Tra la pandemia e la guerra: i rischi dell’economia italiana

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È molto difficile azzardare previsioni su cosa succederà all’economia italiana. Ci sono troppe variabili esogene (sulle quali cioè gli operatori economici italiani, compreso il Governo, non hanno controllo) che possono influire su di essa. Se scoppierà una guerra atomica, ipotesi che mi pare siano in molti ad escludere con troppa disinvoltura, è possibile che non si potrà più parlare né di Italia né di economia. Ma anche solo se la guerra durerà a lungo il sistema dei mercati mondiali, finanziari e non, risulterà sconvolto; e se anche la guerra finirà presto gli esiti saranno molto diversi a seconda se le sanzioni resteranno in vigore, e quali, di come sarà aumentata la spesa militare, di come verrà ridistribuito il potere in Italia fra Usa, Ue, oligarchi italiani e Governo nazionale, e così via. Mi permetto di ricordare che alla fine di una guerra di una certa rilevanza e di una certa durata la situazione che si viene a creare è di solito non solo imprevista ma imprevedibile all’inizio della medesima, almeno in epoca moderna. Questo è certamente vero per le due guerre mondiali, ma anche per l’Iraq uscito dalla guerra contro l’Iran e per la guerra civile della ex-Yugoslavia, e si potrebbero fare altri esempi. Ciò che invece si può vedere sono il passato e il presente, anche se spesso i media preferiscono non vederli. Nel breve periodo intercorso fra la (presunta) fine dell’emergenza da Covid e l’inizio della guerra, la versione ufficiale (per intenderci: del Governo e del gruppo Gedi) era che si era (quasi) tornati alla situazione pre-pandemia e quindi che l’Italia avrebbe ripreso il suo normale sviluppo. Ma la situazione pre-covid non era normale, e lo sviluppo molto carente se non assente.

Cominciamo dalla situazione. L’Italia è l’unico paese fra i 35 membri dell’Ocse (grosso modo i 35 paesi più sviluppati) il cui salario medio in termini reali sia diminuito fra il 1990 e il 2020, come riferito dall’ultimo rapporto Censis. Fatto 100 il valore del 1990, nel 2020 in Italia avevamo 97,1, in Francia 131,1, in Germania 133,7. È anche l’unico paese dell’Unione Europea, tranne la Grecia, il cui Pil sia ancora inferiore al valore del 2008. Abbiamo (forse e quasi) recuperato la perdita dovuta al Covid, ma non quella dovuta alla crisi del 2008 e alle dissennate politiche successive. Il tasso di occupazione (le persone occupate in percentuale sulla popolazione in età lavorativa) nel 2019 era il 63,5%, il più basso dell’intera Unione Europea la cui media era il 72,7%. In Italia gli addetti alla pubblica amministrazione in senso stretto nel 2019 erano 1.278.000, contro i 2.120.000 del Regno Unito e i 2.448.000 della Francia, paesi che hanno solo il 10% circa di abitanti in più, il che è alla base della notoria inefficienza della amministrazione italiana. (Uso i dati del 2019, onde non considerare i cambiamenti eccezionali e auspicabilmente transitori dovuti all’epidemia). E si potrebbero citare molti altri indicatori a suffragio delle tre conclusioni che seguono, e cioè:

  1. L’Italia sta allontanandosi dall’Europa sviluppata. Nel 1995 il Pil pro capite a parità di potere d’acquisto (tenendo cioè conto dei prezzi interni dei vari paesi) era superiore a quelli del Regno Unito (+10,7%) e della Francia (+6.1%), e prossimo a quello della Germania (-5,6%); nel 2019 era inferiore a quelli della Francia (-10,8%) e del Regno Unito (-8,3%) e lontanissimo da quello della Germania (-22,1%). Si tratta di differenze talmente alte da avere ormai un effetto qualitativo: in termini molto semplici, gli italiani un quarto di secolo fa stavano grosso modo “bene come gli altri o meglio”; adesso sono sensibilmente più indietro, e soprattutto, come vedremo, si prevede ufficialmente che questa differenza aumenterà.
  2. Anche prima del Covid, e quindi a fortiori dopo di esso (sperando di essere davvero dopo) e dopo la fine della guerra (sperando che il dopo arrivi presto) l’Italia aveva e avrà bisogno di specifiche politiche di sviluppo, come tipico delle regioni arretrate di uno Stato sviluppato (e questa assimilazione a una regione di uno Stato più vasto è in buona parte un paragone, ma in buona parte anche una realtà).
  3. Come sappiamo, fino allo scoppio dell’epidemia i paesi e poteri forti europei erano assolutamente contrati a politiche siffatte, in ciò aiutati dai collaborazionisti italiani (anche questo termine è un po’ più di una semplice etichetta): ve la ricordate la cagnara sul Mes (Meccanismo europeo di stabilità)?

