Lorenzo Perrone, un uomo integro e retto

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Nel suo ultimo lavoro, Un uomo di poche parole. Storia di Lorenzo che salvò Primo (Laterza, 2023), lo storico Carlo Greppi mette in rilievo il fatto, di per sé sorprendente, che la migliore umanità, contraddistinta da integrità e rettitudine, si trova proprio là dove la società benpensante da sempre meno se l’aspetta, cioè negli uomini semplici e poco istruiti. Lorenzo Perrone era un muratore quasi analfabeta. A Buna-Monowitz (Auschwitz III) ha aiutato Primo Levi (ma non solo) a sopravvivere. E con ciò stesso ha fatto sì che anche tutti noi potessimo conoscere, sebbene mai fino in fondo, la disumana realtà del Lager nazista attraverso le parole distillate del sopravvissuto torinese.

La storia di questo muratore di Fossano – a cui Levi ha fatto da manovale – è dunque importante ed esemplare, non solo perché, dice lo storico, emerge fra le tante altre simili ad essa che ancora attendono di essere scoperte e sottratte al silenzio e all’oblio, ma soprattutto perché si innalza da quelle di tutti coloro che, da una parte e dall’altra – attraversando una lunga e scivolosa “zona grigia” – non sono invece riusciti ad evitare quello che ne La banalità del male Arendt chiama “crollo morale”. Mentre nel paradiso, dice infatti la filosofa, gli esseri vengono tentati dal male, nell’inferno creato in terra dal Terzo Reich essi sono tentati dal bene. E molti tedeschi, e con loro i nazisti, avevano imparato sin da piccoli a resistere alla tentazione del bene. Quel crollo morale corrisponde sostanzialmente all’incapacità di “distinguere il bene dal male” (La banalità del male, Feltrinelli, 1997, p. 157; si veda anche il nostro Il negativo e l’attesa. Riflessione intorno alla Shoah a partire da Primo Levi, Mimesis, 2023, p. 145); e ciò, precisa Todorov, non già perché i carnefici non avessero una morale, ma perché secondo la loro morale le atrocità corrispondevano al bene (Di fronte all’estremo, Garzanti, 1992, p. 129).

Ora, sulla scorta dell’innata inclinazione di Lorenzo al bene, si potrebbe ipotizzare che la sua azione benefica – pur rischiando di non lasciare traccia di sé e di diventare quindi «una vita come tante altre, sepolta in qualche archivio di elenchi senza senso apparente» (p. 79) – si sarebbe con molta probabilità potuta esplicare da qualche altra parte, non necessariamente laggiù (ib.). Una vita si può salvare ovunque, in qualsiasi momento, in qualsiasi situazione. Non necessariamente e non solo là dove ce ne sia più bisogno. L’importante è infatti, come suona il detto popolare, fare il bene e dimenticarselo. E così ha fatto Lorenzo, istintivamente. Il quale non ha voluto nulla in cambio del suo spontaneo altruismo.

Non necessariamente in tempo di guerra, dunque, si può fare il bene. Lo si può fare anche in tempo di relativa pace. Certo, nel luogo del male assoluto, anche un semplice gesto benevolo appare come il bene assoluto. Ciò tuttavia non vuol dire che, dato l’impulso “incontenibile” dell’umile artigiano (p. 145), il suo bene non si sarebbe potuto attuare anche in altre situazioni, magari in forme differenti, in modi diversi. La volontà di Lorenzo a «fare veramente qualcosa» (p. 84), insomma, si sarebbe espressa con ogni probabilità lo stesso, anche fuori dal Lager, fuori dal luogo del male assoluto, dal luogo in cui le occasioni di operare il bene erano sicuramente maggiori e più rischiose (pp. 106-107). E in questo il muratore fossanese aveva qualcosa in comune con il chimico torinese, il quale, secondo Pikolo (alias Jean Samuel), sarebbe ugualmente diventato uno scrittore anche senza l’esperienza del Lager, sebbene ovviamente non lo stesso. Qualora infatti si sostenesse che la tendenza a fare il bene possa manifestarsi solo là dove si danno naturalmente o dove vengono artificialmente prodotte maggiori condizioni di male, allora per assurdo si sarebbe costretti a dedurre che il male, anche quello assoluto, risulti necessario o in funzione della realizzazione del bene.

