«Io sono fascista, mi dice un ragazzino di tredici anni. Sarà alto un metro e quaranta, è ancora in terza media. Pure io sono fascista, dice un suo amico […]. Per me il fascismo è una moda, mi ripetono in cinque, dieci, venti ragazzi di Roma, di Milano, di Firenze, di Padova, di Palermo. E magari me lo confermano con quello che hanno indosso (esiste una linea di abbigliamento legata a CasaPound)».
A parlare, anzi a scrivere, così è Christian Raimo, insegnante di storia e filosofia in un liceo di Roma, che ha appena pubblicato il libro Ho 16 anni e sono fascista. Indagine sui ragazzi e l’estrema destra, uscito per Piemme. Raimo, che collabora anche con L’internazionale e Minimum Fax, è andato in giro per le scuole d’Italia, dove ha incontrato giovani e giovanissimi che oggi militano nelle formazioni neofasciste: ha interrogato i loro leader e ha assistito alle loro manifestazioni pubbliche, per scoprire che la politica nella destra radicale è soprattutto una forma di esibizione. Oggi, dunque, che cosa significa davvero essere “fascista”? E, al contrario, quale significato assume (e/o dovrebbe assumere) l’essere “antifascista”?
La domanda torna di cruciale attualità dopo il risultato delle elezioni del 4 marzo e il controverso insediamento del governo Conte, a maggioranza Lega-M5S, da diversi analisti e commentatori etichettato come l’esecutivo più a destra “dal 1946” (secondo l’espressione usata dal sociologo Domenico De Masi).
Ma che cosa hanno in comune Lega e Movimento 5 Stelle con le formazioni di estrema destra come CasaPound? Da una parte, troviamo il “mondo” descritto da Raimo, dove i movimenti neofascisti hanno una facile presa sui giovanissimi, attraverso la fascinazione di simboli, bandiere, gesti, e slogan facendo leva soprattutto sulle emozioni, al pari di cori da stadio. In tutto ciò, però, la coscienza politica sembra passare in secondo piano. Dichiararsi fascisti – in questo senso – è diventato addirittura elemento qualificante di una nuova identità cercata in contesti sempre più ampi. Sull’altro versante di chi si dichiara fascista per moda, troviamo coloro che del neofascismo hanno fatto un impegno politico: e qui la differenza può essere enorme. La radice del problema resta (forse) la stessa. E il “fenomeno Salvini” può essere collocato proprio in mezzo: due facce della stessa medaglia che si ricollegano a un unico grande fenomeno, l’attuale crisi istituzionale. I giovani di CasaPound solo la punta di un enorme iceberg.
Ad ogni 25 aprile, o qualsivoglia commemorazione della resistenza antifascista, associazioni partigiane, forze politiche che si richiamano all’area di centro-sinistra, o altre organizzazioni culturali si affrettano a ricordare che il senso del cosiddetto “antifascismo” si sta progressivamente perdendo nella memoria dei tempi: nei giovanissimi sembra mancare la percezione di quella che è stata l’oppressione durante il regime fascista e di quali sono stati i valori che hanno accompagnato la sua opposizione. Ma se allora le nuove generazioni non si ricordano più dell’antifascismo perché dovrebbero ricordarsi del fascismo? E se a vent’anni abbiamo paura che i nostri studenti non si sentano più “antifascisti” perché dovrebbero dichiararsi “fascisti”? E ancora: perché questo ci dovrebbe fare paura?
Nel provare a rispondere a questi interrogativi troviamo l’efficacia di un “modello” da una parte (quello neofascista) e il progressivo fallimento di un altro (quello dell’antifascismo). Insomma, potremmo un po’ brutalmente affermare che se il fascismo va ancora (anzi, nuovamente) di moda, l’antifascismo un po’ meno.
Sui giovani intervistati da Raimo sembrano avere facile presa le grandi paure xenofobe della globalizzazione, che nutrono il mito razzista, incitano alla violenza sui più deboli (il bullismo, gli haters) e ben s’insinuano negli spazi democratici delle scuole e delle università.
L’antifascismo – al contrario – sembra restare quel vecchio cavallo di battaglia che di tanto in tanto una non ben identificata sinistra chiama in causa al fine di denigrare avversari politici di turno o enfatizzare sporadici episodi che non vengono poi realmente analizzati. Oppure, viene percepito dall’opinione pubblica come un rituale da cerimonia pazientemente portato avanti da soggetti come l’ANPI, che al suo interno non è però riuscita a compiere pienamente un processo di autoriforma in grado di coinvolgere la propria componente giovanile. E ancora, per renderci conto che, forse, per decenni ci siamo (ben) abituati a non sentire il bisogno di antifascismo, ci basta pensare che una forza politica come il Partito Democratico non ha nemmeno ritenuto opportuno inserire tra i suoi valori fondanti, in sede di statuto, proprio l’antifascismo. A farlo notare è lo storico Alessandro Portelli che intervistato sulle pagine di Left (luglio 2017) ha parlato di “normalizzazione della memoria”, sottolineando anche la progressiva rinuncia dei partiti tradizionalmente collocati a sinistra a rimarcare la differenza radicale rispetto alla destra. L’antifascismo “militante” (quello tenuto in piedi soprattutto dalla rete “Antifa”) resta un virtuoso tentativo, ma spesso percepito come fenomeno elitario, associato quasi esclusivamente alle attività di qualche collettivo e/o centro sociale, troppo marginale per essere considerato mainstream o, appunto, “di moda”.
