Il 14 luglio è in Francia la festa nazionale della Repubblica: la commemorazione festosa della presa della Bastiglia e dell’inizio della rivoluzione del 1789.
In Italia questa stessa data ci ricorda, invece, eventi inquietanti del nostro più recente passato: il 14 luglio del 1938, infatti, uscì sul Giornale d’Italia il cosiddetto “Manifesto della razza”, firmato da alcuni docenti universitari disposti a sottoscrivere indegne affermazioni antiscientifiche per compiacere la dittatura fascista. Con quel testo si aprì la strada che portò alle vergognose leggi razziali dell’anno successivo.
Dieci anni più tardi, il 14 luglio 1948, un personaggio ambiguo – tal Antonio Pallante – sparò tre colpi di rivoltella a Palmiro Togliatti mentre usciva da Montecitorio: questo anniversario, col passare degli anni, è stato, forse comprensibilmente, meno ricordato; tuttavia approfondire un poco i fatti che seguirono a quell’episodio può forse aiutare a riflettere sulla situazione politica attuale nel nostro Paese. L’attentato fu realizzato tre mesi dopo le elezioni del 18 aprile 1948 nelle quali la Democrazia Cristiana, dopo aver rotto la coalizione antifascista nel maggio del 1947, vinse contro il Fronte democratico popolare, costituito da PCI e PSI: partecipò al voto oltre il 92% degli aventi diritto. Dopo la rottura dell’unità resistenziale e la battaglia elettorale condotta con toni drammatici, il clima politico e sociale era naturalmente esacerbato. Alla notizia dell’attentato a Togliatti in tutte le grandi città del centro nord gli operai delle fabbriche e i lavoratori dei trasporti entrarono immediatamente in sciopero: la Fiat fu occupata dalle maestranze e l’amministratore delegato Vittorio Valletta fu costretto a rimanere nel suo ufficio. In molte grandi piazze, come piazza De Ferrari a Genova, manifestanti e reparti celeri della Polizia si confrontarono duramente (almeno decine di morti e centinaia di feriti in tutto il Paese). Il 16 luglio a mezzogiorno la CGIL dichiarò la fine dello sciopero che era iniziato il 14 sulla spinta delle cellule comuniste nei luoghi di lavoro: da quella stessa data iniziò la storia della scissione sindacale. Prima la componente cattolica e successivamente quella socialdemocratica uscirono dalla confederazione unitaria. Nell’analizzare gli avvenimenti, poco dopo quei giorni di lotta e di tensione al limite della guerra civile, Pietro Secchia, che era allora responsabile dell’organizzazione del PCI, mise in evidenza come tutta l’iniziativa fosse stata in mano alle strutture di partito mentre le cosiddette organizzazioni di massa (UDI, Fronte della gioventù, ANPI, Associazione reduci, Consulte popolari e la stessa CGIL) si erano mostrate sostanzialmente passive e comunque a ruota dei quadri di partito. Pur cogliendo i limiti qualitativi (non certo quantitativi) di quella mobilitazione, Secchia trasse un bilancio positivo delle capacità politiche e organizzative del partito: d’altra parte l’idea della centralità del partito era il nucleo della teoria leninista.
Guardando oggi a quei fatti lontani non si può sfuggire alla constatazione che la matrice della sinistra italiana postbellica sia stata necessariamente e prioritariamente politica e non sociale. Il ventennio fascista aveva cancellato con la violenza tutta la precedente esperienza delle camere del lavoro, delle società cooperative e di mutuo soccorso, delle leghe sindacali.
Dalle macerie del fascismo e dalla lotta partigiana antifascista era risorta una forza politica di sinistra: il Partito Comunista e, in misura minore, quello socialista. Fu poi l’iniziativa di questa forza politica a ricostruire il sindacato – che non casualmente nel 1948 subì una scissione tutta partitica – e successivamente a rilanciare il movimento cooperativo a partire dalle regioni del centro Italia.
Dopo il 1989 il progressivo crollo di quella forza di sinistra non ha solo svuotato l’area politica, ma ha cancellato anche il rapporto con le organizzazioni sociali (o di massa come le chiamava Secchia): oggi il movimento cooperativo è ormai una componente capitalistica per alcuni aspetti più spregiudicata degli stessi imprenditori privati e la CGIL dichiara tranquillamente che molti dei suoi iscritti e quadri votano per il Movimento Cinque Stelle o per la Lega.
Sicuramente oggi in Italia non esiste più (o non ancora) una sinistra politica, ma è certo che la sinistra sociale sia debolissima e frammentata, oltre che incapace di esprimere una propria rappresentanza politica: l’ultimo tentativo in questa direzione è stato la proposta della “coalizione sociale” da parte della FIOM di Landini, morta ancora prima di nascere. In buona sostanza si può dire che la sinistra in Italia non sia mai stata assimilabile alla tradizionale socialdemocrazia dei Paesi del nord Europa, proprio per questa sua natura squisitamente politica e molto meno sociale. Solo in brevi periodi – negli anni ’60 e poi nella prima metà degli anni ’70 – la sinistra sociale ha pesato sulle scelte della sinistra politica: non casualmente la FLM e il sindacato dei consigli nacquero proprio in quegli anni e poi morirono nel decennio successivo.
Ma c’è un altro aspetto dei fatti del luglio 1948 sul quale è opportuno richiamare l’attenzione.
