Pena di morte: la Chiesa volta pagina

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L’estate del 2018 si avvia alla conclusione, con il suo carico di dolore per la tragedia del ponte Morandi e di indignazione per l’indebito trattenimento dei migranti a bordo della nave Diciotti. Due vicende emblematiche di come lo Stato democratico si stia ritraendo dal compito fondamentale di protezione e promozione della vita delle persone.

Se questo è il livello di vulnerabilità (come ha scritto Marco Bouchard su queste pagine) al quale sono esposti cittadini liberi e individui in fuga da guerre, dittature, pratiche di tortura, il quadro si fa ancora più fosco quando vengono in gioco i diritti umani e le vite di un’altra categoria di umanità: quella dei colpevoli, dei condannati dalla giustizia penale, dei nemici della società. In nome di una ragione giuridica mercantilistica – per la quale anche il gioco dei diritti deve essere a somma zero (per dare ad alcuni devo togliere ad altri) – e di assilli securitari branditi a fini di consenso politico, nel mondo torna a consolidarsi una filosofia della punizione basata sulla necessità di sottrarre ai responsabili di reato, in aggiunta alla libertà personale, anche i diritti fondamentali e persino i diritti umani, a iniziare da quello alla vita.

In quest’ordine di idee, non hanno destato sconcerto nell’opinione pubblica le recenti dichiarazioni del Presidente Trump (New Hampshire, marzo 2018) sull’importanza strategica di un maggior ricorso alla pena di morte anche nella guerra alla droga e nel contrasto ai crimini più gravi. Sono idee che hanno trovato vasto consenso a ogni latitudine geografica, anche nella versione edulcorata delle pena perpetua senza alcun right to hope. Tuttavia, proprio quest’estate, una visione non vendicativa e ritorsiva della giustizia penale ha scritto una pagina importante, la cui portata contestatrice è stata debitamente sfumata dall’informazione mainstream.

Ancora una volta – era già accaduto in tema di trattamento dei migranti, di diritti del lavoro, di riconversione dell’economia – contro l’ideologia dominante si è levata la voce di papa Francesco, questa volta con parole cristallizzatesi in dottrina. Con un rescritto diffuso lo scorso 2 agosto, il Pontefice ha, infatti, riformato la norma n. 2267 del Catechismo della Chiesa cattolica e ha sancito l’assoluta e inderogabile inammissibilità della pena di morte.

L’esordio del n. 2267 è chiaro: «Oggi è sempre più viva la consapevolezza che la dignità della persona non viene perduta neanche dopo aver commesso crimini gravissimi». E, subito dopo, la norma ammonisce: «la Chiesa, alla luce del Vangelo, insegna che la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e alla dignità delle persone e si impegna con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo».

Non sfuggono l’importanza e l’influenza di un messaggio che proviene da un’istituzione, la Chiesa cattolica, che sul punto della pena capitale – come su quello esattamente speculare della guerra giusta – ha alle spalle una storia carica di ambiguità, spesso rimosse in nome di una ragion di stato tutta secolare.

A questo proposito, vengono in questione non tanto i trascorsi della Roma papalina (ancora oggi nel rione Borgo si può vedere la “casa del boia”, ovvero il palazzetto decorato a graffito dal quale Giovan Battista Bugatti, meglio noto come Mastro Titta, partiva all’alba per andare a eseguire le oltre cinquecento condanne a morte della sua carriera) quanto le giustificazioni teoriche e le coperture fornite agli Stati cattolici e ai poteri costituiti, che alla pena capitale hanno fatto ricorso. Il tutto in ragione della lotta contro i nemici di una fede troppo spesso fatta coincidere con un preciso ordine politico ed economico del mondo. Così, le parole di papa Innocenzo III nella Professione di fede per i Valdesi (1208) distillate dalla Summa di Tommaso d’Aquino – «per quanto riguarda il potere temporale, dichiariamo che può esercitare il giudizio di sangue» – hanno costituito l’orizzonte culturale che ha giustificato la pena capitale nelle guerre contro gli eretici di ogni risma (più in genere, contro i contestatori), nell’assoggettamento dei nativi d’America e nell’Inquisizione. In epoca contemporanea, quel pensiero, ammodernato e temperato, ha fornito l’armamentario teorico che ha indotto la Chiesa al silenzio o a critiche balbuzienti nei confronti di regimi e dittature che hanno utilizzato la pena di morte come principale arma di repressione. Basta por mente all’incapacità della Conferenza episcopale argentina di prendere posizione contro le esecuzioni giudiziarie ed extragiudiziarie dei generali Videla e Massera (i “silenzi responsabili” per i quali la Chiesa chiederà scusa nel 2000).