A spiegare efficacemente perché CasaPound è il modello neofascista (non l’unico, certo, basti pensare a organizzazioni come Forza Nuova) che ha più successo tra i giovani è lo studioso Elia Rosati che ha appena pubblicato un volume sul tema (CasaPound Italia. Fascisti del terzo millennio). Ciò che Rosati racconta è la storia (e soprattutto il ruolo) della formazione politica, ripercorrendo le diverse fasi che il movimento di estrema destra ha attraversato e analizzando i modelli culturali di cui si nutre (tra cui quello greco di Alba Dorata). Sempre secondo Rosati, CasaPound «è qualcosa che durerà, ma che non è possibile misurare con il metro elettorale». Un’affermazione che ci porta dritti al punto, o meglio alla punta dell’iceberg di cui si diceva prima. Da una parte i giovanissimi neofascisti per moda, i leader studenteschi che abilmente li intercettano e, dall’altra, coloro che una qualche idea di fascismo riescono oggi a riproporla sotto forma di mobilitazione politica. In mezzo la Lega dell’era Salvini che il malcontento lo sta efficacemente e diffusamente intercettando obbligandoci a ripensare al significato del fascismo, ai fascismi, di cui gli adolescenti di Raimo sono solamente l’aspetto più manifesto.
Nel 1962, per rispondere a due lettori di Vie Nuove preoccupati della diffusione dell’estrema destra, Pier Paolo Pasolini, scriveva «non occorre essere forti per affrontare il fascismo nelle sue forme pazzesche e ridicole: occorre essere fortissimi per affrontare il fascismo come normalità, come codificazione, direi allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo brutalmente egoista di una società». A ricordarci queste parole è stato Guido Caldiron dalle colonne del Manifesto, all’indomani delle elezioni che hanno decretato l’eccezionale risultato di CasaPound nel Municipio romano di Ostia (novembre 2017).
Chissà che cosa avrebbe detto proprio Pasolini, camminando oggi per le strade di Ostia, emblema non tanto dell’affermazione elettorale di CasaPound – a vincere davvero nel Municipio del litorale romano è stata l’astensione – quanto proprio della sua piena “normalizzazione”, si chiedeva qualche mese fa Caldiron. «Noi, periferia di nessuno», era questo lo slogan di un candidato indipendente. E, in effetti, più che una periferia urbana di Roma, una vasta parte di Ostia potrebbe far pensare a certi quartieri di Bari o di Pescara, forse di Napoli:
«Se il confine tra politica e malaffare è spesso molto sottile, qui a volte è scomparso del tutto, con il municipio sciolto per mafia, l’ex presidente PD condannato in primo grado, e due clan, i Fasciani e gli Spada che stando alle cronache giudiziarie, hanno cercato di spartirsi i soldi facili arrivati con la gentrificazione. E proprio un membro della famiglia Spada alla vigilia del voto ha postato su Facebook quello che aveva tutta l’aria di essere un messaggio di sostegno a CasaPound».
Ecco: CasaPound, capace di insinuarsi gradualmente, proprio lì. Tra abbandono e crisi dei partiti tradizionali, dando corpo a quell’idea di “sindacato del popolo” che a Ostia si è concretizzata nella distribuzione di generi alimentari alle famiglie italiane ma anche nella persistente denuncia di immigrati e rom.
Alla fine, a Ostia, come in tanti altri territori colpiti dalla crisi (economica, sociale, istituzionale), il vecchio fascismo si è vestito, già a novembre, del «prima gli italiani» per tentare di trasformarsi in senso comune. Forse Pasolini ci aveva visto giusto? E Salvini (insieme al M5S) ci sta vedendo ancora meglio?
Il problema è, forse, per quanto ancora possano restare miopi le forze dell’area progressista e del centro-sinistra che dell’antifascismo continuano a fare (e peraltro, giustamente) memoria, talvolta retorica, che rischia, però, di essere percepita soltanto come una battaglia simbolo di un’area politica perennemente alla ricerca di un’identità e un’unità ormai perdute. Allora, se CasaPound sbandiera la paura sotto forma di odio, razzismo e violenza e la Lega intercetta gli stessi sentimenti attraverso il consenso elettorale che l’ha portata fino al Governo, occorre magari ripartire proprio da lì. Dal dibattito che ci porta a chiederci se abbia senso o meno, attualmente, un’opposizione fascismo/antifascismo.
Siamo capaci di opporre a un neofascismo (un fascismo del nuovo Millennio) un “neo-antifascismo” pronto a intercettare il malcontento, la paura, la crisi? Questo non deve voler dire dimenticare i valori dell’antifascismo storico – quello che ci hanno tramandato le nostre famiglie – ma solamente consegnarlo a una memoria condivisa onorata attraverso studi, ricerche, pubblicazioni, corretta formazione e divulgazione. Non limitiamoci al lamento: prendiamo atto che il tempo sta consegnando alla storia i testimoni diretti di quell’epoca e che saremo molto presto soli alle commemorazioni, soli ad affrontare un “nuovo” mondo. Non dimentichiamo quei valori ma reinterpretiamoli con responsabilità e dignità. Non dimentichiamoci dei giovani di CasaPound, ma nemmeno degli anziani del circolo Arci di Benassi (Bologna, in una delle aree più “rosse della provincia rossa”, per dirla con Mario Caciagli), che “dando ragione a Salvini” diventano l’emblema di un popolo dimenticato, che rischia di essere tacciato di razzismo, scambiato per fascismo che invece, magari, è “solo” sinonimo di paura, solitudine, periferia.
La foto in primo piano è di Vincenzo Cottinelli