Caporalato, intermediazione di manodopera, lavoro nero
Il caporalato è una intermediazione illecita di manodopera e, insieme, una forma di controllo brutale dell’uomo sull’uomo. Lungi dall’essere un retaggio del passato, esso è tornato prepotentemente alla ribalta negli ultimi quindici-vent’anni, e in maniera ancora più aspra nell’ultimo decennio, seppur con una differenza evidente rispetto al passato novecentesco. Nella stragrande maggioranza dei casi, e in particolare per le raccolte agricole più pesanti e meno qualificate, ai “cafoni” pugliesi, siciliani, lucani, calabresi e campani di un tempo si sono, infatti, sostituiti nuovi braccianti provenienti prevalentemente dall’Africa e dall’Europa dell’Est.
Il nuovo caporalato è per lo più associato alle regioni meridionali e alla raccolta stagionale dei pomodori, delle arance, delle angurie nel Tavoliere, nella Piana di Gioia Tauro, in Lucania o in Salento e proprio in tali aree sono emersi i peggiori casi di sfruttamento e di neo-schiavismo. Ma il fenomeno non riguarda unicamente il Sud Italia. Una marea limacciosa, fatta di violenza, minacce, sotto-salario, contrazione del costo della forza-lavoro, orari massacranti, condizioni igienico-sanitarie innominabili, sta risalendo la penisola. Come “la linea della palma” di Leonardo Sciascia, anche la linea del caporalato s’alza simile all’ago di mercurio di un termometro: «su su per l’Italia, ed è già oltre Roma…». È già arrivata in Piemonte e in Lombardia.
Secondo dati forniti dalla campagna «Stop caporalato», lanciata nel 2011 dalla Flai-Cgil e dalla Fillea-Cgil, oggi in Italia almeno 60 mila lavoratori vivono in condizioni di assoluto degrado, in alloggi di fortuna e sprovvisti dei minimi requisiti di vivibilità. L’incidenza del lavoro nero sarebbe del 90% nelle regioni del Mezzogiorno, del 50% nelle regioni centrali, del 30% in quelle settentrionali.
Tra passato e presente
C’è una profonda differenza tra i braccianti di oggi e quelli di ieri: quelli di Di Vittorio e di Placido Rizzotto, quelli che hanno lottato per l’imponibile di manodopera, hanno partecipato alle occupazioni delle terre e si sono scontrati contro condizioni di lavoro e di vita inique. Un tempo i “cafoni” condividevano con il caporale il medesimo orizzonte sociale e culturale, la medesima lingua, le medesime contrade. Pur schierati su versanti contrapposti, appartenevano allo stesso paese. Pertanto venivano a stabilirsi con il caporale, e quindi con il proprietario terriero alle sue spalle, dei rapporti di forza codificati, che impedivano – per la loro stessa natura – che il caporalato si trasformasse in aperta schiavitù. I vecchi caporali l’avrebbero ritenuta “sconveniente”. Certo, c’erano la fame, la malaria, la mortalità infantile… La “civiltà contadina” è stata anche questo.
Tuttavia oggi accade qualcosa di profondamente diverso. I braccianti stranieri, soprattutto se stagionali, percepiscono le nostre campagne come una “terra di nessuno” con cui non hanno niente a che spartire: una terra di cui non condividono la lingua e le usanze, non conoscono le leggi scritte e quelle non scritte. Anche quando si insediano nelle borgate e nei casolari intorno ai paesi, non c’è alcuna forma di integrazione con il tessuto urbano e sociale. C’è una distanza siderale: ogni chilometro ne vale cento; ed è proprio questa estraniazione a generare la profonda vulnerabilità che alimenta lo sfruttamento più crudo. Benché non tutto il caporalato sia riconducibile a forme di neo-schiavismo, sempre più spesso esso si manifesta in casi eclatanti di riduzione in schiavitù, in vari gradi di “soggezione continuativa”, secondo la definizione dell’articolo 600 del codice penale per cui «la riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona».
Riproducendosi su larga scala, e per migliaia di lavoratori, tale “soggezione continuativa” diviene elemento strutturale del lavoro agricolo (e, in misura minore, in altri ambiti come l’edilizia). Condiziona le sue regole; produce una gravissima concorrenza sleale per tutte quelle imprese che intendono rimanere nell’ambito della legalità.