Questa è la situazione di partenza; e il Pnrr, che pure andrà ridimensionato, non la avrebbe mutata di molto. Abbiamo già visto che il ritorno alla situazione preCovid sarebbe stato un traguardo molto limitato. Ma anche gli obbiettivi del Pnrr lo sono (o lo erano). Alla fine del 2021 la Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza, che teneva conto del Pnrr ma non ancora ovviamente della guerra, prevedeva che il Pil sarebbe cresciuto complessivamente, in termini reali, del 5,2% fra il 2019 e il 2024, quindi superando solo dell’1,2% il valore del 2007, il massimo storico, e facendo ulteriormente aumentare il divario con le economie più forti, dato che la crescita media dell’area euro era prevista al 7,05% (e quindi intorno al 7,5% se si esclude l’Italia). È facile prevedere che la guerra renderà questa situazione ancora peggiore, anche se è molto difficile fare previsioni precise; ma si può fare un certo affidamento sul fatto che questo peggioramento implicherà almeno una crescita sensibilmente minore del Pil e un livello significativo di inflazione. La spinta all’inflazione viene dai costi, e questo significa, come l’esperienza ci insegna, che il tentativo di rallentarla riducendo la domanda porterebbe quasi sicuramente alla stagflazione, cioè alla compresenza di inflazione e ristagno (in effetti gli ultimi dati, e le ultime scelte del Governo, suggeriscono che una seria stagflazione è molto probabile anche in assenza di politiche antinflazionistiche). Tutto ciò in assenza di opportune politiche emergenziali. Che dovrebbero essere le stesse che si dovevano fare prima del Covid, e che l’Europa allora osteggiava: rilancio del settore pubblico, protezione sociale universale, alleggerimento dell’onere del debito. Ci sono segnali che indicano che l’Europa sembra essere orientata a rivedere le politiche estremiste in auge fino al 2019; ma questi segnali indicano più una estrema confusione che un cambiamento di rotta. E lo scandalo dell’aumento delle spese militari indica chiaramente che le priorità dell’Unione non sono quelle che dovrebbero essere.

Possiamo allora azzardarci a suggerire i tre scenari che seguono, molto generici; con l’avvertenza che nessuna previsione è possibile se la guerra dovesse continuare a lungo. In effetti lo stato del mondo nel 1918 e nel 1945 non solo era imprevedibile nel 1914 e nel 1939: non era nemmeno concepibile. In primo luogo è possibile che l’Europa tenti di ritornare alle politiche pre-Covid come scritte nel bronzo del Patto di Stabilità. In tal caso l’Italia si troverà molto probabilmente di fronte a una scelta tragica: rompere con l’Europa o avviarsi su un sentiero di declino paragonabile a quello percorso dalla Grecia. In secondo luogo è possibile che l’Europa decida di non decidere, adottando un patto di stabilità attenuato e opportuni accordi sottobanco. Infine, è possibile che l’Europa adotti la politica giusta: neutralizzazione del debito tramite la Bce e interventi di solidarietà.

Personalmente ritengo il terzo scenario estremamente improbabile, e il secondo il più plausibile; ma le conseguenze potranno essere molto gravi anche a seguito di esso. Infatti la riduzione degli acquisti di titoli da parte della Bce, inevitabile in questo scenario, porterebbe per ciò stesso l’economia italiana in una situazione insostenibile, e quindi nuovamente alla scelta tragica di cui sopra. Cosa verrà deciso (ripeto, sempre che la guerra non cambi del tutto i dati su cui devono basarsi le decisioni e le previsioni) dipenderà in ultima analisi dagli equilibri politici interni, soprattutto dei paesi cosiddetti frugali. In presenza di difficoltà, e di fronte al dato oggettivo di un’Europa che cresce mentre l’Italia non è capace, è prevedibile che l’idea di aiutare l’Italia (e la Grecia, e la Spagna) diventi ancora più impopolare in questi paesi, e quindi che politiche di austerità diventino al contrario sempre più popolari. Queste politiche hanno avuto, hanno e nel caso avranno il favore di molti collaborazionisti nel nostro paese: sono in molti a preferire che lo Stato funzioni male e che il lavoro costi il meno possibile e sia il meno protetto possibile (in Italia nel 2017, ultimo dato comparabile, ci sono stati 484 incidenti fatali sul lavoro, contro i 340 della Germania e i 280 del Regno Unito, paesi in cui il numero di lavoratori è molto più elevato; ed è di pochi giorni fa lo sciopero degli ispettori del lavoro). Prepariamoci a una stagione, o più, di difficoltà economiche e anche politiche; in cui ancora una volta una sinistra incapace, ammesso che si possa parlare ancora di una presenza significativa della sinistra nel nostro paese, spianerà probabilmente la strada alla destra. L’isteria bellicista di Letta (che è una cosa diversa dalla solidarietà con l’Ucraina) è un pessimo segnale.

L’articolo è già apparso su Italia Libera on-line, che si ringrazia per aver consentito di ripubblicarlo

Gli autori

Guido Ortona

Guido Ortona, economista, è stato professore di Politica economica presso l’Università del Piemonte orientale. Le sue ricerche hanno riguardato soprattutto le economie di tipo sovietico, l’economia del lavoro e l’economia comportamentale. Tra i suoi libri, da ultimo, I buoni del tesoro contro i cattivi del tesoro (Robin, 2016)

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