L’euforia politica non riesce a nascondere la realtà

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In questi ultimi giorni il mondo economico – e parzialmente e di riflesso quello politico – sembrano attraversati da una grande euforia basata sui nuovi dati relativi all’andamento dell’economia e persino dell’occupazione. Come al solito a spararla più grossa è il ministro Renato Brunetta, uomo piuttosto incline all’enfasi, sia in positivo che in negativo, a seconda della sua collocazione rispetto al Governo. Secondo il ministro per la Pubblica amministrazione «L’Italia sta vivendo una vera e propria fase di boom economico. Bisogna rivedere le stime verso il 6%». Il tutto basato sulle confortanti cifre fornite dal Bollettino economico di Bankitalia del 16 luglio relative all’ultimo trimestre. L’Istat era stata più prudente, stimando possibile una crescita del 4,8% per l’anno in corso.

Tutto bene quindi? Non proprio. Intanto bisogna ricordare che i dati del secondo trimestre di quest’anno che fanno gridare al miracolo, vengono confrontati con quelli del relativo trimestre del 2020, il peggiore degli ultimi 70 anni, quando perdemmo il 18,2% del Pil. L’effetto rimbalzo indubbiamente c’è ed è sensibile, ma non si può scordare che siamo ancora al 3,8% al di sotto dei livelli prepandemici, quando già non ce la passavamo benissimo. Ma al Sole24Ore non pare vero di potere sfoderare titoli di prima pagina che inneggiano al boom e al superamento della Germania da parte del nostro paese nella corsa del Pil. La stima diffusa da Eurostat vede indubbiamente una crescita nel secondo trimestre sia per l’Eurozona che per la Ue, ma sottolinea anche che – a differenza di quanto accade negli Usa e in Cina – nel nostro continente il Pil è ancora del 3,4% inferiore a quello della fine del 2019.

Tuttavia viene fatto notare che i paesi mediterranei – riferendosi a Italia, Spagna e Francia – si sono comportati meglio della Germania: il che è vero, stando alle cifre riportate. Va tenuto conto che è in linea con le non infondate attese per un rimbalzo più consistente laddove si stava peggio. Se però si guarda all’interno dei singoli paesi la situazione è alquanto diversificata. Per quanto riguarda il nostro paese ce lo certifica la Svimez, la quale afferma che in base alle previsioni possibili, nel biennio 2021-2022 il contributo del PNRR alla ripartenza del Sud d’Italia non sarà sufficiente ad accorciare le distanze con il resto del paese. Se il recupero nel Centro-Nord nel 2021 può raggiungere il 5,1% in più, al Sud non si dovrebbe andare al di là di un +3,3%. Si è detto che al Sud andranno il 40% delle risorse previste dal PNRR. Il Piano finanzia con 182 miliardi nuovi progetti e con 53 miliardi vecchi progetti, ma, secondo la Svimez «non è nota la ripartizione territoriale delle due voci», quindi non è affatto improbabile un ulteriore ridimensionamento della quota di risorse spendibili per il Mezzogiorno. La ministra Mara Carfagna vorrebbe smentire «i professionisti della polemica», ma persino secondo voci provenienti dalla Confindustria – come quelle del vicepresidente Vito Grassi – Nord e Sud rischiano di allontanarsi ulteriormente se non ci sarà una correzione del Piano e una sua illuminata applicazione nel Sud. Ma se si continua a parlare del Ponte sullo stretto di Messina tali condizioni appaiono del tutto improbabili.

L’euforia dei sostenitori del Governo si spinge anche, con maggiore temerarietà, a magnificare le cifre sull’occupazione. Si parla di 166mila occupati in più, che porterebbero a 400mila i nuovi posti dal febbraio scorso. Anche qui i facili ottimismi si rivelano quanto mai fasulli. In primo luogo perché – lo dice anche la Cisl – tutti i dati si riferiscono a prima dello sblocco dei licenziamenti, i cui guasti sono sotto gli occhi di tutti e siamo appena all’inizio. In secondo luogo perché, mentre diminuiscono i lavoratori autonomi, cresce la schiera di quelli precari. Un rimbalzo a suon di precarietà quindi. Infine bisogna sapere leggere bene il dato che parla di una discesa dei disoccupati del 9,7%. Infatti il nuovo metodo di calcolo degli occupati adottato dall’Istat prevede che coloro che sono assenti dal lavoro da più di tre mesi per l’Intervento della Cassa integrazione non devono essere considerati come tali. Mentre ritornerebbero nella schiera degli occupati al termine della durata della CIG. Quindi si tratterà di valutare se l’aumento degli occupati recentemente registrato sia frutto di rientri di lavoratori messi in CIG oppure sia determinato da nuove assunzioni. In sostanza i dati sulla occupazione richiedono analisi ben più affinate di quelle lasciate alle dichiarazioni delle forze filogovernative e dei loro esponenti, alcuni dei quali accentuano i meriti del governo Draghi, altri mettono l’accento sull’azione del precedente Governo, il Conte II. Sbagliando entrambi.

