Le opinioni riguardo i migranti, in genere, si polarizzano tra chi ritiene che questi siano una zavorra insostenibile e pertanto si debbano sbarrare porti, frontiere e ogni possibile canale di accesso e chi invece, con spirito caritatevole, ritiene doveroso prestare soccorso e offrire assistenza. Insomma c’è chi si riconosce nello slogan “aiutiamoli a casa loro” e viceversa chi si dichiara favorevole ad “aiutare in casa propria”.
Quel che accomuna questi due approcci – apparentemente antitetici – è l’idea che il ruolo salvifico debba necessariamente essere interpretato dagli Europei e che gli Africani non possano che essere gli “aiutati”; che solo il Nord del Mondo sia nella posizione di elargire beni, educazione, sviluppo e valori, mentre la restante parte di umanità si debba limitare ad attendere il misericordioso obolo di risorse materiali e immateriali. Ma si può essere tanto certi che il Vecchio continente non abbia nulla da imparare dai migranti e dai luoghi da cui essi provengono? È così arduo immaginare che chi è soccorso possa farsi pure soccorritore? È così difficile ammettere che Paesi e popolazioni occidentali soffrano di miserie alleviabili attraverso programmi di cooperazione alla rovescia? La spocchia del colonizzatore non sembra passata di moda e ciò fa perdere l’opportunità di riconoscere i valori, le buone idee e le ottime pratiche germogliate anche oltre la sponda Sud del Mediterraneo.
A sbaragliare l’impianto canonico interviene un gruppetto di giovani rifugiati residenti a Palermo, sbarcati circa un paio di anni fa sulle coste siciliane. Io ho avuto la fortuna di conoscerli e di intrecciare il mio destino al loro perché sono stata una delle loro insegnanti, all’interno di un programma educativo sperimentale per minori stranieri non accompagnati, ideato con alcune colleghe intelligenti e appassionate (Lucia Barbera, Nicoletta Campisi, Rosalia Lando, Nilla Palmeri e Leonarda Parisi) presso il “CPIA Palermo 1”: una scuola pubblica per adulti del capoluogo siciliano.
Dopo qualche mese in Italia, i nostri studenti – in gran parte giovani richiedenti asilo originari dell’Africa occidentale – hanno iniziato a guardarsi attorno, osservando come le relazioni sociali in Europa siano spesso segnate da diffidenza, rabbia e paura. Hanno poi visto come povertà ed emarginazione colpiscano oltre agli stranieri, non pochi italiani; hanno riconosciuto gli effetti perversi dell’individualismo, visto il crescere della solitudine pure tra i loro coetanei e avvertito la sofferenza patita anche da chi vive nel benessere; hanno colto la distanza siderale tra alcuni gruppi sociali e le diseguaglianze tra le diverse parti della città. Mi hanno dunque comunicato che avevano a cuore le sorti del Paese dove sarebbero cresciuti e che intendevano fare qualcosa per raddrizzare le storture che avevano colto. Giunsero alla conclusione che l’Europa avesse bisogno di giocherenda e che loro dovevano diffonderla.
Alla mia richiesta di delucidazioni sulla “giocherenda” mi hanno spiegato che è un termine “pular”, una lingua parlata in parecchi Paesi del West-Africa, il cui significato si avvicina al concetto di “solidarietà”, ma il senso è ben più ampio. Si tratta di una parola composta dai termini “giuntura” e “linfa vitale”; la giocherenda è quindi il fluido che, scorrendo nelle articolazioni, le tiene insieme e ne permette il movimento, combina dunque l’idea di “unire” con quella di “vivificare”.
