Si discute molto su quanto la pandemia da Covid-19 stia evidenziando i punti deboli dell’attuale sistema di sviluppo. L’emergenza sanitaria lumeggia momenti di crisi già in essere e acuiti con la nuova situazione. Se ne contano diversi tra i quali spiccano: crisi economica; crisi sociale, dovuta a una sempre maggiore disuguaglianza e a una crescente diffusione della povertà; crisi politica, in quanto l’economico ha fatto sì che il politico venisse sminuito e, quando se ne rileva l’imprescindibilità, venga posto sul banco degli imputati per l’esplodere delle contraddizioni sociali; crisi istituzionale, dove per istituzioni intendiamo i centri decisionali e di elaborazione di momenti collettivi (tra cui la scienza, soprattutto quella medica, la cultura con i suoi centri di diffusione del sapere, scuola e università, la stampa che ha il compito di diffondere notizie e aprire uno squarcio tra i meandri del potere). Siamo di fronte a una crisi della classe dirigente nel suo complesso, che si porta appresso una più profonda crisi della liberaldemocrazia. Ne è un esempio l’attuale tensione sociale che, a causa della forzata interruzione di dinamiche socioeconomiche in diversi paesi in funzione anti-Covid, si sta traducendo in sommosse urbane.
Questa molteplicità di crisi è riconducibile a una stessa matrice che possiamo individuare nella deriva di un capitalismo finanziario sorretto dall’ideologia neoliberale.
In un momento in cui la politica è chiamata a prendere misure per fronteggiare la pandemia, emergono tutte le debolezze in capo a una categoria che ha visto negli ultimi decenni venir meno la propria credibilità. Oggi si assiste all’epilogo di un processo che, nell’arco di qualche decennio, ha eroso il perimetro di intervento della politica alla quale sono state opposte le virtù del libero mercato.
La pandemia non è la sola emergenza che ci si trova a dover fronteggiare per il futuro immediato. La questione ambientale e il cambiamento climatico (legati a doppio filo con il rischio di insorgenza di nuove pandemie) richiedono misure straordinarie che, per come il sistema è stato strutturato, difficilmente potranno essere adottate senza mettere in discussione lo stesso paradigma su cui si fonda. E il paradigma è quello del capitalismo che pervade ogni aspetto della realtà, politica, sociale o psichica e che ha cambiato in maniera profonda l’agire e il pensare individuali. Le attuali contraddizioni vengono principalmente imputate all’attuale fase del capitalismo finanziario. La tesi è parzialmente corretta nel senso che tale fase ha esasperato le contraddizioni insite nel capitalismo, erodendo le possibilità di intervento della politica e lasciando ampio spazio ai mercati. Ma alcune di quelle contraddizioni non le ha create dal nulla.
I primi trent’anni del secondo dopoguerra, quelli icasticamente chiamati i Trenta gloriosi, hanno rappresentato storicamente il miglior compromesso tra democrazia e capitalismo. In quella fase lo Stato ha disciplinato il capitale, garantendo un miglioramento delle classi lavoratrici sia attraverso un aumento dei redditi che attraverso i sistemi di welfare (salario sociale). In questo modo, i lavoratori sono stati integrati nel sistema capitalista e sono state depotenziate le spinte rivoluzionarie di quanti vedevano nell’Unione Sovietica un modello vincente alternativo a quello occidentale. Ma rimanevano alcune contraddizioni che quel modello non ha risolto, ben focalizzate dal famoso rapporto del Club di Roma su i limiti dello sviluppo. Da una parte un crescente inquinamento dell’ambiente a causa di un sistema di sviluppo basato sull’estrazione indiscriminata di risorse dal pianeta e una conseguente immissione di agenti inquinanti; dall’altra un altrettanto indiscriminato sfruttamento del Sud del mondo che ha permesso un aumento generalizzato del tenore di vita nei paesi occidentali. Già negli anni Cinquanta, quando l’offerta di beni cominciava ad essere eccessiva rispetto alla domanda ‒ come testimonia il lavoro pioneristico di Vance Packard (I persuasori occulti) ‒ si gettavano le basi per la creazione della società dei consumi che della crescita esponenziale di produzione e consumo di merci ha fatto una propria religione economica. Il consumismo diventava un vero e proprio stile di vita. Per alcuni aspetti, quindi, la società attuale presenta caratteri le cui basi sono ben ancorate nel modello del capitalismo che si accompagna allo Stato del welfare e le nostalgie per quel modello non sono affatto giustificate.
