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26/10/2018 di: Francesca Paruzzo
La Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità sollevata dalla Corte d’assise di Milano nel caso Cappato, ha – sorprendentemente – deciso di non decidere, rinviando la trattazione della causa di un anno «per consentire, in primo luogo, al Parlamento di intervenire con un’appropriata disciplina».
Prima ancora di soffermarsi a riflettere sulle implicazioni di tale provvedimento, non ci si può esimere, per comprendere realmente i fattori in gioco, dall’individuare quali siano quelle situazioni che la Corte, nel comunicato del 24 ottobre, definisce come «costituzionalmente meritevoli di protezione».
Quando si ha riguardo alle questioni di fine vita, infatti, si riconducono, spesso, a un’unica categoria tutte quelle situazioni caratterizzate dalla presenza di una patologia incurabile come autentica causa (del desiderio) di morte; ciò, senza considerare come esse, a seconda dei casi considerati, siano riconducibili alla tutela di differenti diritti: si deve distinguere, infatti, tra le ipotesi di desistenza terapeutica, ossia il non contrastare, lasciandosi morire, una fine che non si vorrebbe in assenza di quella malattia (rifiutando o desistendo da un trattamento terapeutico volto a prolungare artificialmente una vita che il singolo non considera più degna di essere vissuta) e quelle di eutanasia attiva, in cui la condotta di un soggetto terzo incide sulla morte di chi abbia consapevolmente maturato l’idea di porre fine alla propria esistenza.
Sono questioni che, in una radicale diversità, mostrano il loro carattere controverso non tanto nella condizione del soggetto impregiudicato nella sua facoltà intellettuale di prendere una decisione e sufficientemente autonomo da poter operare di conseguenza, quanto in quella di un paziente nello stadio finale di una malattia o in uno stato di impotenza fisica che lo rende “prigioniero” e costringe altri a essere “complici” nella realizzazione della sua scelta di morte; in caso estremo, al ruolo di suoi sostituti nella messa in atto della stessa. L’assolutezza del principio per cui ognuno, per se stesso, sul suo corpo e sulla sua mente, è sovrano (J.S. Mill, Saggio sulla libertà, 2009), si relativizza, in questo modo, di fronte a una relazione che coinvolge soggetti terzi: famiglie, strutture sanitarie e Stato (tenendo conto che, come risulta da un recente studio relativo alle “traiettorie” dei malati in fine vita, il 65 per cento dei decessi non è motivato da una causa improvvisa e/o non prevedibile).
Nella desistenza terapeutica, il decesso è imputabile causalmente alla patologia sul cui decorso si innesta l’omissione o l’interruzione del trattamento sanitario, di rianimazione o di sostentamento artificiale. Il bene giuridico su cui si incide, quindi, è la salute, tutelata dall’art. 32 della Costituzione che, in questi casi, viene in considerazione nella sua declinazione negativa: ogni essere umano è, infatti, libero di perderla, di ammalarsi, di non curarsi, di decidere di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità suoi propri, finanche di lasciarsi morire (Consiglio di Stato n. 04460 del 2014) senza la presenza ingombrante – magari perché futile e senza speranza – di presidi terapeutici e clinici. Dal momento che le cure non costituiscono più, nella nostra società, un principio autoritativo, ma un atto di libera scelta, allora è evidente che esse possono essere oggetto di rinuncia e che a questa debba essere dato seguito.
Nulla ha a che fare tutto ciò con la pretesa esistenza di un diritto (soggettivo) di morire, ma, soltanto, con la mera rivendicazione di una libertà (di fatto) di morire come conseguenza negativa del non sottoporsi a trattamenti terapeutici, già riconosciuta, nel nostro ordinamento, a livello giurisprudenziale, dalle sentenze pronunciate nei casi di Eluana Englaro e di Piergiorgio Welby e, a livello positivo, dalla legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento). Questo stesso diritto, come risulta dall’istruttoria del giudizio che vede imputato Marco Cappato, dj Fabo avrebbe potuto invocarlo, chiedendo di essere sottoposto alla palliazione profonda e che venissero interrotte alimentazione e respirazione artificiale, lasciando, con ciò, che la malattia facesse il suo corso (si veda al riguardo il parere 29 gennaio 2016 del Comitato nazionale di bioetica).
Così, però, nell’esercizio di una scelta del tutto legittima, non è stato: con l’aiuto della famiglia e di Cappato, Antoniani ha richiesto di essere sottoposto a suicidio assistito (e, quindi, a una forma di eutanasia attiva) in una clinica svizzera, con ciò mutando radicalmente quadro di analisi e princìpi in gioco.
A questi – e solo a questi – si deve rivolgere l’analisi.
La fattispecie dell’istigazione o aiuto al suicidio – della cui costituzionalità si dubita – perfettamente trasponibile sul piano del suicidio assistito del paziente affetto da una malattia incurabile che, in piena consapevolezza, chiede di essere aiutato a morire, è, oggi, sanzionata dall’art. 580 del codice penale che incrimina sotto il medesimo illecito figure estremamente eterogenee: da una parte, chi determini l’insorgere o il rafforzarsi dell’altrui intenzione al suicidio attraverso un’azione di pressione psichica; dall’altra, chi fornisca aiuto materiale a chi abbia già autonomamente maturato l’idea di porre fine alla propria esistenza: in tale ultima ipotesi, è la condotta (anche) materiale altrui (e non il processo patologico in atto) che, consentendo al malato di porre in essere un atto suicida che altrimenti non potrebbe realizzare, lede, con un legame causale immediato, un’integrità biologica. Il bene giuridico tutelato (e su cui si incide attraverso queste condotte) è, quindi, la vita umana nella sua globalità e non, come nel caso della desistenza terapeutica, la salute (se pur nella sua declinazione negativa).
