La ministra della guerra e gli F35

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Da un “Governo del cambiamento”, per di più alla ricerca di risorse per finanziare gli impegni assunti nel sociale, ci si aspetterebbe, quantomeno, una riduzione delle spese militari. Ma – si sa – quel capitolo di impegni e di spese tende a restare invariato (o a crescere) anche con il mutare dei governi, almeno nel nostro Paese. Il Governo Conte non sembra sfuggire alla regola.

Sul tappeto c’è, anzitutto la questione dei famigerati aerei caccia F35. La vicenda si trascina da oltre 20 anni. L’Italia, infatti, ha aderito al progetto multinazionale di acquisto dagli Stati Uniti degli F35 nel 1996 (Governo Prodi) e la firma del conseguente accordo è intervenuta il 18 novembre 1998 (Governo D’Alema). Il numero di caccia originariamente previsto per l’Italia era di 131 ed è stato ridotto a 90 con provvedimento del Governo Monti. Con il passare degli anni le spese sono lievitate e nel 2017 la Corte dei conti le ha conteggiate (allora) in 14 miliardi di euro.

Nella passata legislatura, tale acquisto è stato fortemente contestato, sia per motivi di principio e che per motivi di spesa anche all’interno della maggioranza di governo (divisasi nel voto del luglio 2013 in Senato su una mozione del sen. Casson e di altri 20 senatori del PD, respinta dall’aula, che proponeva di «sospendere immediatamente la partecipazione italiana al programma di realizzazione dell’aereo JSF/F-35 e […] di destinare le somme risparmiate a investimenti pubblici riguardanti la tutela del territorio nazionale dal rischio idrogeologico, la tutela dei posti di lavoro, la sicurezza dei lavoratori»). Particolarmente dura era stata l’opposizione del Movimento 5Stelle che, con una mozione parallela a quella del sen. Casson (anch’essa respinta dalla maggioranza), aveva sollecitato l’abbandono «in via definitiva» del programma «ponendo in essere ogni utile azione al fine di risolvere il contratto d’acquisto dei velivoli» (destinando le risorse risparmiate a interventi vari di carattere sociale e di tutela del territorio). Parallelamente, alla Camera, l’on. Di Battista, si era scagliato contro la scelta del Governo Letta di confermare l’acquisto dei caccia (in numero di 90), ricordando che in campagna elettorale il PD aveva definito gli F35 uno strumento di morte (e aggiungendo, sul blog del M5S, che quello degli F35 è un «programma fallimentare» e che «chi ci ha fatto entrare in esso dovrebbe essere preso a calci in culo»). La posizione del Movimento era confermata negli anni successivi. Nel febbraio 2015 l’on. Sibilia, premesso che «l’Italia si accinge a comprare 90 F35 ad un prezzo che nessuno conosce (almeno 50 miliardi di euro) senza che i cittadini abbiano scelto», aveva duramente stigmatizzato il fatto che «ciò accade mentre il Governo non ha trovato 96 milioni di euro per tagliare l’IVA sul pellet e 350 milioni di euro per abolire l’IMU sui terreni agricoli», per concludere, perentoriamente, che «per quanto mi riguarda questa gente deve essere incriminata per alto tradimento!». Né era stato da meno (salvo che sul numero dei miliardi di spesa) il futuro capo politico del Movimento e vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio che, commentando la conferma da parte della ministra Pinotti «dell’acquisto di 90 caccia bombardieri F-35, facendoci spendere oltre 14 miliardi di euro delle nostre tasse» aveva rincarato la dose affermando che «la priorità del Governo Renzi sono le spese militari, non i bambini che muoiono per mancanza di posti letto nella sanità, a cui ha tagliato a dicembre oltre 3 miliardi di euro. Scelte criminali».

Lecito attendersi, con l’insediamento del nuovo Governo, decisioni coerenti con tali prese di posizione. Ma – almeno finora – non è andata così. Il 26 giugno scorso, la neo-ministra della difesa, Elisabetta Trenta, ha spiegato i progetti governativi sul punto alla testata americana Defense News, notoriamente molto letta e considerata al Pentagono. Nell’intervista, dopo la rassicurazione che «gli Stati Uniti sono il nostro storico alleato» e che «non ne abbiamo mai dubitato» (a conferma di un sistema di rapporti intoccabile, su cui v. in questo sito D. Gallo, I “doveri atlantici” del nuovo Governo) la ministra ha chiarito in modo esplicito che, per quanto riguarda il programma F-35, l’Italia non modificherà le scelte dei precedenti governi e, in particolare, non taglierà gli ordini per il raggiungimento dei 90 caccia preventivati, anche se potrebbe allungare i tempi dell’acquisto. «Quello che mi piacerebbe fare – ha detto Trenta – è alleggerire il carico poiché abbiamo altri impegni di spesa in Europa. Cercheremo di allungare le consegne anziché tagliare l’ordine, cosa che ridurrebbe le compensazioni e comporterebbe sanzioni». Si tratta, ha continuato la ministra, di «un programma che abbiamo ereditato» e che confermiamo «considerando i vantaggi industriali e tecnologici per l’interesse nazionale». Dopo qualche (pur limitata) reazione critica la ministra ha provato a rettificare il tiro – operazione sempre più frequente nella nostra politica – senza peraltro riuscirvi e, anzi, finendo per confermare la posizione espressa a Defense News. Il 6 luglio, infatti, in un intervento a Omnibus su La7, la Trenta ha solennemente affermato che «non compreremo altri F35, stiamo valutando se mantenere o tagliare i contratti in essere. Potrei scoprire dalle analisi in corso che tagliare mi costa di più che mantenere, ma le garantisco che noi non ne compreremo più di questi velivoli, anche se occorre sapere che tagliare significherebbe, allo stato dei fatti, avere delle forti penali. La nostra politica di difesa, a questo punto, ci impone un atteggiamento di valutare bene il costo che prevede sia l’ipotesi di mantenere che quella di tagliare il programma. E questo per decidere al meglio». Decodificando (e a parte la consueta evocazione di penali, in realtà inesistenti) l’unico impegno della ministra è quello – bontà sua – di non andar oltre i 90 F35 definiti dai precedenti governi. Per il resto si vedrà…