Alcune inchieste
Negli ultimi anni ci sono stati articoli, reportage, libri, rapporti, che hanno provato a definire l’universo materiale e psicologico dello sfruttamento, le biografie dei nuovi schiavi, i loro sogni e i loro incubi, la genealogia della violenza subita, le speranze di riscatto (si vedano, ad esempio, i testi citati nella bibliografia). Tuttavia è grazie ad alcune importanti indagini della magistratura che si è potuto ricostruire il funzionamento del caporalato dal suo interno, i rapporti tra i caporali più influenti e i propri sottoposti, le relazioni con gli imprenditori agricoli, gli scambi con la criminalità organizzata. Detto in altre parole: si è fatta un po’ di luce sulla piramide dello sfruttamento a partire dal suo vertice.
In questa sede, vanno ricordate almeno tre inchieste:
a) l’inchiesta “Terra promessa” della Direzione distrettuale antimafia di Bari sui casi di riduzione in schiavitù durante la raccolta del pomodoro nel Tavoliere di Puglia, inchiesta che ha portato a un importante processo, conclusosi nel 2010 con la condanna in via definitiva di un nutrito numero di caporali stranieri;
b) l’inchiesta “Migrantes” coordinata dalla Procura della Repubblica di Palmi, successiva alla rivolta di Rosarno e alla “cacciata” dei braccianti stranieri dal paese;
c) l’inchiesta “Sabr” della Direzione distrettuale antimafia di Lecce originata, tra l’altro, dalle denunce dei braccianti africani che hanno organizzato, nell’agro di Nardò, il primo sciopero dei raccoglitori immigrati contro il caporalato.
Le inchieste ci dicono alcune cose essenziali.
Siamo in presenza di un sistema ramificato su scala interregionale, in grado di movimentare sul territorio nazionale lavoratori che provengono dall’altra parte del Mediterraneo o dalle regioni più povere dei Paesi dell’Est Europa recentemente entrati nell’Unione europea. In alcuni casi – come nel Tavoliere di Puglia – il controllo sui braccianti si estende per 24 ore al giorno, ben oltre l’orario di lavoro, e fin dentro gli alloggi e le bidonville sorvegliate da veri e propri sgherri. Difficile fuggire, quasi impossibile ribellarsi, senza subirne le conseguenze. Nel Tavoliere, come in altre zone, è la cronaca a restituire periodicamente le storie di braccianti uccisi o scomparsi per il solo fatto di essersi ribellati a tali condizioni di vita.
Ciò che stupisce nelle moderne storie di schiavitù è l’intreccio di crimine ed economia. L’attività di queste organizzazioni variamente assortite è orientata all’intermediazione criminale di manodopera globale. Se da una parte ci sono gli “schiavi”, dall’altra ci sono le imprese. Si tratta di organizzazioni fluide: la loro forza non è tanto nel radicamento sul territorio, quanto nell’abitare gli anfratti dell’economia globale.
L’intervento delle mafie
Quali rapporti questi nuovi aggregati criminali volti al controllo della forza-lavoro stabiliscono con le mafie tradizionali, camorra, Cosa nostra, ’ndrangheta?
Come dimostrano i fatti di Rosarno, dove le aggressioni ai braccianti all’origine della rivolta sono avvenute su un terreno di proprietà della famiglia Pesce, in alcuni casi la contiguità tra mafia e organizzazione del nuovo caporalato è evidente. Anche quando la ’ndrangheta non è interessata a gestire direttamente il mercato delle braccia straniere, l’azione dei caporali non avviene mai autonomamente sul territorio. Tuttavia non va dimenticato che casi efferati di riduzione in schiavitù si sono riprodotti anche in province (meridionali e non solo meridionali) tradizionalmente non interessate dalla presenza di insediamenti mafiosi di lunga durata.
Dalle inchieste pugliesi è emersa, invece, la notevole capacità dei caporali più potenti (anche stranieri) di investire il “capitale” accumulato con lo sfruttamento delle braccia in altri “settori”, in primis la tratta a fini sessuali e il traffico di sostanze stupefacenti, spesso in accordo con clan della zona.
Se si allarga, inoltre, lo sguardo dal solo sfruttamento della forza-lavoro all’intera filiera dell’agro-industria, il controllo dell’ortofrutta da parte delle mafie tradizionali (come rivela, ad esempio, l’inchiesta della magistratura sul mercato di Fondi) si fa asfissiante. L’estendersi di tale controllo è direttamente proporzionale all’abbassamento del costo del lavoro nei campi di raccolta, dalla Puglia alla Sicilia, e quindi al dilagare del caporalato.
