San Giuseppe dei Falegnami e la pelle di Roma

image_pdfimage_print

È terribilmente rivelatrice la delusione dei cronisti, in queste ore. «Ma quali capolavori sono stati distrutti?», «A quanti milioni di euro ammonta il danno, possibile non lo si possa quantificare?». Ebbene, la perdita di San Giuseppe dei Falegnami non si misura con i nomi degli artisti da “grande mostra”, né con quotazioni da asta internazionale. E l’unica risposta possibile è una domanda: quanto riteniamo importante, quanto valutiamo l’integrità del nostro corpo, anzi del nostro volto?

Quella piccola chiesa piantata nel cuore stesso di una storia millenaria non era solo la redditizia location per l’industria dei matrimoni “religiosi”: no, era anche una cellula del nostro volto collettivo. Un brandello del tessuto, unico al mondo, che chiamiamo Italia. Un lembo di pelle e di carne che oggi è distrutto.
Fu la fede semplice dei falegnami di Roma a volerla, e a volerla di legno: con grandi sacrifici la fecero bella, ricca, sonante d’organi preziosi e adorna dei dipinti degli artisti più bravi e famosi a cui potevano arrivare. Non un occhio, non il naso o la bocca del volto di Roma: ma un suo piccolo lembo di pelle. Unico, e ora per sempre perduto, nonostante i restauri.

Di chi, allora, la colpa?

Colpa di un consumo culturale culturalmente insostenibile, tutto ingabbiato nell’industria delle mostre consacrate alla top ten degli artisti noti anche ai politici.
Colpa di decine di governi che hanno tagliato sul patrimonio culturale e sulla sua manutenzione, condannando generazioni di storici dell’arte e restauratori all’esilio o alla rassegnazione, e condannando così a morte il tessuto storico e artistico dell’Italia.
Colpa delle riforme di Dario Franceschini, che obbedendo all’odio di Renzi per le soprintendenze, ha puntato tutto sulla valorizzazione selvaggia e ha fatto a pezzi quel che rimaneva della tutela.
Colpa di un giornalismo servile e ignorante, sordo a ogni denuncia dal basso e capace solo di lodare il potente di turno per poi correre a stupirsi che l’Italia crolla: dai ponti alle chiese.

Nel cratere del terremoto i frammenti di affreschi stanno ancora sotto il sole e la neve, a Napoli decine e decine di chiese sono chiuse, saccheggiate sul punto di rovinare, a Santa Croce a Firenze un turista è morto per il distacco di un frammento, a Roma ora solo per un miracolo del santo falegname si è evitata la strage.
Basterà tutto questo ad aprirci gli occhi, o al prossimo crollo saremo sempre fermi qua?

Gli autori

Tomaso Montanari

Tomaso Montanari insegna Storia dell’arte moderna all’Università per stranieri di Siena. Prende parte al discorso pubblico sulla democrazia e i beni comuni e, nell’estate 2017, ha promosso, con Anna Falcone l’esperienza di Alleanza popolare (o del “Brancaccio”, dal nome del teatro in cui si è svolta l’assemblea costitutiva). Collabora con numerosi quotidiani e riviste. Tra i suoi ultimi libri Privati del patrimonio (Einaudi, 2015), La libertà di Bernini. La sovranità dell’artista e le regole del potere (Einaudi, 2016), Cassandra muta. Intellettuali e potere nell’Italia senza verità (Edizioni Gruppo Abele, 2017) e Contro le mostre (con Vincenzo Trione, Einaudi, 2017)

Guarda gli altri post di:

3 Comments on “San Giuseppe dei Falegnami e la pelle di Roma”

  1. Grazie prof. Montanari per i suoi preziosi commenti e le sue denunce dei reati politici contro il nostro patrimonio culturale e artistico

  2. Continua a dare la colpa a Renzi, ti manca qualche neurone? Ne vedrai di peggio. Quanto alla tutela, com’era e purtroppo com’è, ha fatto più danni che la neve e I terremoti, dovrebbe essere completamente rivoluzionata, altro che rottamazione

  3. Caro Professore,
    concordo pienamente, come sa.
    Purtroppo, l’arte – soprattutto la salvaguardia dei contesti d’arte – è vissuta quale realtà di nicchia: eccelsa, ma separata dal contesto della vita ordinaria. Realtà che merita mostre, non ordinaria convivenza.
    A mio parere, come ho imparato pure da Lei: è necessario riprendere la cultura che ha motivato Giovanni Urbani a elaborare il Piano Umbria. Non solo: bisogna capire perché la cultura del restauro (del “tutto e subito”…) ha declassato la scienza della conservazione programmata (ossia la cultura del “tutto ben preparato e ben continuativamente condotto nel tempo”…).
    Sono queste le riflessioni da sviluppare, fino a far germinare nuove iniziative dal cuore antico, come postulato proprio dal Piano Umbria. Piano che mi permetto di leggere e di riproporre quale modello per innovanti “Piano di Governo dei Territori Storici”, come ho già cercato di dire nell’ebook “Giardinieri di territori storici” in edizione da Nardini e come sto cercando di argomentare nel nuovo testo i fase di scrittura: “Il primato etico-civile della cura-salvaguardia dei territori storici”, che reca un lungo sottotitolo interrogativo: “Le inconsiderate potenzialità delle ‘proposte disperse’ di Giovanni Urbani indicano pure innovanti processi di cura-custodia del volto storico dei territori umanizzati?
    Confido sempre nella continuità del dialogo.
    Grazie di tutto e a presto

Comments are closed.