Poiché il compromesso keynesiano aveva il fine, non secondario, di costituire la stampella per un capitalismo claudicante in seguito al crollo del 1929, al presentarsi di determinate opportunità poteva essere sferrato l’attacco a quel modello per ridare al capitale una fetta maggiore della torta. Tale offensiva si è avuta a partire dagli anni Settanta; grazie al prodursi di alcune dinamiche è riuscito facile pensare al capitalismo socialdemocratico come fase transitoria che, sebbene avesse svolto bene il suo compito, non avrebbe potuto reggere sul lungo periodo. Nel 1971, un’espansione elevata dell’emissione di moneta per finanziare la guerra in Vietnam ha portato gli Stati Uniti a denunciare gli accordi di Bretton Woods e a cessare la convertibilità del dollaro in oro. Il crollo del sistema dei cambi fissi, unito alla crisi petrolifera di qualche anno dopo, si è innestato su una crescita generalizzata dell’inflazione nei paesi occidentali, dovuta anche al finanziamento del welfare, e sulla caduta del saggio di profitto.
È in quegli anni che è ritornata in auge l’idea, perorata da personaggi del calibro di Frederich August von Hayek e Milton Friedman, secondo cui l’inflazione può essere controllata attraverso la politica monetaria delle banche centrali. Queste, attraverso l’opportuna scelta di tassi di interesse, favorirebbero il giusto equilibrio dei prezzi grazie all’incontro tra domanda e offerta. Con l’ottica neoliberale si inverte il rapporto tra Stato e capitale. Non è più il primo a disciplinare il secondo, ma è il mercato che contesta alla politica competenze in merito alla fiscalità (se non quella di garantire il pareggio del bilancio), al controllo sulla finanza, all’obiettivo della piena occupazione, alla determinazione dei salari attraverso la contrattazione collettiva. Ma l’idea che debba prevalere la logica di mercato, unita all’esigenza di avere bilanci in pareggio e quindi di comprimere la spesa pubblica, si riflette sugli stessi sistemi di welfare nel loro complesso, sulla sanità come sulle politiche di redistribuzione, o sulla programmazione. Il cambio di paradigma ha comportato la fine di quello che è stato definito il compromesso keynesiano. Tale passaggio ‒ non spontaneo ma tenacemente perseguito a colpi di dottrina ‒ ha comportato anche un mutamento valoriale all’interno delle società. Il capitalismo si è dotato di un nuovo spirito, più laico rispetto a quello protestante evidenziato da Weber, e ha spesso abbracciato le rivendicazioni inerenti le libertà civili e quelle scaturite dalla critica artistica della stagione del ’68, come hanno messo in risalto Nancy Fraser o Boltanski e Chiapello. L’idea della catallassi, ossia dell’equilibrio spontaneo raggiunto attraverso le azioni individuali di una miriade di operatori ‒ secondo quanto andava affermando von Hayek ‒ ha fatto breccia all’interno delle società e non è stata intaccata neanche dalle evidenti disfunzioni scaturite da tale ottica. Dopo la crisi del 2008 e con l’attuale emergenza sanitaria che si ripercuote sull’economia, non sembra emergere, a livello di massa, una critica al sistema di sviluppo. Semmai l’obiettivo della protesta si concentra sulla politica che, con gli strumenti consentiti dalla logica di mercato, non riesce a dare risposte adeguate. Ma, d’altra parte, neanche la sinistra politica riesce a contestare questo modello.
Se negli anni Ottanta, la stura al dominio del mercato è stata data dalle destre, negli anni Novanta la sinistra di governo è stata vittima di una cattura cognitiva che le ha fatto abbracciare l’idea neoliberale e le ha fatto allevare un golem che tenta di divorare tutto quello che si pone sulla propria strada. Eppure, un’analisi più approfondita avrebbe fatto intuire che quanto propagandato era fumo negli occhi. Solo per fare un esempio, quando Hayek scriveva Legge, legislazione e libertà (poderosa apologia del libero mercato imperniata sui principi della filosofia del diritto), era già noto il lavoro di Galbraith, L’economia e l’interesse pubblico, in cui l’economista americano parlava di un capitalismo dominato dalle tecnostrutture delle grandi corporations. Galbraith illustrava il fenomeno delle porte girevoli che favorivano il processo osmotico tra corporations e governi, nel quale la politica svolgeva un ruolo del tutto subalterno e funzionale alla logica delle tecnostrutture. In sostanza, l’evidenza andava in senso contrario a quel mercato composto da una miriade di attori in concorrenza tra loro, teorizzato dal padre del neoliberalismo novecentesco. Si potrà anche eccepire che il lavoro di Galbraith, essendo del 1974, veniva varato proprio al culmine della fase socialdemocratica del capitalismo, ma sarebbe fin troppo facile rispondere che la tendenza alla concentrazione del capitale è andata aumentando soprattutto nell’attuale fase neoliberale e sembra essere una dinamica interna al modello e una delle cause delle disfunzioni socioeconomiche tipiche del capitalismo finanziario.
È evidente che persino il libero dispiegamento dell’economia ha bisogno del politico che detti il quadro normativo perché il mercato possa funzionare e, alla peggio, impedisca la rivolta sociale quando la polarizzazione delle ricchezze diventa intollerabile. Persino quel modello di turbocapitalismo ha bisogno della politica anche se ne disconosce il ruolo, come ha argomentato Nancy Fraser (Capitalismo. Una conversazione con Rahel Jaeggi).
