La discussione sul pacifismo ha trovato nuovo alimento dalle recenti vicende belliche, di cui la questione Ucraina è la più scottante. Ma una chiarificazione sul suo senso non può incanaglirsi nella discussione minuta dei singoli fatti o nella esibizione più o meno impattante di morti e distruzioni, magari con attribuzioni di colpe che fanno proprie in modo acritico la versione di uno dei due contendenti. È necessario, a mio avviso un discorso più di fondo, che parte dalla radice e che quindi dia del pacifismo una lettura “radicale”.
A tale fine vorrei partire da un assunto da me presupposto a tutto il ragionamento che verrà: nessun valore, nessun ideale, nessuna visione del mondo o ideologia può valere più della vita di uomini, donne, anziani e soprattutto bambini. Non v’è nessuna giustificazione, di nessun tipo, che possa essere addotta per la morte e lo spegnersi del sorriso di un fanciullo, nessuna libertà o indipendenza che possa essere ritenuta prioritaria rispetto alla distruzione, della miseria e della sofferenza di una popolazione. Perché alla morte non c’è riparo e una vita spezzata lo è in modo definitivo, mentre qualsiasi altro valore o principio, se perduto, può essere riconquistato, ritrovato: la storia non è mai “per sempre” e ogni condizione politica, sociale, economica può essere cambiata col tempo e la perseveranza degli uomini. La vita è invece data una sola volta e la morte è irreversibile.
Vedo subito la prima obiezione: con questo atteggiamento ciascuno – uomo o popolo – sarà preda del primo violento che se ne voglia approfittare. E di fronte a tale tipo di violenza, si ritiene che vi possa essere una “guerra giusta”, per difendere se stessi e i propri cari. Non è una obiezione peregrina, perché nella storia abbiamo sempre avuto popoli conquistatori e conquistati, aggressori e aggrediti e spesso i primi non sono stati teneri con i secondi. L’esempio di Hitler è, di solito, il passepartout utilizzato per tacitare il pacifismo. Ma è una obiezione a cui si può rispondere. Innanzi tutto, la violenza della conquista è stata sempre eccitata dalla resistenza che si è opposta ad essa. Più si resiste con la forza, più il conquistatore sarà incitato e rabbiosamente vorrà vendicarsi o semplicemente intensificherà i propri sforzi e le distruzioni arrecate per spezzare nel tempo più rapido ogni resistenza, facendo terra bruciata. Lo sapevano i romani, che erano spietati con coloro che resistevano alla loro conquista, ma salvavano la vita e i beni a chi si sottometteva volontariamente, diventando loro federato. Tale ferocia è tanto più elevata quanto più una guerra si incancrenisce, si fa lunga, esasperante e causa vittime su entrambi i fronti; e le vittime di coloro che risulteranno alla fine vincitori domanderanno il sangue di chi ha loro resistito. Per cui, in un’ottica pacifista radicale, colui che subisce violenza o viene invaso o attaccato, ridurrebbe di molto le sofferenze proprie e della sua popolazione se evitasse di reagire con la forza, cioè di scatenare una guerra a tutto campo.
Esemplare, da questo punto di vista il comportamento di Pio IX che, di fronte ai bersaglieri che davano l’assalto a Porta Pia, decise di opporre solo una resistenza formale e tenue, allo scopo di dimostrare di aver subito violenza. Ma evitò di ingaggiare una vera e propria guerra che avrebbe causato massacri e sofferenze al popolo romano. Altro esempio notevole è quello di Cristiano X di Danimarca: rendendosi conto che il suo esercito, composto di 14.500 uomini, non aveva nessuna possibilità di opporsi a quello dei nazisti, firmò la resa. Non ci fu quindi spargimento di sangue, solo qualche isolata sparatoria con poche vittime. Il re non scelse la via dell’esilio e così ottenne di mantenere una certa autonomia anche durante l’occupazione nazista. Ciò gli permise non solo di salvare molte vite dei suoi cittadini, ma anche di proteggere in vari modi gli ebrei danesi e salvarli dalla deportazione, sicché la Danimarca può vantare la percentuale e il numero di ebrei deportati nei campi di concentramento più bassa della II guerra mondiale. È questa la storia raccontata, con molti particolari assai interessanti, da Boris Hazenov nel libro L’ora del re (Sellerio, 1986) ed è portata come esempio pragmatico di lotta nonviolenta, di un pacifismo che non è alieno da compromessi, ma che riesce a imboccare con efficacia una strada che non sia quella della guerra e della distruzione (si veda quanto dice a proposito Anna Bravo, in La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato, Laterza, 2013). Sia nel primo esempio, come nel secondo, la libertà e l’autonomia furono riconquistate, ma senza spargimenti di sangue, con morti che non sarebbero più risorti: tutto “sangue risparmiato”.