Un ragionamento analogo è quello che svolge Bettelheim quando afferma che la solidarietà autentica consiste in una specie di “armonia segreta” rinvenibile solo in “situazioni estreme”. Ma è proprio per questo, cioè per evitare le situazioni estreme, che testimoni come Levi, Wiesel e Améry ritengono che la verità di Auschwitz, nonostante ogni sforzo fatto per comprenderla, resti nella sua essenza incomprensibile per coloro ai quali essi pur trasmettono la loro testimonianza, poiché, paradossalmente, per poterla intendere questi avrebbero dovuto o dovrebbero quanto meno condividere la loro stessa esperienza dell’estremo. «Noi – dice ad esempio Levi – sappiamo che in questo difficilmente saremo compresi, ed è bene che sia così» (Se questo è un uomo, Einaudi, 1989, Sul fondo, p. 23, corsivo nostro). E in effetti, nonostante la differente condizione, Primo e Lorenzo sono stati là, hanno visto e quindi hanno potuto intuire e vivere quell’“armonia segreta”, una solidarietà, un’amicizia, una philía che, secondo il ragionamento di Bettelheim, sarebbe negata a quelli che “fortunatamente” (secondo Levi e gli altri due testimoni) non hanno fatto quell’esperienza.

Non si tratta comunque solo di una questione gnoseologica o ontologica, bensì di una questione eminentemente psicologica. Dalla ricostruzione di Greppi attraverso alcune biografie su Levi e gli stessi scritti di Levi sembra infatti di capire che, dopo il ritorno a casa, Lorenzo si sia lasciato andare a una «stanchezza senza ritorno» (Il ritorno di Lorenzo, in Lilít e altri racconti), a una «tristezza non medicabile» (p. 217), non solo perché per lui, nel nuovo clima della guerra fredda, non sarebbe servito a niente continuare a vivere in un mondo che mostrava di non aveva imparato nulla da quell’esperienza estrema, ma anche e soprattutto perché, secondo Levi, per lui non si davano più occasioni estreme per poter fare il bene (p. 185). Scrive a tal proposito quest’ultimo, ancora in quelle pagine su Lorenzo: «A ‘Suíss’ – [così Lorenzo pronunciava Auschwitz] – lui era stato un ricco, almeno rispetto a noi, e aveva potuto aiutarci, ma adesso era finito, non aveva più occasioni».

Il crollo morale non era riuscito a contaminarlo, a corrompere la sua integrità morale e a pervertire la sua rettitudine, proprio perché non era tanto acculturato, perché, per dirla con Vico, non era, come tanti altri, sprofondato nella barbarie della riflessione. Quella stessa barbarie che auspicava Nietzsche. E poiché non sapeva mentire neanche a fin di bene (p. 153), Lorenzo era allora un kantiano puro. Non solo. Era un uomo ancora più retto e integro di Giobbe – che è ’iš tam veiašàr, integro e retto per antonomasia –, poiché mentre in quest’ultimo, secondo Kant, la purezza e la veracità (Wahrhaftlichkeit) erano macchiate da una certa insincerità (Unlauterkeit) – non per niente infatti Adorno, dopo Auschwitz, ci ha suggerito di essere scettici anche nei confronti di figure bibliche come quella dell’Uzita –, nel muratore invece quelle qualità erano del tutto consapevoli e adamantine (per usare un’espressione dell’indimenticabile Liana Millu).