La scelta è ancor più grave e preoccupante se si considera l’orientamento della neoministra (e, dunque, del Governo) con riferimento alla partecipazione italiana a operazioni belliche internazionali e, in particolare, a quella in Afghanistan. Anche qui conviene partire dai fatti. Per tale missione militare, iniziata nel novembre 2001, il costo ufficiale della partecipazione italiana è stato fino ad ora di 6,3 miliardi di euro, vale a dire oltre un milione di euro al giorno in media. A questo costo va aggiunto l’esborso di 360 milioni a sostegno delle forze armate afgane (120 milioni l’anno a partire dal 2015) e di circa 900 milioni di spese aggiuntive relative al trasporto truppe, mezzi e materiali da e per l’Italia, alla costruzione di basi e altre infrastrutture militari in teatro, al supporto operativo di altre forze armate e della protezione attiva e passiva delle basi, al supporto sanitario del personale della Croce Rossa Italiana, alla protezione delle sedi diplomatiche nazionali e alle attività umanitarie militari strumentali. Si arriva così a oltre 7,5 miliardi (a fronte di 260 milioni investiti in iniziative di cooperazione civile): una spesa insostenibile, anche a non considerare le (ancor più rilevanti) questioni di principio. Per questo la missione era stata duramente contestata da molti, tra cui il Movimento 5 Stelle, e lo stesso Governo Gentiloni aveva annunciato un progressivo ritiro italiano e l’immediata riduzione (seppur minima) del nostro contingente da 900 a 700 unità. Giustamente insoddisfatto di tale cautela l’on. Di Maio, in sede di presentazione delle linee di politica estera del Movimento, nel febbraio 2018, era stato esplicito: «pensiamo che il contingente italiano non debba più restare in Afghanistan […] perché la missione a Kabul sta esponendo i nostri soldati a inutili rischi» (sottolineando contestualmente la necessità di «rivedere» anche la nuova missione italiana in Niger, «approvata in una fase debole del nostro Governo», che sembra essere nulla più di «una missione di supporto ai francesi»).

Orbene, anche in questo caso, nell’intervista a Defense News, la ministra Trenta si è preoccupata di rassicurare l’alleato americano sottolineando che si procederà alla riduzione del nostro contingente solo se e quando si troverà chi potrà rimpiazzarci sul campo. «Vogliamo iniziare un cambio di passo – ha detto la ministra – mantenendo allo stesso tempo operativa la missione. Non vogliamo indebolire la missione, quindi cercheremo altri partner per assumere compiti come la logistica». Dichiarazioni chiosate dall’intervistatore con la nota che ciò era già stato chiarito nel corso di un incontro con il consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, John Bolton (nel corso del quale la neoministra aveva anche chiesto aiuto per lanciare una missione militare italiana pianificata in Niger: sic!).

In attesa del seguito c’è poco da stare allegri, sia sul piano dei princìpi (ricordando che, nell’art. 11 della Costituzione «l’Italia ripudia la guerra») che su quello delle spese…

Gli autori

Livio Pepino

Livio Pepino, già magistrato e presidente di Magistratura democratica, dirige attualmente le Edizioni Gruppo Abele. Da tempo studia e cerca di sperimentare, pratiche di democrazia dal basso e in difesa dell’ambiente e della società dai guasti delle grandi opere. Ha scritto, tra l’altro, "Forti con i deboli" (Rizzoli, 2012), "Non solo un treno. La democrazia alla prova della Val Susa" (con Marco Revelli, Edizioni Gruppo Abele, 2012), "Prove di paura. Barbari, marginali, ribelli" (Edizioni Gruppo Abele, 2015) e "Il potere e la ribelle. Creonte o Antigone? Un dialogo" (con Nello Rossi, Edizioni Gruppo Abele, 2019).

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