senso di soddisfazione, piacere ancestrale di cui un tempo ci si vergognava e che ora dilagano.

Veloce scambio di soldi, partono in venti: molti erano nascosti, da ore, nel paese. Chissà dove: non nell’unico bar, forse dentro qualche cantuccio in pietra dove si ammucchiavano come pinguini che tentano di ripararsi dal gelo.

Il passeur prende i soldi, e se ne va: verrà un’automobile a prenderlo dopo qualche minuto, guidata da un bianco.

Partono, io scendo dalla mia auto e mi unisco al loro cammino: nevica forte, con fiocchi bianchi e pesanti che fanno la gioia dei bimbi che giocano poco lontano al dolcetto e scherzetto.

Come temevo seguono la pista del campo da golf: il passeur gli ha venduto immondizia, è solo uno dei molto sciacalli che vivono e prosperano nel malthusiano mondo delle migrazioni di massa. Il campo di golf è un’immensa spianata circondata da larici ormai senza aghi dorati, schiantati definitivamente al suolo dalla neve che presto li copre.

I sentieri buoni, quelli che hanno qualche possibilità di non incappare nella Gendarmeria sono nord, lontano da qua, dietro l’hotel Miramonti. Si sale lungo il sentiero che porta allo Chaberton e poi si piega verso la Francia: si allunga molto, ma solitamente si passa.

Questi invece camminano in fila indiana, distanziati di qualche metro, alcuni con gli zaini, altri senza null’altro che i loro vestiti che nascondono da qualche parte un pacco di soldi. Dietro di loro presto scompaiono le luci di Clavière e si entra nel buio fatto di pece: la neve a tratti si trasforma in pioggia, che penetra profonda dentro i vestiti, scavando goccia dopo goccia fino alla pelle. Procedono così con le scarpe da ginnastica e i jeans, i piumini con dentro l’aria al posto delle piume, senza un guanto, una sciarpa, senza la minima speranza.

Si passa sotto il posto di blocco degli italiani voluto da Salvini: una sorta di avamposto nel deserto dei Tartari, che combatte una guerra ignota, anzi combatte la guerra alla Francia che è cattiva e disumana, mentre noi siamo i buoni.

Il decreto Salvini, anzi, il fantasma del decreto Salvini, sta producendo orde di migranti alla sbando come quelle di stanotte: è stato studiato apposta affinché questi si trasformino in una formidabile armata di sonnambuli che invade ogni notte, a plotoni, la Francia. È la nostra legione straniera con cui combattiamo Macron, la Francia e la restante mercanzia retorica che tanto piace nei pollai televisivi bisognosi di marketing a basso costo per avere alti ascolti e inserzioni pubblicitarie di brioches e asciucapelli.

Antica storia: sopra di noi, mille trecento metri più in su, si trova il forte dello Chaberton, monumento italiano alla sciatteria dei nazionalisti sovranisti provincialisti di ogni tempo. Impiegarono decenni a costruirlo. Otto torrette a oltre tremila metri con cui martellare a colpi di artiglieria campale la pianura francese e aprire la via agli alpini prima e alla fanteria poi. «Una boiata» mi diceva mio nonno, quando ero piccolo: lui ci aveva fatto il tenente lassù, genio militare, progettò la teleferica che portava in cima munizioni, cibo, asini, salami, vino, uomini. L’Italia fascista sparò il primo colpo nella notte del 17 giugno 1940: dopo tre giorni il forte dello Chaberton era distrutto. Annientato dai francesi.

Superata l’ultima curva, appena prima della buca n 5 coperta ormai da una spessa coltre di neve, un grosso faro illumina a giorno il plotone di africani che marcia in direzione Francia. Lo fa a colpo sicuro, centrandoli tutti. Lo fa ogni notte o quasi.

Fine della storia, si torna alla base, il livello del videogame non è stato superato. Nessuno tenta di scappare, ormai fradici dalla testa ai piedi, gelati, alcuni perfino contenti di aver trovato qualcuno che gli ha salvato la vita. Vengono riconsegnati tutti il mattino seguente ai vari sottotenente Drogo schierati dal ministro per salvare il suolo patrio dall’invasione dei francesi.

 

Gli autori

Maurizio Pagliassotti

Maurizio Pagliassotti, scrittore e giornalista, scrive per “Il Manifesto”. Ha pubblicato, presso l’editore Castelvecchi, «Chi comanda Torino» (2012) e «Sistema Torino, sistema Italia» (2014).

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