A volte i più lucidi sono i comici. Non penso a Beppe Grillo, da tempo precipitato nel cinismo e nel fiato corto dei politici di professione. Ma al mitico Antonio Albanese, inventore di Cetto La Qualunque (il politico sbracatamente corrotto, così vicino ai modelli reali emergenti da processi e intercettazioni) e, poi, del “ministro della paura”, il difensore del popolo che «aiuta il mondo a mantenere l’ordine» ben sapendo che «una società senza paura è come una casa senza fondamenta». All’inizio del millennio, quando l’inquietante maschera comparve a teatro e sugli schermi televisivi, pochi pensavano che essa anticipasse, in modo pressoché letterale, l’attuale ministro dell’interno e vicepresidente del Consiglio. Eppure è accaduto. Non è un accidente ma un fatto politico, e prima ancora culturale, di cui non ci libereremo presto e che va preso molto sul serio. Per le ragioni che ha spiegato anni fa, in epoca non sospetta, Luciano Gallino nello splendido scritto “Come si diventa nazisti senza accorgersene”. Certo, le cose non si ripetono mai nello stesso modo ma la paura (strumentalmente cavalcata) continua a generare mostri e a produrre politiche autoritarie.
Salvini non nasce come un fungo dal naufragio di Bossi, dal voto del 4 marzo e dallo sciagurato accordo tra Lega e Movimento 5Stelle. Bisogna tornare indietro di qualche anno, quando molti guardavano con superiorità al folklore delle feste padane e al prelievo delle ampolle d’acqua alle fonti del Po. Era l’agosto 1998 e Salvini era consigliere comunale a Milano quando apparve sui muri della città un manifesto della Lega nel quale campeggiava la scritta «Fermiamoli!!! Arrivano a milioni» seguita da rappresentazioni grottesche di migranti affiancate dalle scritte «vu’ ciula’», «vu’ stupra’», «vu’ lava’», «vu’ cumpra’», «vu’ sballa’» e dall’invito a firmare per un referendum che «li rispedisca a casa», all’insegna dello slogan «Fuori dalle palle» (il manifesto è riprodotto in A. Dal Lago, Non-persone. L’espulsione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, 1999, p. 47). Sono tuttora le idee e le parole dell’attuale ministro dell’interno (uomo forte di un Governo formalmente guidato da un professore ventriloquo). Matteo Salvini non è cambiato. È rimasto lo stesso. È il Paese che è cambiato.
Se si vuole reagire occorre capire come e perché.
Salvini è, anzitutto, un predicatore d’odio. Non un alieno in felpa e camicia verde (sebbene di apparenti alieni in camicie di diverso colore sia piena la storia del Novecento). È l’interprete italiano di un vento di destra che, con diverse modalità e in modo non uniforme, attraversa l’Europa e gli Stati Uniti. Un vento provocato dalla sempre più marcata ed esibita sottrazione ai cittadini della possibilità di decidere della propria vita e del proprio futuro, rimessi alle scelte dei cosiddetti poteri forti (economici e sovranazionali). Fino a che il sistema funziona, questa cessione coatta di sovranità e di diritti viene più o meno accettata. Ma quando la crisi morde, dimostrando che quei poteri, oltre ad essere rapaci, non assicurano un minimo di equità sociale, allora emergono le pulsioni tipiche della destra profonda: i nazionalismi, le chiusure identitarie, il razzismo. Che, a loro volta, producono capri espiatori e nemici (interni ed esterni) contro cui indirizzare la rabbia sociale, distogliendola dai veri responsabili. È ciò che sta accadendo nel Paese e a cui dà voce Salvini, fedele incarnazione del “ministro della paura”. Superfluo aggiungere che l’importante non è la verità delle situazioni evocate, ma la loro capacità di creare paura. Anche perché i nemici immaginari sono meglio di quelli reali (che potrebbero anche reagire…).
Ma a spiegare la situazione italiana e il successo di Salvini non c’è solo questo.
Salvini è tra i nostri politici, per calcolo o per istinto, il più abile nell’uso del sistema della comunicazione. I suoi temi sono, da sempre, gli stessi. Ripetuti in modo ossessivo e con un linguaggio truculento ma diretto: quello, appunto, che la parte insoddisfatta del Paese vuole sentire. Per questo i suoi discorsi, amplificati da media in cerca di audience, fanno presa. A differenza di quelli dell’altro Matteo, pur non sprovveduto nell’arte della comunicazione, che ha creduto di mobilitare il Paese con il miraggio del cambiamento della Costituzione (sic!).
