Il fondamento della violenza nazista

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Per non lasciarsi soffocare e impedire dall’odio che provava per l’irrazionalismo nazista, Thomas Mann cercava di dare una risposta razionale a una stessa domanda che ha riformulato in due articoli degli anni Quaranta, articoli ora compresi, insieme ad altri, in Fratello Hitler e altri scritti sulla questione ebraica (Mondadori, Milano 2005). La domanda è la seguente: «Che razza di esseri umani sono, che razza di mostri quelli che non sono mai sazi di uccidere [quelli che non si stancano mai di infliggere agli altri i peggiori tormenti], per i quali ogni miseria che riversavano sugli ebrei [per i quali la miseria che hanno riversato su vittime pacifiste e indifese, tanto avverse alla violenza] altro non era che uno stimolo a spingerli in una miseria ancora più profonda e più spietata [uno stimolo a far precipitare queste stesse vittime verso sventure ancora più terribili e spietate]?» (Ebrei nel terrore, 1942; Un popolo duraturo, 1944, corsivi nostri).

Tra le risposte che avanza, il «crollo morale del 1918» (La questione ebraica, 1921), cui farà cenno anche la Arendt nel suo saggio su Le origini del totalitarismo (1951); il declino, l’imbarbarimento, l’involuzione e la massificazione della cultura europea che esortava i giovani alla deresponsabilizzazione, vale a dire a delle «vacanze protratte dal proprio Io» (Attenzione, Europa!, 1935): li invitava cioè non solo a congedarsi dalla responsabilità, ma anche ad eludere con ciò stesso la complessità dei problemi posti dalla modernità, cercando di risolverli con la violenza, che è, dice Mann, un «principio straordinariamente semplificatore» (ibid.); l’anti-intellettualismo e il primitivismo come Weltanschauung (Fratello Hitler, 1939); la ripresa, l’approfondimento e l’attuazione politica di quell’irrazionalismo filosofico a cui György Lukács dedicherà l’intero suo saggio su La distruzione della ragione (1959); il sostegno da parte degli intellettuali tromboni o delle “muse arruolate” (così ad esempio in Auschwitz e gli intellettuali Enzo Traverso definisce Martin Heidegger); la falsificazione, alla quale, come evidenzierà nel 1949 Orwell in 1984, verrà attribuito «il medesimo valore che ha la verità» (ibid.), inaugurando così l’istituzionalizzazione della postverità; ed altre risposte ancora.

Tutte risposte fondate e pertinenti. Ma più che le risposte a noi qui interessa rilevare il senso e soprattutto il contenuto della domanda del romanziere di Lubecca, alla quale proveremo ad aggiungere una nostra risposta, che in spirito è vicina a quella che la stessa figlia dello scrittore darà nel suo saggio La scuola dei barbari (1938). La riprendiamo sinteticamente e la riformuliamo in forma affermativa: la violenza che i nazisti perpetrarono nei confronti del popolo ebraico – nazisti che, secondo lo storico Goldhagen, a differenza di quanto sostiene lo stesso Mann, erano antisemiti eliminazionisti come la maggioranza del popolo tedesco – ebbene questa loro violenza, osserva acutamente il narratore, non era altro che uno stimolo a compierne sempre di più e nelle forme più disumane possibili. Una volta messo a tacere ogni impulso morale, tranne quello che serviva al soldato in guerra o alla SS in Lager, i tedeschi si resero disponibili all’autoalimentazione della violenza all’unico scopo di ottimizzare la resa comportamentale nell’espletamento delle disumane operazioni di massacro.

Un’autoalimentazione, viene però subito da pensare, simile per certi versi a quella davvero infernale che i nazisti, prima della costruzione dei moderni impianti di cremazione a Birkenau, assicuravano al fuoco all’interno delle selvagge fosse di abbruciamento o nei roghi con lo stesso grasso dei cadaveri degli ebrei. Dopo la gasazione nei Bunker di Brzeżinka (in polacco questo nome significa “foresta di betulle”, “betullaio”, in tedesco Birkenwald o Birkenau, da Birke “betulla”, un albero la cui radice etimologica rimanda curiosamente a qualcosa di “luminoso” e di “risplendente” per via delle sue strisce bianche), i membri del Sonderkommando dovevano abbruciare più di una volta i corpi delle persone come inutili sterpaglie in disumani roghi a cielo aperto, alternando strati di corpi a strati di legna, di rami e tronchi di betulle. Dopo aver sbriciolato le ossa più grosse e aver più volte passato al setaccio i resti, la cenere veniva gettata nella Vistola o nella Soła, fiumi che si incrociavano proprio ad Auschwitz.

