Navi senza porto, frontiere, democrazia

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Fotografia di Luigi Ottani

La nave Aquarius costretta a navigare nel mare in tempesta è la tragica icona delle politiche di chiusura ed esternalizzazione delle frontiere, ma non è un episodio isolato, né un’anomalia nazionale. I respingimenti francesi a Ventimiglia e Briançon, l’accordo con la Turchia, le barriere di Ceuta e Melilla, il muro ungherese: possono mutare i toni e i modi, ma le posizioni di Salvini non si discostano né dal precedente piano Minniti, né dalle strategie europee. Il binario in tema di immigrazione è tracciato da tempo e ruota attorno al controllo dei confini.

L’obiettivo viene perseguito attraverso due percorsi convergenti: il rimpatrio dei cosiddetti migranti economici (con tutta l’ipocrisia della distinzione fra migrante economico e rifugiato) e l’esternalizzazione delle frontiere. In entrambe le ipotesi sempre più essenziale diviene la cooperazione con gli Stati di origine o di transito dei migranti attraverso la stipulazione di accordi di riammissione e di accordi che delocalizzano le procedure di identificazione e fermo dei migranti; accordi invero sempre più spesso informali, ovvero soft, perfetti per eludere eventuali controlli, politici e giudiziari. Basti richiamare il Global Approach to Migration and Mobility del 2005, o l’Agenda europea sulla migrazione, adottata dalla Commissione europea il 13 maggio 2015; e sulla stessa linea si pongono due atti adottati nel marzo 2017, sempre dalla Commissione europea, dai titoli evocativi: Per una politica dei rimpatri più efficace nell’Unione europea – Un piano d’azione rinnovato e Raccomandazione per rendere i rimpatri più efficaci nell’attuazione della direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio.

Gestire l’immigrazione, alias rimpatriare ed esternalizzare le frontiere, richiede che si rafforzi la cooperazione con i paesi d’origine, come emerge dalla Dichiarazione congiunta adottata al vertice di Parigi del settembre 2017, nel solco del Processo di Khartoum del 2014 e del vertice de La Valletta del 2015, in un contesto connotato da un’alta informalità, che coniuga cooperazione allo sviluppo e controllo dei flussi migratori.

Lo spostamento dei confini è progressivo: dapprima, con l’hotspot approach, si sponsorizza la creazione di luoghi di fermo e identificazione alle frontiere dell’Europa; quindi si delegano Paesi come la Libia o la Turchia; infine, si crea una nuova frontiera ancora più a Sud (è «importante rafforzare le capacità di controllo delle frontiere al sud della Libia», si legge nella dichiarazione congiunta del vertice di Parigi): dunque, hot spots in Ciad, Niger, Sudan, nella totale irrilevanza che il Paese in questione possa essere (e sia) un Paese autoritario.

Fotografia di Luigi Ottani

Si consolida il legame fra cooperazione economica e collaborazione nella gestione dei flussi migratori: la cooperazione allo sviluppo diviene merce di scambio per ottenere il controllo delle frontiere (e ciò a tacere dei vantaggi che essa arreca anche ai Paesi che governano gli aiuti economici e senza scordare come essa, comunque, non compensa l’estrazione di ricchezza dai Paesi destinatari degli aiuti). Il (neo)colonialismo assume una declinazione nuova, dai contorni paradossali: i Paesi europei – alcuni di essi – non di rado hanno contribuito, per usare un eufemismo, alla devastazione in termini di povertà e guerre che attraversano il continente africano e ora chiedono che siano gli Stati di quello stesso continente ad affrontare gli esodi che ciò comporta, esponendo le vittime di disastri economici e ambientali e di conflitti armati ad una ulteriore violazione dei loro diritti.