Ancora. Salvini è, tra i nostri politici, il più spregiudicato. Il suo frasario di predicatore d’odio è fatto di certezze, dispensate senza mezze misure: gli zingari rubano e rapiscono bambini, gli islamici sono potenziali terroristi, i migranti arrivano a milioni, i clandestini spacciano e «pisciano sui vagoni della metropolitana», i romeni stuprano, i poveri non hanno voglia di lavorare, i barconi scaricano nullafacenti che vivono alle nostre spalle e che ingrassano associazioni umanitarie e cooperative, le navi delle ONG non salvano vite umane ma sono complici dei trafficanti e via elencando. Salvini sa bene che queste affermazioni sono false (in gran parte se non in toto). Ma sa che non è questo il punto. Perché, per alimentare la paura, i problemi non vanno risolti ma cavalcati, trasformando i fenomeni da governare in male da rimuovere.
Di più. Salvini ha colto, per primo nel suo schieramento, il fatto che, nel nostro Paese, la sinistra non esiste. E, invece di evocarla a mo’ di spauracchio (come fa il suo alleato/avversario Berlusconi), ne ha recepito alcune parole d’ordine classiche (oggi abbandonate), distorcendole ai propri fini, nella tradizione della destra sociale. Così i suoi riferimenti – reali o strumentali – sono (anche) gli ultimi, le periferie, i senza lavoro, i sotto occupati, i senza diritti (le vittime della Fornero e del Jobs act…) e via seguitando.
I fenomeni oggettivi e le connesse forzature soggettive hanno prodotto, insieme, un nuovo blocco sociale e una sorta di mutazione antropologica nel Paese. Il consenso di cui gode Salvini (più ampio di quanto esprima il già rilevante successo elettorale) si estende ben oltre i confini della destra tradizionale. I suoi discorsi, un tempo relegati tra le “chiacchiere da bar”, sono ormai penetrati nella testa della gente: degli operai, degli insegnanti, del ceto medio impoverito, dei giovani senza futuro, di pezzi della classe dirigente (a cominciare dai magistrati, come dimostrano le anomale campagne contro le ONG della Procura di Catania e non solo).
È un esito reversibile. Ma non facilmente. E solo con risposte all’altezza della situazione. Non basta restare in superficie, trattando Salvini come un alieno, senza scavare nelle ragioni del suo successo. E non basterà neppure l’emergere, nel suo entourage, di episodi di corruzione e malgoverno che pure si stanno delineando. Occorre cambiare registro con iniziative appropriate. Ne indico alcune, nella speranza che si apra, sul punto un dibattito.
- Occorre riappropriarsi delle “parole d’ordine” di quella che un tempo era la sinistra: la tutela reale degli interessi dei più deboli, un lavoro per tutti (magari lavorando meno), il reddito di dignità, la messa in sicurezza del territorio, la critica radicale del dominio dei mercati, l’internazionalismo (ché solo nuove alleanze sovranazionali potranno cambiare l’Europa) eccetera. Accompagnando le parole d’ordine con buone pratiche nei luoghi di maggior sofferenza sociale (come, a volte, sta facendo la destra).
- Occorrono modalità di comunicazione e linguaggi non elitari, affidati a un personale politico estraneo agli errori del passato.
- E occorre smettere di legittimare, nei fatti, Salvini e i suoi alleati. Ai predicatori d’odio non si risponde discutendone civilmente le argomentazioni. Si risponde chiamando il razzismo con il suo nome, opponendovi un rifiuto frontale, evitando esplicitamente confronti che servono solo a sancirne la legittimazione (memori della lezione del primo Grillo e del Nanni Moretti di Ecce bombo, quello che «mi si nota di più se vengo o se non vengo per niente?»…).
Caro Livio, sono del tutto d’accordo con la tua analisi del ‘fenomeno’ o meglio del ‘mostro’ Salvini. Vorrei soltanto enfatizzare un aspetto del quadro che hai tracciato in particolare con riferimento al ‘capro espiatorio’, il ruolo che oggi i Rom, i Sinti, i c,d. clandestini svolgono (a cui si aggiungeranno probabilmente quote progressive di esclusi). Essi sono i ‘buoni nemici’, come li chiamò a suo tempo il sociologo norvegese Nils Christie. Buoni per svariate ragioni: per cominciare, perché la loro persecuzione è, per così dire, a costo zero; in secondo luogo, perché sono senza potere; infine perché non possono contare su forze sociali che siano disposte o capaci di difenderli. Ed è proprio su quest’ultimo punto che noi dobbiamo reagire ed agire. Non perdere mai alcuna occasione per affermare che anche noi, i senza potere, qualche potere pur ce l’abbiamo.