L’attentato a Togliatti non fu un fatto isolato: dopo la rottura della coalizione di governo e la formazione del gabinetto De Gasperi senza la partecipazione della sinistra, si intensificarono gli assassini di dirigenti comunisti e socialisti in particolare in Sicilia. Nell’isola operarono sotto la direzione del ministro dell’interno Scelba molti funzionari di polizia e ufficiali dei carabinieri che si erano distinti sotto il fascismo e nella Repubblica di Salò: tanti di questi, criminali di guerra sul fronte dei Balcani, non furono mai consegnati ai tribunali internazionali, furono reintegrati negli organici statali e impiegati nella repressione delle lotte operaie e contadine. In un intreccio torbido tra questi funzionari e le bande mafiose che imperversavano nella Sicilia dell’immediato dopoguerra, furono sistematicamente eliminati tutti i segretari delle camere del lavoro locali che guidavano il movimento dell’occupazione delle terre: in occasione del primo maggio del ’47 il bandito Giuliano compì la strage di Portella della Ginestra. Quegli stessi dirigenti di polizia e ufficiali dei carabinieri, sotto la direzione del ministro Scelba, furono i capofila delle varie organizzazioni paramilitari anticomuniste, sovvenzionate dai servizi americani, che continuarono la loro attività fino alla strategia della tensione degli anni ’70 e mantennero aperto il dialogo con la mafia siciliana che è proseguito fino ai giorni nostri, come ha confermato la recente sentenza della Corte di cassazione.
In buona sostanza lo Stato italiano non è mai stato realmente democratizzato e defascistizzato: questa componente fascista e antidemocratica ha tratto anzi nuova linfa con lo sdoganamento degli esponenti dell’ex MSI (si pensi a Gianfranco Fini che ha seguito la mattanza di Genova 2001 direttamente dalla sala operativa della questura ligure) e oggi può godere dei favori del nuovo ministro dell’interno. La mancata epurazione del dopoguerra (a partire dall’amnistia Togliatti) ha determinato la non democratizzazione dello Stato italiano, facendo del nostro Paese un caso anomalo rispetto al resto dell’Europa occidentale: la Francia ha, infatti, condotto nell’immediato dopoguerra un’epurazione non sempre rigorosa, ma sicuramente più massiccia di quella italiana; nella stessa Germania occidentale con il movimento ’68 si è proceduto all’allontanamento dei personaggi compromessi col nazismo ancora presenti nei giornali, nelle università e negli uffici pubblici. Invece in Italia la risposta delle istituzioni repubblicane al movimento del ’68 fu la strategia golpista della tensione.
Dunque anche questo secondo aspetto ha sicuramente inciso sulla natura della sinistra italiana: la mancanza di uno Stato democratico ha impedito che si affermasse una forza socialdemocratica come è invece avvenuto in molti altri Stati dell’Europa occidentale. Quando il PSI di Nenni ruppe col PCI ed entrò nella agognata “stanza dei bottoni” all’inizio degli anni ’60, avviò un parziale programma di riforme, ma si fermò al primo “tintinnar di spade”, come ammise lo stesso Nenni alludendo alle manovre golpiste che agitavano l’arma dei carabinieri.
Oggi la sinistra è sicuramente in crisi in tutta l’Europa di fronte all’avanzare di una destra nazionalista e xenofoba che prospera sui disastri economici e sociali perpetrati dal neoliberismo e dal finanzcapitalismo. Tuttavia nella maggioranza dei Paesi una forza socialdemocratica resiste seppur con difficoltà e alla sua sinistra un partito o un raggruppamento di partiti più radicali si scontra e confronta con i socialdemocratici: accade in Spagna, in Portogallo, in Germania, in Svezia, con maggiori difficoltà in Francia e in forme diverse all’interno del partito laburista inglese. Solo in Italia non esiste né una forza socialdemocratica, né una sinistra più radicale: dal punto di vista del quadro politico, dopo il 1989, il nostro Paese è andato sempre più assomigliando a quelli dell’Europa dell’est.
Da più parti giornalisti e intellettuali si disperano per la condizione comatosa in cui versa il PD e si spendono in suggerimenti programmatici e tattici per cercare di impedirne la definitiva estinzione, ma nessuno si chiede se questo loro struggente desiderio abbia qualche base reale. La storia del nostro Paese sembra contraddire queste speranze; ma anche il quadro internazionale mette in luce le difficoltà di una proposta socialdemocratica di fronte all’imperversare della campagna sovranista e xenofoba, da un lato, e alla concreta azione dei centri di potere economico e finanziario globalizzati, dall’altro. D’altra parte l’analisi di Piketty conferma che i “trent’anni gloriosi” sono stati una parentesi felice nella storia, ma che, con l’affermazione del pensiero unico liberista e con il contemporaneo crollo del modello sovietico, il capitalismo è tornato ai suoi più profondi istinti animali e potrà essere contenuto, limitato e poi sconfitto solo con una proposta realistica di un modello socialista alternativo al capitalismo.
Tutto questo ci dice che un programma di ricostruzione della sinistra in Italia richiederà tempi lunghi, ma scelte radicali: difficilmente il terreno della competizione elettorale – soprattutto a livello nazionale – potrà essere utilizzato favorevolmente fintanto che non si sarà avviato un processo di costruzione della sinistra a livello sociale. Questo processo si svilupperà, però, solo se coinvolgerà una rifondazione del movimento sindacale e di quello cooperativo su basi anticapitalistiche. All’interno di questo programma la lotta per la democratizzazione delle istituzioni, a cominciare da quelle locali, dovrà avere un posto rilevante e dovrà misurarsi sia contro il risorgente nazionalismo, sia contro il liberismo globalista.