Del resto, i diritti sono i grandi assenti nella gestione dell’immigrazione. O fanno capolino come mere formule di stile: diritto alla vita, dignità umana, divieto di tortura, diritto di asilo, principio di non-refoulement divengono vuote affermazioni retoriche. Resta inascoltata la voce della Corte europea dei diritti dell’uomo, che da tempo ricorda come i diritti sono sanciti non come «theoretical or illusory but rights that are practical and effective». Esternalizzare le frontiere in Libia, così come in Sudan o in Niger, se si vuole ragionare su un piano di realtà e di effettività nella tutela dei diritti, significa sostituire per alcuni la morte in mare con quella nel deserto e per altri prevedere la condanna – senza nemmeno più la speranza di un fine pena – a una vita di violenze e privazioni, una vita senza futuro. I confini sono presidiati contro i diritti, alla vita, all’asilo, alla salute, all’istruzione, al libero sviluppo della persona: i diritti universali non sono allora che privilegi per pochi, un ossimoro che ne nega l’esistenza.

Il controllo delle frontiere, così come è gestito, causa gross violations, che costituiscono crimini contro l’umanità, tracimando in un vero e proprio genocidio, laddove si raffigurino i migranti, per condizioni oggettive e soggettive, come un popolo. Di crimini contro l’umanità – contemplati nell’art. 7 dello Statuto della Corte penale internazionale, adottato a Roma il 17 luglio 1998 – sono responsabili i soggetti che direttamente li commettono (come i governi di Stati autoritari), ma non sono esenti da responsabilità i governi degli Stati europei o gli esecutivi dell’UE, che, nel compiere determinate scelte politiche, non possono non raffigurarsi lo scenario che ne consegue. Come ha affermato la Corte europea dei diritti dell’uomo in relazione alla situazione libica, «le autorità italiane sapevano o dovevano sapere» (sent. Hirsi Jamaa e altri v. Italia, 23 febbraio 2012).

La domanda successiva è: Stati responsabili di crimini contro l’umanità, nonché – per inciso – della violazione di numerose norme delle loro Costituzioni, possono ancora definirsi democratici?

A minacciare la democrazia non sono i migranti ma l’atteggiamento dei governi di fronte alle persone, alla loro dignità, ai loro diritti. Così come a minare la democrazia è l’utilizzo dei migranti in chiave di “emergenza” e di “minaccia” per legittimare l’adozione di politiche restrittive delle libertà e/o per convogliare il malessere sociale verso un nemico, con il “vantaggio” di trasformare un potenziale conflitto sociale legato alle crescenti diseguaglianze economiche nella classica “guerra fra poveri” e di dotarsi di strumenti utili a reprimere il dissenso.

Fra le vittime degli effetti collaterali della scelta di blindare ed esternalizzare le frontiere, vi sono, dunque, il popolo migrante, l’esistenza di diritti universali e la democrazia. L’esternalizzazione delle frontiere, con il suo do ut des che assegna un prezzo ai diritti e alle persone, si inserisce in modo coerente in un paradigma postdemocratico, nella tensione al profitto della global economic governance: una struttura spesso impalpabile ma che stritola con una morbidezza da boa constrictor democrazie, diritti, persone.

Le fotografie sono tratte dal Reportage dal confine greco-macedone di Luigi Ottani e Roberta Biagiarelli

Gli autori

Alessandra Algostino

Alessandra Algostino è docente di Diritto costituzionale presso l’Università di Torino. Fra i suoi temi di ricerca: diritti, migranti, lavoro, democrazia, partecipazione e movimenti, rapporto fra diritto ed economia, pace. Fra i suoi libri e saggi: "L’ambigua universalità dei diritti. Diritti occidentali o diritti della persona umana?", Napoli, 2005; Democrazia, rappresentanza, partecipazione. Il caso del movimento No Tav, Napoli, 2011; "Diritto proteiforme e conflitto sul diritto", Torino, 2018; "La partecipazione dal basso: movimenti sociali e conflitto", in Quaderni di Teoria Sociale, n. 1/2021; "Genere ed emancipazione fra intersezionalità e dominio: una riflessione nella prospettiva del costituzionalismo", in Uguaglianza o differenza di genere? Prospettive a confronto, Napoli, 2022; "Pacifismo e movimenti fra militarizzazione della democrazia e Costituzione", in Il costituzionalismo democratico moderno può sopravvivere alla guerra?, Napoli, 2022.

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