La stessa formulazione della norma del Catechismo, prima della riforma voluta da papa Bergoglio, legittimava comunque la pena di morte «quando unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani». Si trattava di un plastico esempio delle difficoltà dell’istituzione a scostarsi da un magistero contraddittorio e non chiuso alla possibilità della pena capitale (nonostante gli ammonimenti di alcuni pontefici, a partire da Paolo VI).

Oggi il cambio di rotta è inequivoco e inderogabile. La portata della riforma fuoriesce dall’alveo della riflessione sulla penalità e, come ha scritto Luciano Eusebi, «pone al centro dei rapporti giuridici, ma anche dei rapporti internazionali, un modello della giustizia più adatto ai nostri tempi». Il rilievo preminente accordato alla dignità inviolabile della persona, non compromessa dal reato, segna, prima ancora che la sollecitazione di una «nuova comprensione del senso delle sanzioni penali dello Stato» (come è ancora scritto nel nuovo n. 2267), la contestazione radicale di ogni rapporto umano verticale e violento, di ogni dominio dell’uomo sull’uomo e, di conseguenza, di ogni possibile riduzione del colpevole a strumento di prevenzione, a corpo da uccidere (o di cui minacciare l’uccisione) in nome di una deterrenza che, peraltro, non ha mai conseguito risultati efficaci in termini di difesa dal crimine. Si tratta, a ben vedere, di un appello che impone di riflettere su un nuovo tipo di reazione ai conflitti relazionali scaturiti dal reato e su risposte costruite attorno allo sforzo di restituzione alle vittime attraverso percorsi di riabilitazione dei colpevoli.

Il riflesso di una tale presa di posizione sui rapporti internazionali è immediato, per un duplice ordine di motivi.

In primo luogo, dalla formulazione della norma emerge con immediatezza l’intenzione politica del nuovo insegnamento, non confinato al foro interno dei fedeli: la Chiesa si impegna con determinazione per l’abolizione della pena di morte in tutto il mondo. Del resto, la preminenza accordata al valore dell’inviolabilità della vita umana si colloca in una posizione fortemente polemica con l’esistente. Basti pensare alle condizioni dei 21.919 prigionieri in attesa di esecuzione nel mondo (rapporto Amnesty International sulla pena di morte nel mondo nel 2017), alle recenti condanne a morte nell’Egitto di Al-Sisi, ai proclami in favore della pena di morte dell’aspirante Presidente brasiliano Bolsonaro, alle posizioni dell’attuale Presidente degli Stati Uniti.

In secondo luogo, il nuovo Catechismo produce effetti importanti anche sul piano dei rapporti tra Stati. Come già detto, nella dottrina della Chiesa pena di morte e guerra giusta hanno sempre marciato di pari passo e spesso sovrapponibile è stata l’evoluzione del ragionamento teorico che ha permesso, se non la legittimazione, almeno la non condanna delle due vicende, entrambe da ultimo avallate mediante il ricorso alla categoria della legittima difesa. Proprio la legittima difesa internazionale e il bilanciamento tra danno causato e danno evitato, ad esempio, hanno permesso a Giovanni Paolo II di ratificare l’ingerenza umanitaria nell’ex-Jugoslavia.

Il riflesso del nuovo Catechismo sulla teoria della guerra è netto; a leggere la sua intransigenza sulla pena di morte vengono alla mente le parole di papa Francesco sulla guerra giusta: «Abbiamo imparato in filosofia politica che per difendersi si può fare la guerra e considerarla giusta. Ma si può parlare di “guerra giusta” o di “guerra di difesa”? In realtà la sola cosa giusta è la pace». Anche in questo delicato campo – lo sguardo va prima di tutto alla tragedia siriana – sappiamo di quanta polemica con l’esistente abbiamo bisogno.

Gli autori

Riccardo De Vito

Riccardo De Vito, è giudice al Tribunale di Nuoro. Già presidente di Magistratura democratica, è componente del comitato di redazione della rivista Questione giustizia.

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