Definito il quadro e le situazioni che riguardano tale giudizio, quali sono, quindi, i differenti princìpi che il legislatore sarà, con ogni probabilità, chiamato a bilanciare valutando se possa dirsi esistente nel nostro ordinamento, un diritto di morire?
Nel contesto di uno Stato costituzionale come il nostro, in cui i diritti della persona assumono la forza di legittimare l’intero ordinamento, si assiste alla costante ricerca di un punto di equilibrio che, da un lato, consenta di tener conto dell’identità del singolo e della sua aspirazione (riconosciuta dall’art. 13 della Costituzione) ad autodeterminarsi in relazione alla propria vita anche qualora ciò comporti la decisione estrema del morire e che, dall’altro, tenga conto dell’interesse che, in una tensione perenne con l’etica collettiva e l’alterità, ogni società nutre rispetto alla conservazione dell’esistenza di ciascuno.
Il ruolo strutturante l’ordinamento costituzionale attribuito al principio di solidarietà, non può, così, che avere inevitabili ricadute anche sul tema dell’esistenza di un diritto di morire: infatti, se da un lato la disponibilità della vita umana da parte di chi ne sia titolare e nei limiti di un esercizio ristretto alla sua sfera giuridica non può essere messa in discussione, allo stesso modo, dall’altro non si può non considerare la rilevanza che nel nostro ordinamento assume quel patto di mutua assistenza che trova il proprio fine nella realizzazione di una democrazia effettiva.
Il supposto diritto di morire non è affare privato, bensì relazionale e coinvolge una pluralità di sfere giuridiche. Non solo quella di colui che chiede di essere aiutato a porre fine alla propria esistenza, ma anche quella di familiari e medici, interlocutori privilegiati di tali richieste.
Se il diritto alla vita, alla cui tutela è preordinato quel patto originario alla base della creazione dello Stato moderno, costituisce il primo tra i diritti civili ad essere riconosciuto e garantito e se mai a esso può essere contrapposta l’affermazione dell’esistenza di un dovere di vivere, esplicito o implicito, al tempo stesso non può che riconoscersi come il primato della persona sia legato a doppio filo alla sua dimensione sociale e al suo agire, all’interno di questa, in responsabilità solidale; una responsabilità che, senza implicare alcuna forma di subordinazione, porta i singoli «a completarsi a vicenda mediante la molteplice organizzazione della società moderna» (Prima sottocommissione della commissione per la Costituzione, Dossetti, seduta del 10 settembre 1946).
Sono questi, tutti, i fattori in gioco che il legislatore, se riterrà, sarà chiamato a sottoporre a bilanciamento. Solo il legislatore, quindi, sembra affermare correttamente la Corte, può provvedere.
Se pienamente condivisibile appare questo monito al Parlamento, ciò che suscita dubbi, però, è che questo stesso monito non sia accompagnato da alcuna decisione, da parte della Corte, sulla questione a essa sottoposta. Non accoglie, non rigetta, non dichiara inammissibile, non indica un’interpretazione (che, invero, emergerebbe dalla stessa ordinanza di rimessione) della disposizione sull’aiuto al suicidio che, superando il significato immediatamente ricavabile dalla lettera, possa porsi in conformità con il testo costituzionale e possa, così, escludere la rilevanza penalistica delle condotte di chi, come Marco Cappato, non abbia in alcun modo inciso sull’effettiva esecuzione di un proposito suicidario altrui consapevolmente maturato; non esorta, come ben aveva fatto in passato, i giudici ordinari “a fare da sé”, chiedendo loro di “piegare” una legge generale e astratta a una regolamentazione il più adeguata possibile alle aspettative che la dinamica dei rapporti sociali concreti propone (G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, 2009). Semplicemente rinvia.
Così facendo, però, la Corte costituzionale, sembra abdicare alla sua funzione propria di giudice delle leggi, chiamato a decidere, “qui e ora”, se quella specifica disposizione è o non è conforme a Costituzione: ciò, a prescindere da un futuro ed eventuale intervento del Parlamento sul tema. Allo stesso tempo, però, appare altresì esorbitare dal suo ruolo di organo di garanzia, per diventare un attore politico che incide sul gioco parlamentare e su quella discrezionalità che imprescindibilmente caratterizza l’attività di un legislatore che deve rimanere libero di decidere se, quando e come disciplinare una determinata materia attraverso una legge (la quale, al più, successivamente, potrà essere sottoposta a un vaglio di costituzionalità).
Sia chiaro: non si mette, qui, in discussione né l’opportunità, riguardo a questi temi, di una disciplina legislativa che offra tutela effettiva a situazioni tragiche, né, a maggior ragione, che chi pone in essere condotte come quella di Marco Cappato debba andare esente da qualsivoglia responsabilità penale. Si ritiene, però, doveroso soffermarsi a riflettere sull’opportunità che la Corte costituzionale, pur a fronte di una spesso colpevole inerzia del legislatore, entri – e con lei la stessa Carta fondamentale – in una contesa politica che non le è – e non deve esserle – propria.