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21/06/2023 di: Riccardo De Vito
Alla Stazione successiva (di Raffaele Caruso, sottotitolo La giustizia, ascoltando De André, Edizioni San Paolo, 2023) è un libro da leggere e ascoltare. A sfogliarlo (in parallelo, a sentire i brani del cantautore), si incontrano riflessioni sulle canzoni di Fabrizio De André e sulla dimensione giuridica dei suoi testi, imbastite con spezzoni di vita professionale e familiare dello scrittore, avvocato penalista. Tutto il libro chiama in gioco di continuo le emozioni e le esperienze del lettore, soprattutto di quello che condivide con l’autore due condizioni: la passione per le visioni del cantautore genovese e, in un modo o nell’altro, il lavoro con gli arnesi del diritto.
Nel mio caso, a queste condizioni se ne aggiunge un’altra. Ho svolto per tanto tempo il lavoro di giudice a Tempio Pausania. Il dato sarebbe del tutto irrilevante, se non fosse che Tempio Pausania è la cittadina della Sardegna dove Dori Ghezzi e Fabrizio De André avevano scelto di vivere, in quello stazzo dell’Agnata nel quale, il 29 agosto 1979, «il silenzio della casa venne rotto dai passi dei tre sequestratori». L’Agnata – l’angolo riparato, in dialetto gallurese – è ancora lì, popolata dai libri sottolineati e chiosati da Fabrizio, immune a ogni colonizzazione culturale nonostante la rifunzionalizzazione turistica. A poca distanza da quella località, sull’altro versante della statale che conduce al lago Coghinas, vi è ora un carcere di alta sicurezza. I due luoghi, quell’angolo di germinazione delle potenti immagini dedicate agli ultimi (e tra questi, i detenuti) e la prigione degli ergastolani senza (o quasi) diritto alla speranza, generano una sorta di contrappunto ideale e urbanistico. Sembra che inscrivano nel paesaggio il dissidio interiore di chi si trova di frequente a misurare lo scarto tra l’inesorabilità della legge e le potenzialità di cambiamento delle persone; di chi, impegnato nelle aule di giustizia, è costretto a verificare la distanza, a volte piccola a volte grande, tra i doveri che lo scettro del Re deve portare a compimento e il grido perenne di Antigone, che continua a rivendicare la non anticipabilità dell’essere umano. Questo contrasto percorre i ragionamenti del libro e i pensieri di chi si pone una domanda inevitabile: cosa racconta De André al giurista?
È una contraddizione lacerante quella che, spesso, si vive immersi nella giurisdizione, soprattutto penale e penitenziaria. Per descriverla, ancora oggi, non trovo parole più efficaci di quelle che Franco Basaglia riservava al lavoro nelle istituzioni della psichiatria: «Finché si resta all’interno del sistema, la nostra situazione non può che essere contraddittoria: l’istituzione è contemporaneamente negata e gestita, la malattia è messa tra parentesi e curata, l’atto terapeutico rifiutato e agito». Ecco, direi che tutto il libro di Raffaele Caruso si fa carico del bagaglio di angoscia e di domande che quella contraddizione porta alla luce quando al camice si sostituisce la toga. È possibile, si chiede l’autore alla fine del viaggio attraverso l’opera di De André, «giungere alla richiesta di una giustizia che abbracci il volto dei servi disobbedienti alle leggi del branco»? O ancora, con le parole della prefazione di mons. Antonio Staglianò: è umana una giustizia basata sulla «concezione della neutralità del punto di vista nell’interpretare la giustizia, senza affetti o sentimenti»? Sono questioni che, capitolo dopo capitolo, zampillano da un dialogo con i testi di Fabrizio De André.
Il libro ha un merito enorme: accettare come punto di partenza tutta la scomodità dell’opera di Faber, l’intera radicalità di un’intelligenza che non ha mai tradito signora libertà e signorina fantasia ed è arrivata alla conclusione che non ci sono poteri buoni, neppure quello dei giudici. Nessun tentativo di addomesticare l’irrequietezza anarchica a uso e consumo della buona coscienza dei contestatori di maniera, di confinarla in «quel pauperismo paternalistico e intriso di moralismo con cui per molto tempo tanti poveri si sono misurati – e a volte devono ancora misurarsi – di fronte a chi li sta aiutando: come ti senti amico fragile? Se vuoi posso occuparmi un’ora al mese di te». Troppe volte abbiamo visto agire questa retorica riduzionista che, nel denunciare a metà, legittima gli obiettivi polemici che intende combattere. Ancora una volta la penalità penitenziaria è uno specchio della situazione: è sufficiente aprire molti giornali liberal per vedere, accanto al lamento formale per un carcere più umano, l’incessante operare della rappresentazione mostrificata dei condannati, che giustifica il carcere duro, disumano.