Oggi che la crisi pandemica incombe, il ruolo della politica è quanto mai importante perché deve contemperare le esigenze della produzione con quelle della salute dei cittadini. Compito difficile in un sistema iperaccelerato che risente di ogni accenno al rallentamento e che è alla mercé della finanza. Ma decenni di disconoscimento del ruolo della politica ne minano la credibilità e l’egemonia e generano rivolte sociali in nome di immaginifiche teorie complottiste. È il trionfo della postverità e del relativismo nell’informazione e nella scienza. La società postideologica è stata salutata con entusiasmo agli inizi del secolo corrente, ma la fine delle ideologie ha lasciato un vuoto desolante, essendo l’esaltazione delle virtù del libero mercato l’unico pensiero consentito. Se l’ideologia rappresentava un’interpretazione della realtà e forniva la chiave per comprendere da quale parte stare senza doversi spendere in complesse elaborazioni, la società postideologica richiede agli individui una continua reinterpretazione della complessità. Il motto «uno vale uno» è la raffigurazione icastica di questa disaggregazione culturale e crea l’illusione che la complessità sia alla portata di tutti. Ma poiché non tutti possono sostenere questo peso, ecco che il mezzo si è sostituito al fine e il mondo dei social network è divenuto l’arena politica in cui tutti pensano di poter contare attraverso la propria esposizione ma, di fatto, non fanno che accrescere un caos sistemico.
È del tutto evidente che la politica deve tornare a esercitare un ruolo preponderante e deve riappropriarsi di quelle prerogative di cui è stata scippata dagli anni Ottanta. Occorre però riflettere in quale contesto debba avvenire tale riappropriazione e a quale modello aspirare. Il modello keynesiano va inquadrato storicamente ed è difficilmente riproducibile al di fuori di quel contesto del dopoguerra in cui si è affermato. Ma soprattutto, come abbiamo visto, non pone soluzione ai due problemi, emergenti e collegati, della crisi ambientale e del divario tra Nord e Sud del mondo.
Oggi il compito da affrontare è quello di demistificare la narrazione che il neoliberalismo ha prodotto negli ultimi quarant’anni. Occorre prioritariamente effettuare un’operazione culturale che ridia il primato alla politica in quanto istanza di gestione delle esigenze collettive, ma rifletta anche su quale debba essere l’agenda delle cose da fare. In sostanza occorre rifondare una Weltanschauung che riporti l’umanità ai valori essenziali e che liberi i comportamenti individuali dalla persuasione occulta della società dei consumi. Bisognerebbe cominciare a porre le condizioni per contraddire quella battuta secondo cui è più facile che finisca il mondo piuttosto che si arrivi a vedere la fine del capitalismo. Una battuta dotata di fin troppo senso per non essere presa sul serio e non generare preoccupazione. Ma prenderla sul serio significherebbe cominciare a pensare a un’uscita dal capitalismo, per come l’abbiamo conosciuto finora: un sistema di potere mascherato da neutralità delle interazioni sociali e una realtà totalizzante che misura tutto in base all’attribuzione di un valore monetario. E per il quale, ad esempio, il lavoro di organizzazioni umanitarie non è catalogabile tra le attività razionali degli individui. La tecnologia e la cultura sviluppati fin qui ci rendono in grado di contraddire un’idea di sviluppo forsennato che rischia di gettarci in un tunnel senza via d’uscita.
Lo smantellamento complessivo dello Stato, oltre che dello Stato sociale, è all’origine anche della mancanza di “competenze pubbliche” in grado di sviluppare veri piani d’impiego del cosiddetto “Recovery Fund”, per cui si sta pensando addirittura ad un comitato di “esperti” sovrapposto alla politica.
Aggiungo che non a caso l’offensiva della destra s’è dispiegata dagli anni ’80 e ha coinvolto appieno la “sinistra di governo”: oltre all’evoluzione della crisi ormai forte dei Paesi del “socialismo realizzato”, gli anni ’70 avevano rappresentato un tentativo forte della “sinistra d’alternativa” di porre all’ordine del giorno parametri diversi, compattando ideologicamente tutte le forze incapaci di ragionare “fuori” dalla logica capitalista.
20-12-06 domenica 14:25ca
La destra ha vinto, la sinistra , di governo, s’è adeguata.
L’economia diversa non trova modo di applicarsi.
La massa è mandria, e cerca sempre nuovi capi. Le minime alternative non pesano, e non riescono a trovare comuni denominatori su cui far convogliare sporadici momenti di fulgore e seguiti.
Lo Stato è stato smantellato, passato a miglior passato.
La cultura necessita una nuova coltura con semi non modificati geneticamente, in grado di riprodursi, nel rispetto delle diversità.
La logica ci manca.
Dove trovarsi non più soli? Come? Chi? Se non ora, quando?