Questa autoalimentazione rimanda inoltre all’idea leviana di pendolarità della violenza, la quale, secondo il principio del “turbocompressore”, nel tempo si esalta e si potenzia anziché estinguersi, una violenza che richiede sempre più violenza, nello stesso e identico modo in cui l’abisso di quelle gheenne invocava altre e più capienti gheenne. Certo, i giovani ariani, ha dimostrato Monica Mann, erano stati educati per bene e per tempo alla barbarie, addestrati, gedrillt, secondo la pedagogia militare del Drill. Ma è sul campo che essi, rivaleggiando l’un l’altro, si sono effettivamente forgiati, in virtù della violenza da essi impunemente esercitata e da essi soprattutto vissuta come stimolo, come incentivo necessario a realizzarne con spirito competitivo livelli sempre più impensabili e feroci, formandosi e specializzandosi così in freddezza e durezza al fine di poterla affrontare senza subire traumi. Come il Deutschland, anche il giovane tedesco doveva quindi essere über alles, al di sopra degli uomini di tutte le altre nazioni e delle loro leggi morali, capace cioè di fronteggiare quella violenza crescente, senza limiti e arbitraria che li temperava proprio mentre la esercitavano. Il terrore, proprio del potere assoluto, dice a tal riguardo Wolfgang Sofsky nel suo saggio del 1993 Die Ordnung des Terrors, ha fondamento e fine in sé stesso, cioè nell’angoscia, e come tale non solo non ha bisogno di giustificarsi, ma si dimostra esercitandosi. «La brama di tormentare il prossimo», scrive infatti Mann a questo riguardo, «non aveva limiti» (Ebrei nel terrore). È in questo über che essi coglievano la continua esortazione a un aumento illimitato della Gewalt, cioè la possibilità di un aumento sia della brutalità sia, parallelamente, della loro potenza, intesa naturalmente come hýbris, come superbia, come arroganza. È insomma in quella eccedenza in violenza, in Gewalt, che essi vedevano la loro eccezione.

Da questo punto di vista, la loro formazione, specie secondo il Dachauer Modell, era pertanto soprattutto interiore, poiché per esercitare quella loro crescente aggressività non era affatto richiesta una particolare forza fisica. La loro Arbeit, il loro lavoro consisteva nel pianificare nel modo più razionale e metodico possibile la deportazione, lo sterminio e l’incenerimento di migliaia di esseri umani resi del tutto incapaci di reagire e di opporsi. Sicché, più che formare soldati, suggerisce Mann, gli ideologi del nazismo, i maestri dai «cervelli putrefatti» (Ebrei nel terrore) e «disgustosamente decomposti» (Un popolo duraturo), affetti da una «patologia abominevole» (Fratello Hitler) instillata in loro dalla «velenosa semente di Hitler» (Salvate gli ebrei d’Europa!, 1945), educavano invece esseri vili, ignobili e spregevoli – questa la razza di uomini cui lo scrittore fa riferimento nella sua domanda – la cui viltà (altro che coraggio!) cresceva in proporzione alla debolezza delle loro vittime. I nazisti – apprendiamo ad esempio dal manoscritto anonimo di un membro del Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau – preferivano fucilare le vittime «uno alla volta», di modo che lo strazio dell’attesa dell’esecuzione fosse ancora più penoso della morte medesima. «Il tedesco», affermava infatti questo prigioniero, «sa bene come straziare gli uomini e dominare il loro stato d’animo» (La voce dei sommersi. Manoscritti ritrovati di membri del Sonderkommando di Auschwitz, Marsilio, Padova 1999, p. 215, corsivo nostro).