Chiuso il libro – un percorso che dal Pescatore arriva sino a Smisurata Preghiera, ultima traccia di Anime Salve e ultima voce che abbiamo sentito di Fabrizio –, ci si ritrova nella certezza che De André sia stato l’intellettuale italiano più immediato nel comunicare il paradosso di una legalità troppe volte pretesa solo da coloro cui è stata resa impossibile o molto difficile nella vita. Una legalità a senso unico, schiacciata su un solo lato della medaglia. «Non desiderare la roba degli altri / Non desiderarne la sposa / Ditelo a quelli, chiedetelo ai pochi / Che hanno una donna e qualcosa», ripetono le strofe del Testamento di Tito, cogliendo in modo profetico la parabola delle democrazie contemporanee dallo stato sociale allo stato securitario, dalla prevenzione dei conflitti attraverso la soddisfazione dei bisogni alla repressione poliziesca e carceraria, dalla politica al diritto penale. La traiettoria del diritto all’abitare e dei movimenti per difenderlo, la lotta dei lavoratori della logistica, l’impegno dei soccorritori in mare raccontano questa storia: alla mancata tutela del diritto del più debole, alla mancata attivazione di una camera di compensazione sociale del conflitto, al tradimento di una promessa costituzionale fanno spesso seguito l’incriminazione e la repressione.
Per De André, tuttavia, la giustizia e le garanzie non si misurano soltanto sul povero cristo che ruba per fame, ma sull’assassino, sul reato grave. All’assassino che ebbe il coraggio di chiedere «dammi il pane, dammi il vino», il pescatore «versò il vino» e «spezzò il pane». È una dimensione contraria a quella della pena istituzionale, che tende ancora a sottrarre diritti al condannato. In questa scena, al contrario, il vecchio aggiunge, in una dimensione di incontro che «va oltre l’etichetta di assassino senza negarla» e che è capace di suscitare nel colpevole «una memoria che è già dolore / È già il rimpianto d’un aprile / Giocato all’ombra di un cortile». Mi pare un messaggio potente, evocativo di una funzione di risocializzazione che deve guardare nelle storie dei condannati e che deve lavorare anche con tutto ciò che, in quelle storie, è ricordo di ciò che reato non è stato. In una lettura più profonda, Raffaele Caruso nota la costruzione a chiasmo dei versi: l’assassino chiede il pane e il vino, il pescatore, invertendo il gesto liturgico, versa il vino e spezza il pane. Cosa raccontano questo chiasmo, quest’inversione? «De André nega la divinità di Gesù, per combattere gli alibi di chi, considerandolo Dio, lo ritiene modello inimitabile».
La giustizia del pescatore, dunque, non è giustizia impossibile agli uomini. E questo, Fabrizio De André lo ha dimostrato. Torniamo a Tempio Pausania, torniamo all’Agnata. Il 29 agosto 1979 Fabrizio e Dori furono prelevati dalla loro abitazione, condotti nei paraggi del Supramonte e costretti a una prigionia che durò oltre cento giorni, sino al 21 dicembre 1979. Il 20 marzo 1983, la sentenza di condanna per il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione pose fine a un processo in cui Fabrizio De André e Dori Ghezzi si erano costituiti parti civili soltanto nei confronti dei mandanti, ma non nei confronti degli esecutori: « Io ho avuto a che fare con i guardiani: due pastori, due strumenti. Ho perdonato loro perché, potendoci fare del male, hanno scelto di trattarci bene. Hanno fatto di tutto perché Dori e io soffrissimo il meno possibile». A novembre 1985, Dori e Fabrizio sottoscrissero la domanda di grazia nei confronti di uno dei vivandieri. Quando De André parla di reintegrazione, di riparazione, bisogna ascoltarlo, perché ha vissuto l’esperienza della vittimizzazione, non lo si può accusare di pensare a un solo corno della penalità. Ed è rimasto coerente con la sua poetica. O viceversa: la poetica è stata coerente con la sua vita.
Una versione più ampia del testo può leggersi in Questione giustizia (https://www.questionegiustizia.it/articolo/de-andre-giustizia)