Se infatti si paragona la situazione europea e italiana con quella statunitense risulta netta la differenza, dovuta alle diverse politiche seguite. Anche qui basta consultare i documenti ufficiali. Non molti giorni fa la Commissione europea ha reso noto un importante documento economico, da cui si possono trarre diverse considerazioni. Lo analizza molto bene Gustavo Piga, nella parte dedicata ai “commenti” del Sole24Ore del 30 luglio, che mette in luce come la posizione fiscale europea sia assai meno orientata alla crescita di quella statunitense. La divergenza è destinata ad aumentare dal momento che nei calcoli effettuati sono finora esclusi gli effetti sul piano economico e occupazionale che dovrebbero derivare dalla implementazione dell’American Jobs Plan e dell’American Families Act. Si tratta di piani cui sono legati ingenti cifre di denaro pubblico e fortemente osteggiati dai repubblicani che giocheranno tutte le loro forze per impedirne o ridurne l’attuazione. Peraltro non sono progetti miracolosi o tali da minare alle radici, assai profonde, il capitalismo americano. Infatti sono stati criticati dalla sinistra di Bernie Sanders sulla base di proposte in positivo che, se fossero state accolte in pieno, avrebbero potenziato il loro impatto sociale.

La Commissione europea, malgrado le valutazioni sulla crescita per l’anno in corso di cui abbiamo già detto, ritiene che l’Italia sarà il fanalino di coda dei paesi della Ue quanto alle condizioni economiche una volta usciti dalla pandemia. La ragione sta nel freno all’intervento pubblico e nella sua scarsa qualità. Non a caso il nostro Documento di economia e finanza prevede una riduzione di deficit pubblico su Pil pari a sei punti percentuali. Il che tradotto sia pure approssimativamente in cifre, significa una previsione di quasi 120 miliardi di maggiori entrate e/o minori spese. Non è un caso che la riforma fiscale sia stata rinviata nei tempi e che il documento uscito dalle commissioni parlamentari che dovrebbe servire di indirizzo al Governo al riguardo, non contiene alcuna patrimoniale e si preoccupa soltanto di intervenire sull’Irpef a favore dei cosiddetti ceti medi, per conquistarne il consenso, senza alcuna correzione, se non in negativo, del già compromesso principio costituzionale della progressività del sistema tributario (https://volerelaluna.it/economie/2021/07/08/il-fisco-alla-ricerca-di-una-riforma/).

Persino il World economic outlook di luglio sottolinea le intrinseche fragilità e soprattutto le diseguaglianze di questa ripresa su scala mondiale. La capoeconomista del Fmi Gita Gopinath sottolinea che la prima causa delle accentuate disparità nelle condizioni economiche sta nella diffusione dei vaccini. Ad oggi, nelle economie più forti «quasi il 40% della popolazione è stata completamente vaccinata, contro l’11% negli emergenti e una piccola frazione nei Paesi in via di sviluppo». Come all’interno dei singoli paesi, così tra le varie zone del mondo la pandemia ha approfondito i solchi. Di questo bisognerebbe occuparsi, cioè della lotta contro i brevetti e della diffusione gratuita dei vaccini all’umanità che ne è priva, anziché delle “baruffe chiozzotte” sui vari green pass.

Le nubi sono tutt’altro che diradate. Anzi. Per renderlo noto abbiamo qui usato fonti delle istituzioni ufficiali. Ci si potrebbe domandare quindi da dove deriva quell’insano ottimismo di esponenti politici, economici e dei mass media. Non è difficile trovare una risposta. Basta leggersi le ultime righe dell’editoriale politico del giornale della Confindustria del 31 luglio: «Mettere in difficoltà Draghi sarebbe un peccato mortale, sarebbe soffocare nella culla la nascente ripresa economica. Chiunque ne abbia la tentazione deve ricordarsi che il debito pubblico è di poco al di sotto del 160% del Pil. Un livello che, senza Draghi presidente del Consiglio, è insostenibile». Ovvero il Governo degli intoccabili, e il cerchio si chiude.

Gli autori

Alfonso Gianni

Alfonso Gianni, saggista e studioso di problemi economici, è stato parlamentare e sottosegretario allo Sviluppo economico nel secondo Governo Prodi. È attualmente condirettore della rivista trimestrale "Alternative per il socialismo".

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