Dieci giorni fa, il 30 luglio, la nave “Asso 28” della società Augusta Offshore di Napoli, operante in appoggio a una piattaforma petrolifera dell’ENI al largo di Sabratha, ha raccolto in mare, in acque internazionali, 101 profughi in fuga dalla Libia (fra cui 5 donne e 5 bambini) e, dopo averli fatti salire a bordo, si è diretta al porto di Tripoli dove i profughi sono stati sbarcati senza alcuna possibilità di avanzare domanda di asilo o di protezione internazionale.
Ciò, secondo 34 giuristi, che questa mattina hanno presentato un esposto alla Procura di Napoli, integra diversi reati, connessi con la violazione dell’obbligo di soccorso in mare e con quella della libertà personale delle persone ricondotte contro la loro volontà nel luogo da cui erano fuggite per sottrarsi a violenze e vessazioni.
Di seguito pubblichiamo, per la sua importanza, il testo integrale dell’esposto.
Al Procuratore delle Repubblica di Napoli
Notizie di stampa, di cui alleghiamo due esempi significativi (Corriere della sera e Il fatto quotidiano), hanno informato l’opinione pubblica che il 30 luglio la nave “Asso 28” della società Augusta Offshore di Napoli, operante in appoggio a una piattaforma petrolifera dell’ENI al largo di Sabratha (Libia), ha effettuato il recupero in mare, in acque internazionali, di 101 profughi in fuga dalla Libia (fra cui 5 donne e 5 bambini) e, dopo averli fatti salire a bordo, si è diretta al porto di Tripoli dove sono stati sbarcati senza alcuna possibilità di avanzare domanda di asilo o di protezione internazionale.
Ci rivolgiamo a Lei per chiederle di accertare se in questa occasione siano stati commessi reati e in questa eventualità da parte di chi, tenendo conto che una nave battente bandiera italiana è a tutti gli effetti parte del territorio nazionale, e se possa configurarsi una forma di respingimento collettivo per di più da parte di privati.
In relazione alla vicenda della nave Asso 28 sono state fornite diverse versioni dell’accaduto. Tra queste che alla richiesta di coordinamento dei soccorsi all’MRRC (Maritime Rescue Coordination Center) di Roma non sia venuta risposta o che la risposta abbia rinviato la responsabilità alla guardia costiera libica.
Se confermato quanto sopra, per la prima volta una nave italiana avrebbe sbarcato in Libia dei naufraghi raccolti in acque internazionali dopo la nota sentenza della Corte EDU del 2012 che ha condannato duramente l’Italia per i respingimenti in Libia effettuati da navi militari italiane nel 2009, su disposizione del Ministro dell’interno dell’epoca. La Grande Chambre della Corte di Strasburgo con la sentenza Hirsi Jamaa e altri c. Italia del 23 febbraio 2012 ha statuito che:
Le azioni di Stati contraenti compiute a bordo di navi battenti la bandiera dello Stato, anche fuori del territorio nazionale, rientrano nella giurisdizione della Corte EDU ai sensi dell’art. 1 CEDU.
L’esecuzione di un ordine di respingimento di stranieri costituisce violazione dell’art. 3 CEDU, relativo al divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti, quando vi sono motivi seri ed accertati che depongono per un rischio reale che lo straniero subisca nel Paese di destinazione trattamenti contrari all’art. 3 della Convenzione (con riferimento alla Libia)
L’allontanamento di un gruppo di stranieri effettuato fuori del territorio nazionale, in presenza di giurisdizione dello Stato, senza che venga esaminata la situazione personale di ciascun componente del gruppo e senza che ciascuno possa presentare argomenti contro l’allontanamento, integra una violazione del divieto di espulsioni collettive di cui all’art. 4 Protocollo n. 4 CEDU la cui portata deve considerarsi anche extraterritoriale.
A norma del codice penale (art. 4) le navi italiane sono considerate “territorio dello Stato” agli effetti della legge penale. Di conseguenza le azioni compiute a bordo di navi battenti bandiera italiana, come affermato dalla Corte EDU, rientrano nella giurisdizione della Corte e quindi anche dello Stato italiano.