A proposito di questo esser forti con i deboli, di questa forza apparente: non appena entrato nella sua baracca, Salmen Gradowski – ebreo polacco di Suwalki, giunto ad Auschwitz l’8 dicembre 1942, selezionato appunto per il Sonderkommando e in seguito eliminato per aver preso parte il 7 ottobre 1944 alla rivolta tentata da alcuni membri di questa Squadra speciale –, non appena dunque arrivato al Block, Gradowski venne a sapere che il campo dove si trovava era «un campo di morte», era «un’isola dei morti», in cui gli uomini venivano non per vivere ma per morire. Venne a sapere insomma che quello «Non era luogo di vita. Era la residenza della morte» (La voce dei sommersi, p. 63, corsivo nostro).

Ora, com’è noto, L’isola dei morti è il titolo di un celebre dipinto che a fine Ottocento il pittore svizzero Arnold Böcklin aveva realizzato in cinque versioni, una delle quali, quella del 1883, era stata acquistata proprio da Hitler. Die Toteninsel era infatti uno dei quadri preferiti non solo dal Führer, ma anche da D’Annunzio e da Freud. Lo stesso compositore russo Rachmaninov, in una delle sue opere più riuscite del 1909 (L’isola dei morti, op. 29), era stato ispirato dalla versione in bianco e nero delle tele di Böcklin. A differenza di questi altri ammiratori dell’opera böckliana, però, la necrofilia “estetica” di Hitler, sostiene Erich Fromm, deriva dal suo sadismo, perché il sadico, afferma lo psicologo, «ha paura della vita»: questa «lo spaventava, perché, per sua stessa natura, è incerta e imprevedibile» (Anatomia della distruttività umana, Mondadori, Milano 1994, p. 366). La sua necrofilia pertanto non può essere che “estetica”, perché quest’uomo, scrive ancora lo psicanalista tedesco di origine ebraica (anche lui costretto ad emigrare nel 1934, prima in Svizzera e poi in America per sfuggire alla persecuzione nazista), nonostante il suo sadismo, «non riusciva a sopportare la vista dei cadaveri» (ivi, p. 504). Una siffatta contraddizione mette pertanto in luce quella debolezza che, seppur espressa in modo diverso, si riflette anche nelle odiose e vili operazioni delle Einsatzgruppen, poiché questi gruppi, sottolinea Gradowski nel suo taccuino, mostravano tutta la loro crudele forza non nei confronti di forti e coraggiosi soldati, bensì di fronte a vittime inermi e deboli (La voce dei sommersi, p. 52). Quel taccuino, scritto il 6 settembre 1944, e quindi certamente uno dei primi resoconti sullo sterminio sistematico degli ebrei, era stato ritrovato da una Commissione d’indagine sovietica il 5 marzo 1945 all’interno di una borraccia d’alluminio, rintracciata nei dintorni del crematorio III di Birkenau seguendo le indicazioni di Shlomo Dragon, uno dei due fratelli Dragon che, in quanto selezionati per lo Sonderkommando e inquadrati in particolare nello Stubendienst, nel servizio negli alloggiamenti degli uomini del Sonderkommando, hanno potuto creare le condizioni favorevoli per consentire a Gradowski di redigere le sue annotazioni. Come una guida sapiente, con le sue parole preziose, egli ci lascia intravedere cosa accadeva al popolo ebraico durante la deportazione e lo sterminio, perché, come pochi altri, sapeva entrare nella mente e nel cuore delle vittime, quasi a volerne mostrare e salvare i pensieri angosciosi e pieni di sconforto. In quella “gigantesca fornace ardente” di Auschwitz-Birkenau, nella quale operava giorno e notte il Sonderkommando, lo sterminio degli ebrei, ci dice a tal proposito la voce di un altro sommerso, Salmen Lewental, si svolgeva «in una tranquillità terrificante»: «gli uomini arrivano», scrive nel suo quaderno, ritrovato anch’esso vicino al crematorio III, «e senza sapere dove vengono condotti, vanno al crematorio»; «essi sicuramente non riusciranno a capire la verità, perché nessuno può figurarsela. Nessuno può neppure immaginare come gli eventi sia siano [svolti], perché è inimmaginabile che si [possano] riferire con precisione le nostre esperienze; solo uno [di] noi potrebbe raccontare tutto questo» (La voce dei sommersi, pp. 131-132). Dalla testimonianza dei fratelli Dragon e di quella di altri membri del Sonderkommando di Birkenau raccolte nel 1995 dallo storico israeliano Gideon Greif in Bakhinu beli dema‘ot (“Piangevano senza lacrime”… Testimonianze degli ebrei del “Sonderkommando” di Auschwitz), tradotte in tedesco nello stesso anno (Wir weinten tränenlos…” Augenzeugenbericht des jüdischen “Sonderkommandos” in Auschwitz) e in inglese nel 2005 (We wept without tears) veniamo infatti aiutati a capire queste loro terribili esperienze con precisione ma anche con sgomento, convincendoci sempre di più al tempo stesso, anche di fronte alla disastrosa guerra in atto in Ucraina, dell’unicità della Shoah.