Gli invisibili
“Sabr”, l’inchiesta conclusa dalla Direzione distrettuale antimafia di Lecce nella primavera del 2012, ha preso il suo nome dal più potente caporale dell’agro di Nardò, nel cuore del Salento: un certo Saber Jelassi, chiamato anche “Giuseppe il tunisino”. Come emerge dalle indagini, la rete di capi squadra e importanti imprenditori agricoli della zona intessuta negli anni è davvero ramificata. L’organizzazione del grave sfruttamento appare pianificata burocraticamente. Centinaia di intercettazioni telefoniche tra gli interessati, oltre alle testimonianze di alcuni braccianti che hanno avuto il coraggio di denunciarli, lo confermano.
A sorprendere non è solo la fitta ragnatela stretta tra i caporali e alcuni imprenditori agricoli, ma anche i fitti collegamenti tra i caporali delle principali regioni meridionali. C’è un vero e proprio circuito dello sfruttamento: da Nardò a Cerignola, da Rosarno a Pachino, dalla Terra di Lavoro alla Basilicata. I braccianti che si spostano dalla raccolta delle angurie a Nardò a quella dei pomodori a Cerignola, e poi a quelle delle arance e dei mandarini in Calabria, per poi ricominciare il giro, non lo fanno autonomamente. Il mercato è regolato dai signori delle braccia. Sono loro che assecondano il flusso dei braccianti, quasi una “transumanza”, traendone il maggior profitto, provando a impedire le ribellioni contro il proprio dominio o i tentativi di sciopero, negando il lavoro a chi è fuori dal proprio controllo. Questo circuito asfissiante, questa “tratta interna”, come è stata definita, è una sorta di percorso obbligato per migliaia di lavoratori che non hanno altre alternative. È possibile rompere questo schema?
Come detto in precedenza, non è possibile comprendere l’odierno sfruttamento nelle campagne se non si coglie appieno la vulnerabilità dei nuovi braccianti: una vulnerabilità che nasce dall’invisibilità. È lo stesso Saber Jelassi, ad esempio, ad avere ben chiaro questo concetto. Parlando al telefono con un altro caporale, spiega in poche esaustive parole i vantaggi dell’oscurità: «È il padrone che mi ha spiegato il sistema del lavoro. Mi ha detto: figlio mio, allontanati dal centro del paese. Quando carichi la gente la mattina, ti vedono le forze dell’ordine… ti vengono a trovare. Dieci persone in una macchina, è certo che ti fermano. Ma quando sei dentro le campagne, non disturbi la gente, non hai preoccupazioni, non hai problemi con le persone, capisci?».
Quando i braccianti abitano in casolari isolati o in tendopoli auto-costruite lontane dai centri abitati, tale invisibilità alimenta la loro vulnerabilità.
Il reato di caporalato
È alla luce di tutto ciò che vanno valutate le nuove misure varate nel settembre del 2011 (introduzione del reato di caporalato) e nel luglio del 2012 (concessione del permesso di soggiorno ai lavoratori che denunciano i propri sfruttatori). Si tratta di misure di enorme importanza. Per la prima volta in Italia viene formulato giuridicamente il concetto di grave sfruttamento lavorativo: qualcosa cioè che, anche quando non giunge alle forme estreme di riduzione in schiavitù, è comunque molto più grave del semplice “lavoro nero” o della sola evasione contributiva. Per la prima volta, inoltre, viene offerta una via d’uscita ai lavoratori ricattati dalla condizione di clandestinità.
Tuttavia tali norme possono divenire davvero efficaci, solo se la cappa di vulnerabilità e invisibilità verrà rotta anche sul piano culturale, sociale, economico, sindacale.
Bibliografia
Brigate di solidarietà attiva, Sacchetto Devi, Nigro Gianluca, Perrotta Mimmo, Yvan Sagnet (a cura di), Sulla pelle viva. Nardò: la lotta autorganizzata dei braccianti immigrati, DeriveApprodi, Roma, 2012
Leogrande Alessandro, Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud, Mondadori, Milano, 2008
Mangano Antonello, Gli africani salveranno l’Italia, Bur, Milano, 2010
Medici senza frontiere, Una stagione all’inferno. Rapporto sulle condizioni degli immigrati impiegati in agricoltura nelle regioni del Sud Italia, pubblicato online sul sito www.medicisenzafrontiere.it, 2008
Rovelli Marco, Servi. Il paese sommerso dei clandestini al lavoro, Feltrinelli, Milano, 2009
L’articolo è tratto dal Dizionario enciclopedico di mafie e antimafia,
a cura di M. Mareso e L. Pepino (Edizioni Gruppo Abele, 2013).
Si ringrazia l’editore per l’autorizzazione alla pubblicazione.