Chiediamo che siano accertate le condotte di tutti coloro che hanno concorso nell’evento, sussistendo pienamente la giurisdizione italiana sui fatti accaduti.
L’Autorità giudiziaria dovrà verificare se vi sia stato un respingimento collettivo di migranti vietato dalle Convenzioni internazionali, in particolare dall’art. 4 del quarto Protocollo aggiuntivo alla Convenzione Europea per i Diritti Umani (CEDU) e dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, in quanto ai migranti è stato impedito l’accesso alla protezione internazionale poiché forzosamente ricondotti in Libia, dichiarata porto non sicuro dall’UE e dall’UNHCR, paese nel quale i migranti sono notoriamente sottoposti a torture e trattamenti disumani e degradanti, in violazione dell’art. 3 della CEDU e dell’art. 33 della Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati, a cui peraltro la Libia non ha mai aderito.
Nel caso di specie potrebbero essere state violate le convenzioni internazionali sul soccorso in mare.
Ad avviso dei firmatari, stanti le diverse e contraddittorie versioni fornite dalla stampa, va chiarito anche il ruolo svolto dal Centro Nazionale di Coordinamento del Soccorso Marittimo (MRCC), contattato dalla nave “Asso 28”, che, come è noto, ha l’obbligo di coordinare i soccorsi adottando tutte le misure necessarie affinché le persone soccorse possano sbarcare nel più breve tempo possibile in un luogo sicuro (Convenzione SAR, par. 3.1.9 come modificato nel 2004), ovvero una località dove la sicurezza e la vita dei sopravvissuti non venga più minacciata e i bisogni primari (come cibo, alloggio e cure mediche) siano soddisfatti, organizzando il trasporto dei sopravvissuti verso una destinazione successiva o finale (Linee Guida IMO sulle persone soccorse in mare, par. 6.12).
L’autorità giudiziaria italiana ha avuto modo di pronunciarsi in più occasioni e di escludere che la Libia possa essere considerata un luogo sicuro, ai sensi delle convenzioni internazionali. In particolare il gup del tribunale di Ragusa con provvedimento depositato in data 16 aprile 2018, con il quale ha disposto il dissequestro della motonave Open Arms, ha osservato che «le operazioni SAR di soccorso non si esauriscono nel mero recupero in mare dei migranti, ma devono completarsi e concludersi con lo sbarco in un luogo sicuro (POS, Place of safety), come previsto dalla Convenzione SAR siglata ad Amburgo il 1979. […] Non può essere considerato sicuro un luogo dove vi sia serio rischio che la persona possa essere soggetta alla pena di morte, a tortura, persecuzioni od a sanzioni o trattamenti inumani e degradanti, o dove la sua vita o la sua libertà siano minacciate per motivi di razza, religione, nazionalità, orientamento sessuale, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o di orientamento politico. Il tema è evidentemente connesso con il principio di non respingimento collettivo, con il diritto internazionale dei rifugiati, e più in generale con i diritti fondamentali dell’uomo». Quindi il gup, sulla scorta di convergenti informazioni di fonti qualificate nazionali e internazionali ha escluso a sua volta la sussistenza di place of safety in territorio libico (il provvedimento è consultabile sul sito di Questione giustizia).
I sottoscritti hanno fiducia nella possibilità dell’Autorità Giudiziaria di accertare l’esatto svolgimento dei fatti, verificando se vi siano responsabilità individuali e l’accertamento di chiunque abbia responsabilità private o pubbliche che li abbia posti in essere. Preoccupa il profilo della violazione dell’obbligo di soccorso in mare e della violazione della libertà personale delle persone ricondotte contro la loro volontà in Libia, salvo diversi e più gravi reati, senza dimenticare che sarebbe necessario individuare queste persone e ripristinare il loro diritto individuale di chiedere asilo.
Napoli, 8 agosto 2018
Danilo Risi
Alfiero Grandi
Domenico Gallo
Massimo Villone
Elena Coccia
(seguono altri 29 firmatari tra cui Luigi De Magistris, Luigi Ferrajoli, Raniero La Valle, Livio Pepino, Roberto Lamacchia)