Proprio per la sua poca istruzione, dunque, – «ruvido ma autentico» lo definisce Greppi (p. 182), così come lo sono tra l’altro i tanti frontalieri che, come lui stesso un tempo, ancor oggi vanno a lavorare in Francia, sulla Costa Azzurra –, Lorenzo era più sensibile di molti altri, perché, anche se non direttamente, aveva visto e si era reso conto di cosa in quell’anus mundi l’uomo era stato capace di fare a un altro uomo. Era più sensibile, così come erano esseri più sensibili ad esempio certi mužikì tolstojani o la stessa figura di Sonja, la giovane prostituta dostoevskiana di Delitto e castigo. Nel clima della guerra fredda, dopo Hiroshima e Nagasaki, e con il rischio palpabile di un altro disastro nucleare (p. 175), egli non voleva più vivere perché, come si è detto, sebbene l’ordine del mondo, nonostante quel disastro, sembrasse in qualche modo ristabilito (p. 202), aveva intuito che l’umanità non aveva recepito affatto la lezione di Auschwitz. D’altronde un altro discusso testimone della Shoah (Ka-Tzetnik 135633) lo dirà a chiare lettere: «Auschwitz non sarà stato altro che fumo, se l’umanità non saprà trarne la sua lezione; e del resto, se Auschwitz dovesse essere dimenticato, come se non fosse esistito mai, l’uomo avrà dimostrato di non meritare che la sua esistenza si perpetui» (La fenice venuta dal Lager, Mondadori, 1969, p. 313). Monito questo che, a quanto pare, sembra purtroppo restare inascoltato ancora oggi, soprattutto in quest’oggi assetato dappertutto di odio, di morte e di nulla.

Lorenzo era già taciturno per natura – «Sembrava che di parlare non avesse bisogno», scrive Levi in quelle pagine dedicate al suo salvatore –, ma dopo quel periodo trascorso a Monowitz, si era chiuso ancora più in sé stesso, perché, anche lui, come lo stesso Levi, si era reso conto che sarebbe stato difficile se non impossibile «comunicare quanto aveva visto» (p. 162). E questo è un altro elemento che i due amici avevano in comune. Nulla di buono, quindi, in Lorenzo – un uomo senza se e senza ma – avrebbe mai potuto cancellare i segni dell’offesa (p. 225). «Una volta varcato il cancello di Buna-Monowitz – citiamo dal nostro Il negativo e l’attesa –, l’oppressione morale che i quattro soldati russi a cavallo provarono dinanzi al “nulla pieno di morte” (La tregua, Einaudi, 1989, p. 158) aveva il peso di un’offesa insanabile che nulla mai di buono e di puro, né in futuro né tanto meno appartenente al passato, avrebbe potuto cancellare» (cit., pp. 270-271). Lorenzo «non era un reduce», osserva Levi alla fine di quelle pagine sull’amico, ma «era morto del male dei reduci». Un male che anche in lui, come in Améry (e forse nello stesso Levi), aveva suscitato la volontà di sottrarsi al vivere, alla logica della vita, di uscire liberamente dalla vita con il Freitod. Levi accenna a questa possibilità, prospettata e realizzata a loro modo da Améry e dallo stesso Lorenzo («sicuro e coerente nel suo rifiuto della vita», dice Levi), anche in Verso occidente, uno degli scritti più intensi inseriti in Vizio di forma: «Perché un essere vivente dovrebbe voler morire?», domanda uno dei due personaggi del racconto. E l’altro di rimando gli risponde: «E perché dovrebbe voler vivere? Perché dovrebbe sempre voler vivere?».

Gli autori

Franco Di Giorgi

Ha Insegnato per due decenni filosofia e storia presso il Liceo scientifico "A. Gramsci" di Ivrea. La sua riflessione si muove tra filosofia (Aporia, 2004), memorialistica (concentrazionaria e resistenziale) (Lettera da Mauthausen e altri scritti sulla Shoah, 2004; A scuola di Resistenza, 2006), esegesi biblica (Giobbe e gli altri, 2016; Il Luogo della Vita. Riflessioni sul Vangelo di Tommaso, 2018) ed estetica (letteraria e musicale) (Tolstoj, Flaubert, Rilke, Proust, Ibsen, Pergolesi, Vivaldi, Beethoven, Rachmaninov, Mahler). Tra le riviste che hanno ospitato i suoi scritti: Testimonianze, Fenomenologia e Società, Paradigmi, Interdipendenza, Nuova Rivista Musicale Italiana, Israel, Historia Magistra...

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