L’immagine che viene utilizzata per spiegare questo concetto è quella di un dito che da solo è incapace di afferrare, mentre la mano umana, in quanto unione di più dita, è in grado di fare cose meravigliose. Fuor di metafora: la solitudine condanna all’impotenza. L’altro esempio che viene fatto è se la testa pulsa la persona tutta ne soffre. Con questo si vuol dire che se un componente della società vive un disagio, tale sofferenza si riverbererà sugli altri. In accordo al principio di “giocherenda”, si è solidali non tanto perché si possiede una speciale virtù morale, ma perché si è consapevoli che i destini dell’umanità sono incrociati e che il benessere o il malessere degli altri impattano la propria esistenza. Siamo così giunti a tradurre il concetto di “giocherenda” con espressioni quali: “forza che scaturisce dall’unione”, “consapevolezza dell’interdipendenza” e infine “gusto della condivisione”.
Ci siamo allora chiesti come insegnare la giocherenda, come far fare esperienza del gusto gioioso del condividere? L’assonanza con la parola italiana “gioco” è stata la chiave del rebus. Avremmo creato dei giochi cooperativi e narrativi: giochi in cui nessuno perde e il cui l’obiettivo è dar luogo a una storia comune.
I ragazzi hanno quindi attivato la loro creatività e ideato una serie di prodotti ludici. Una piccola donazione ha dato modo di acquistare le materie prime e gli arnesi necessari a realizzare i primi prototipi. Siamo partiti dai talenti di ciascuno e abbiamo affinato nuove abilità. Alcuni dei ragazzi erano sarti, altri pittori, altri ancora attori e alcuni avevano una spiccata propensione per la filosofia. Hanno imparato non solo a realizzare giochi artigianalmente, ma anche a condurre laboratori ludici, creativi ed educativi e così la missione di esportare la giocherenda in Europa ha avuto inizio.
L’idea ha subito trovato riscontro, si sono moltiplicati gli inviti in città e in altre regioni d’Italia, e poi in Austria, Inghilterra, Spagna e, recentemente, siamo approdati al Parlamento Europeo di Bruxelles.
I ragazzi di Giocherenda sono stati contattati da Dell’Oglio, un’azienda di alta moda, per formare l’intero personale. Ma successivamente i giovani rifugiati hanno deciso di offrire i loro laboratori anche ai ragazzini delle periferie svantaggiate di Palermo, come lo Zen, Brancaccio e Ciaculli. Stanno insegnando loro come non sentirsi stranieri nella loro stessa città, come praticare la resilienza collettiva. Questa formazione si basa su un metodo ideato dal celebre psicologo sociale Philip Zimbardo, ma con il consenso del fondatore è stato adattato alla peculiare storia dei rifugiati.
I ragazzi di Giocherenda, come i tanti altri rifugiati passati dalla Libia, sono accomunati dall’atroce vissuto del viaggio. Sono tutti dei superstiti. Ma quali fattori danno maggiori chance di essere tra i salvati? Dai loro racconti emerge che la salvezza fisica e la tenuta psicologica sono spesso il risultato dell’aver saputo tessere legami solidali. Durante il tragitto alcuni si sono ammalati, hanno subìto incidenti, hanno patito la fame e la sete, l’afa e il gelo, sono stati picchiati, hanno avuto le ossa rotte, si sarebbero impantanati in un limbo infernale, sarebbero morti o impazziti se non si fosse attivato un mutuo soccorso e un affratellamento. Dine Diallo, il presidente dell’associazione, mi diceva che è riuscito a gestire la paura non dimenticandosi mai che chi gli stava intorno, perfino il suo aguzzino o il trafficante, fossero esseri umani, affetti anche loro dalla sua stessa paura. La giocherenda, insomma, salva.
Questo gruppo di giovani rifugiati africani che intendono aiutare gli europei si propone come modello: abbandonare il pietismo, promuovere lo sviluppo umano, ribaltare la grammatica delle relazioni di potere, fondare comunità radicate nel futuro.
Per sapere di più dei giocherenda, contattarli o acquistare il loro prodotti si veda pagina fb: giocherenda; negozio online:
https://www.etsy.com/shop/Giocherenda