Certo, alcuni di coloro che hanno “scandagliato il fondo” della realtà del Lager, diremmo con Levi, cioè i prigionieri del Sonderkommando, quelli che, come dice Shlomo Venezia, hanno “visto il peggio”, quelli che erano «tutto il giorno […] nel cuore dell’inferno» (Sonderkommando Auschwitz, Rizzoli, Milano 2007, p. 124), non sono tornati, e fra questi Gradowski, Langfus e Lewental. Essi, però, come si è detto, hanno lasciato allora sepolti dei taccuini che noi oggi possiamo leggere e dai quali apprendere alcuni aspetti della storia del Lager. Altri membri del Sonderkommando però sono tornati, come ad esempio Shlomo Venezia e quei superstiti intervistati da Gideon Greif, i quali, pur non avendo provato le stesse sofferenze patite dai “normali” deportati, e sebbene abbiano vissuto la medesima incomprensibilità delle azioni che erano costretti a compiere come dei robot, non se ne sono tuttavia lasciati paralizzare. A lasciare questi testi non sono stati necessariamente alcuni prigionieri privilegiati, come sottolinea Sofsky nella Prefazione del suo saggio, cioè alcuni dei “salvati”, diceva Levi nella Prefazione de I sommersi e i salvati (testo a cui peraltro fa riferimento lo stesso Sofsky), ma quelli del Kommando “speciale” che si sono mischiati ai prigionieri “normali” al momento dell’evacuazione del campo di Auschwitz-Birkenau o che sono riusciti a fuggire durante la marcia della morte, oppure quelli che sono sopravvissuti a questa marcia e che hanno resistito fino all’arrivo dei liberatori, dei russi ad Auschwitz e degli anglo-americani nei altri campi del Reich.

In ultima analisi, se, come dice ancora Primo Levi ne I sommersi e i salvati, per aver costretto i membri del Sonderkommando a distruggere i loro propri fratelli, le loro stesse famiglie e il loro popolo, le SS hanno commesso «il crimine più demoniaco del nazionalsocialismo» (Einaudi, Torino 1986, p. 34), altrettanto diabolico sembra essere quella loro folle disponibilità all’autoalimentazione della violenza, intesa come una delle forme attuative più esemplari del principio della necessaria priorità del negativo.

Gli autori

Franco Di Giorgi

Ha Insegnato per due decenni filosofia e storia presso il Liceo scientifico "A. Gramsci" di Ivrea. La sua riflessione si muove tra filosofia (Aporia, 2004), memorialistica (concentrazionaria e resistenziale) (Lettera da Mauthausen e altri scritti sulla Shoah, 2004; A scuola di Resistenza, 2006), esegesi biblica (Giobbe e gli altri, 2016; Il Luogo della Vita. Riflessioni sul Vangelo di Tommaso, 2018) ed estetica (letteraria e musicale) (Tolstoj, Flaubert, Rilke, Proust, Ibsen, Pergolesi, Vivaldi, Beethoven, Rachmaninov, Mahler). Tra le riviste che hanno ospitato i suoi scritti: Testimonianze, Fenomenologia e Società, Paradigmi, Interdipendenza, Nuova Rivista Musicale Italiana, Israel, Historia Magistra...

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