A cosa serve la cultura?

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Nel 1935, il filosofo Edmund Husserl denuncia la crisi di senso che caratterizzava la sua epoca: era molto preoccupato per l’avanzare e il progredire dei totalitarismi. L’autore spiega la crisi della cultura, una crisi che ha portato progressivamente all’emergere dei totalitarismi e affronta il problema dichiarando che la crisi di senso è la crisi della ragione.

Le riflessioni di Husserl sono un buon punto di partenza per affrontare la crisi della cultura contemporanea: oggi ci troviamo di fronte a scetticismo e irrazionalismo, e il ruolo della cultura dovrebbe essere quello di combattere sia l’uno che l’altro. Oggi si dubita, non per appoggiarsi su qualcosa e ricostruire. Oggi il dubbio è circolare, si dubita per dubitare e pian piano si scivola in quello che ormai tutti chiamano complottismo. Una sorta di paranoia generale secondo la quale tutti mentono, tutti raccontano storie. È lì l’origine del concetto di postverità. Quando si dubita di qualunque cosa, tutto è sullo stesso livello. Non c’è più la gerarchia dell’informazione, tutto si equivale perché niente ha senso.

La cultura serve per costruire la nostra colonna vertebrale logico-argomentativa, necessaria per diventare autonomi, non essere in balia della paura, potersi autodeterminare, poter capire quale è il proprio progetto di vita. Essere autonomi significa scegliere un determinato progetto di vita ed essere capaci di giustificare il perché di tale scelta, individuare valori e principi in base ai quali organizzare l’esistenza in vista di finalità e scopi. La cultura, ci serve anche per distinguere le paure e identificare la complessità del reale. Sono due facce della stessa medaglia. Si tratta di capire per quale motivo quel qualcosa ci fa paura, distinguendolo dalle paure arcaiche e identificando la realtà del pericolo attuale. E ancora, la cultura è fatta di ciò che ci permette di opporci al pericolo, è la base attraverso la quale noi possiamo mobilitare le risorse interne e andare al di là del pericolo.

Anche la fiducia ha un ruolo decisivo. Solo nel momento in cui si riesce a distinguere, a identificare, a riconoscere, a riconoscersi, solo allora può partire la dinamica del fidarsi. Se non ricostruiamo la fiducia, noi sbrindelliamo definitivamente il vivere insieme, non c’è società senza l’atto del fidarsi, e senza fiducia crolla tutto. La fiducia però non riappare schioccando le dita. La fiducia torna perché si creano le basi. Nessuno è affidabile al 100%, noi siamo esseri umani con falle e contraddizioni. La fiducia è, come direbbe Georg Simmel, un “salto nel buio”, tanto che l’imprevedibilità che la caratterizza non ci permette di pretendere o sperare di conoscere ciò che sta al di là del nulla in cui ci buttiamo. Quel buio che ci fa tanta paura e che ci riporta all’infanzia. Dobbiamo scommettere, la fiducia è sempre asimmetrica. Non è correlata all’affidabilità, non è che, siccome c’è affidabilità, allora io mi fido. Devo iniziare a fidarmi, devo scommettere e devo sperare che la persona a cui do la mia fiducia non approfitti della mia vulnerabilità. E per questo è necessario appoggiarci a una colonna vertebrale. Se arriva il tradimento dobbiamo e possiamo trovare appoggio e sostegno su quel riconoscimento di noi, per quello che siamo. Consiglio la lettura dei Miserabili e del rapporto Jean Valjean e il vescovo di Digne.

La cultura serve ad acquisire e salvaguardare uno spirito critico, ossia a non cedere al conformismo, non al conformismo degli atteggiamenti, ma (neanche) al conformismo del pensiero (pensiero unico). Si tende al conformismo perché tante persone ripetono le stesse cose e noi le ripetiamo a nostra volta. Facciamo economia cognitiva. Viene meno il coraggio di prendere una posizione autonoma rispetto a ciò che ci viene detto, e chiesto di fare. Quindi la cultura serve a evitare quella famosa banalità del male di cui ci ha parlato Hannah Arendt, che emerge nel momento in cui si obbedisce agli ordini, perché si smette di pensare con la propria testa (Arendt 1963).

Prendendo ispirazione da Albert Camus, la cultura serve a regalarci parole, quelle parole che ci permettono di nominare le cose in maniera corretta. Quando si nominano male le cose, non si fa altro che introdurre maggior disordine. Le parole servono per ordinare il mondo che ci circonda. Abbiamo bisogno di una nuova cultura, che è «un regalo per il futuro», come scrive Albert Camus, e di un nuovo modo di leggere i fenomeni complessi, che il nostro tempo ci costringe ad affrontare. Occorre trovare le parole per nominare le cose. Il compito dell’educazione e degli insegnanti è quello di aiutare gli studenti a trovare le parole per nominare le sfumature del reale. Il reale è sfaccettato. Noi siamo in un’epoca in cui si nominano le cose come bianco e nero, perdendo le sfumature. La realtà è complessa, è arcobaleno. Quando non parliamo delle situazioni, significa cancellare parti della realtà. Perché esistono le situazioni e vanno nominate in maniera corretta. Altrimenti ci si ritrova come nei talk show e ci si insulta. Che cosa è l’insulto? È il contrario del dialogo: nel dialogo ci si ascolta, si ascolta l’alterità, ci si rimette in discussione, si risponde argomentando. Gustavo Zagrebelsky ha ricordato che il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia e dell’uguaglianza delle possibilità. Poche parole e poche idee, poche possibilità e poca democrazia; più sono le parole che si conoscono, più ricca è la discussione politica e, con essa, la vita democratica. Quando manca la capacità di nominare le cose e le emozioni, manca un meccanismo fondamentale di controllo sulla realtà e su sé stessi.

In sintesi, se il discorso fino a qui presentato funziona, la cultura – non intesa (solamente) come sapere e conoscenza – è importante se si trasforma in praxis, in azione, solo quando ha la capacità di intervenire sulla realtà, magari provando a cambiarla. Ecco che distinguere, riconoscere e riconoscer-si, costruire un pensiero critico e autonomo, identificare e nominare la realtà complessa, sono solo alcune delle conseguenze di un progetto culturale, di lungo periodo, ma necessario per costruire esistenze autonome e libere. Si tratta del famoso balzo dalla teoria alla prassi: non basta contemplare, la cultura deve significare agire.

Gli autori

Stefania Tirini

Stefania Tirini, ha conseguito un dottorato di ricerca in Qualità della Formazione presso l’Università di Firenze. Ha vissuto per diversi anni in America Latina dove ha lavorato nella cooperazione internazionale. Attualmente insegna Filosofia al Liceo Galilei di Firenze. I suoi interessi provano a fare sintesi tra gli aspetti sociali e culturali della contemporaneità con l’apporto della filosofia.

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