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29/10/2018 di: Amedeo Cottino
Non c’è giorno senza qualche nuovo episodio di violenza contro persone di colore. Di regola, nei grandi media se ne dà poco risalto. Ha fatto eccezione Gian Antonio Stella che, nella lettura dei giornali di Rai 3 della settimana scorsa, ha dato, come prima notizia, quella dell’aggressione a Bari di un bimbo di otto anni di padre ivoriano e di madre italiana. Il bambino, mentre tornava a casa, è stato aggredito da un gruppo di ragazzini che dopo averlo spruzzato di bianco con uno spray gli hanno gridato: «Sei nero, ti facciamo diventare bianco».
Eventi di questo tipo ci pongono costantemente la stessa domanda: siamo di fronte a episodi isolati, frutto della aggressività di singoli individui, oppure sono la parte emergente di un tessuto violento e profondo, diffuso nella nostra società? Sono, insomma, la punta di un iceberg?
Partiamo da ciò che conosciamo di quegli episodi attraverso il sintetico resoconto che ce ne ha dato Il Manifesto del 19 ottobre scorso.
Innanzitutto la loro distribuzione geografica. Grosso modo, le aggressioni dell’ultimo mese si distribuiscono su buona parte del territorio nazionale ad eccezione delle isole, con una spiccata sovrarappresentazione del Nord Est. Ecco le località e, tra parentesi, la frequenza degli episodi: Sondrio (1), Trento (2), Varese (1), Padova (1), Milano (1), Genova (1), Lucca (2), Roma (1), Napoli (1), Bari (1). Le vittime, donne, uomini e bambini, non appartengono a uno specifico gruppo. Ciò che li accomuna è il non essere bianchi. Sono senegalesi, ivoriani, indiani, pakistani e via discorrendo. Gli hanno urlato: negro di merda, puzzi di morto, potresti far schifo ai clienti. Gli hanno ricordato che il loro colore è sbagliato: non vogliamo essere serviti da cameriere di colore; non voglio essere servita da un negro. Sono stati minacciati: mi fai schifo, ti taglio la testa. Sono stati aggrediti fisicamente: presi a calci e pugni, spintonati e gettati a terra. Dal loro canto, neppure gli aggressori sembrano esibire qualche tratto specifico. Tra loro ci sono adolescenti ‒ quelli dell’episodio di Bari ‒; ci sono donne che fanno la spesa al supermercato; ci sono clienti di ristorante; ci sono titolari di esercizi pubblici; ci sono conducenti di autobus di linea.
Veniamo subito al punto. Poiché questi dati numerici non possono essere considerati rappresentativi della popolazione italiana (una conclusione di questo tipo farebbe inorridire chiunque possegga nozioni anche minime di statistica e di campionamento), dobbiamo allora considerarli irrilevanti? Dobbiamo cioè, pur ammettendo che “l’acqua è sporca”, “buttare via anche il bambino”? E se invece facessimo credito al “paradigma indiziario” di Carlo Ginzburg (Spie. Radici di un paradigma indiziario, in Aldo Gargani [a cura di], Crisi della ragione, 1979) e, conseguentemente, provassimo a “salvare il bambino”?
Vediamo in che modo.
Guardando a questi dati come a delle tracce. Degli indizi. Mutatis mutandis, sulla falsariga di un Sherlock Holmes a cui bastava un orecchio mozzato per individuale il colpevole; o di un Morselli; oppure ancora più autorevolmente, di un Sigmund Freud. Trattando cioè questi dati come appunto delle “spie”, dei segni che adombrano «l’esistenza di una connessione profonda che spiega i fenomeni superficiali» nella convinzione che, «se la realtà è opaca, esistono zone privilegiate – spie, indizi – che consentono di decifrarla» (Ginzburg).
E non è tutto. Ché, a ben vedere, questa decifrazione dispone di una seconda spia, e cioè il silenzio di coloro che, pur avendo assistito all’aggressione, hanno scelto di far finta di niente. Sono gli “spettatori”, i bystander. Certo: il loro silenzio non è quantificabile. Ma mica abbiamo avuto bisogno di conoscere il numero dei cittadini tedeschi che, sotto il nazismo, giravano la testa dall’altra parte a fronte degli orrori del regime, per comprendere quanto sangue sarebbe stato risparmiato se essi avessero pensato che è male tacere e accettare.
Ora abbiamo una terza spia: l’approvazione a larghissima maggioranza da parte del Senato della Repubblica della legge sulla legittima difesa. Purtroppo, quel “bambino” probabilmente esiste.