È dunque possibile una resistenza non violenta, meramente passiva o intelligentemente attiva e nondimeno efficace, che non faccia ricorso alle armi e alla guerra, come ha dimostrato l’esempio di Gandhi, come han sostenuto Tolstoj e, in Italia, Aldo Capitini, Giuseppe Gozzini (il primo cattolico obiettore finito nel 1962 in galera per aver rifiutato il servizio militare) e l’ingiustamente dimenticato Carlo Cassola. In merito mi pare profondamente umana una lettera che è stata pubblicata su Avvenire nel mese di ottobre, con la quale mi sento di consentire: «Mi sono chiesta: se fossi un’ucraina, che cosa penserei e che cosa direi a Putin? “Ma infine, quanta terra serve a un uomo?. Due metri x 0,50 e qualche palata di zolle, così per tutti. Allora caro Putin sai che ti dico? Prenditi la mia terra, io cercherò altra terra dove gettare semi di grano, di mais e di girasole e a ogni nuova stagione vedrò nascere gli steli, germinare l’orzo, sentirò di nuovo frusciare le spighe e le pannocchie al vento dell’estate e seguirò la danza dei girasoli sotto la calda luce di luglio. I miei bambini dimenticheranno la paura e alzeranno lo sguardo verso cieli sereni e azzurri, non più grigi di polvere e di fumo; i loro occhi cercheranno di nuovo il ritorno delle cicogne e non sentiranno più il cuore battere forte per gli scoppi dei razzi, dei missili e per il rombare dei carri armati. E non piangeremo più per giovani soldati morti, per gli amici perduti, le famiglie divise, le case distrutte. Prenditi la nostra terra, ma non potrai toglierci i ricordi, le tradizioni, i costumi, gli inni e le nostre canzoni; saremo sempre figli della nostra patria e un giorno futuro torneremo con i nostri figli e dirò loro: ecco, questa era la casa dei nonni, la scuola dove ho studiato, il campo dove giocavo, la chiesa dove mi sono sposata… Ma saremo vivi e avremo molte cose da raccontare e un futuro di speranze dopo un passato di paura e di dolore. La pace può anche richiedere un sacrificio presente, ma se diventa obiettivo di tutti può diventare un domani di ricostruzione e di vita nuova. Un sogno impossibile? Un pensiero irrealizzabile? Forse. Ma parte da una realtà indiscutibile: quanta terra serve a un uomo?”».
Ma v’è una seconda considerazione da fare: la possibile reazione o resistenza a un’aggressione deve essere commisurata a un cauto e ben meditato calcolo costi/benefici. Se il non resistere, l’essere arrendevoli o addirittura la resa hanno come conseguenza un numero di vittime superiori a quelle che si avrebbero in caso di resistenza attiva, allora quest’ultima sarebbe giustificata: è, ad esempio, il caso di episodi come il genocidio del Ruanda, in cui l’intervento militare è stato preferibile al massacro della popolazione per motivi etnici. È il dilemma in cui si sono spesso trovati molti ufficiali o comandanti quando si è trattato di decidere se era meglio perdere un certo numero di uomini per resistere a un’aggressione o piuttosto evitare di rischiare la vita dei propri uomini, ma a costo di prevedibili o ben maggiori massacri. Insomma, meglio sacrificarne pochi, che vederne morire molti, specie se questi ultimi sono civili. Non si tratta con ciò di invocare la “guerra giusta” (ormai rifiutata persino dalla Chiesa); né ha senso sostenere che “non c’è pace senza giustizia”, così come in molti oggi declamano (c’è persino un’associazione con questo nome diretta da Emma Bonino) pensando di dire qualcosa di profondo e vero. Ci si collocherebbe così su di un terreno molto sdrucciolevole: la “giustizia” è un concetto assai equivoco, perché ogni guerra pare giusta a chi la combatte; e lo è sempre se si è risultati vincitori; nessuna delle parti contendenti in un conflitto è disposta ad ammettere di essere dalla parte del torto e non acconsentirà mai di essere ritenuta la (sola) responsabile di quanto accaduto. Richiedere la giustizia come condizione preliminare per la pace o addirittura per il cessate il fuoco vuol dire far sì che la guerra possa cessare solo con la disfatta totale di uno dei contendenti, perché nessuna delle due parti accetterebbe a dichiararsi colpevole e quindi ad arrendersi allo scopo di rendere possibili le trattative di pace. E a questo punto, la sola giustizia possibile sarà quella dei vincitori e dei loro tribunali. Questa idea che si possa stabilire in modo assoluto se una guerra sia giusta o meno è una ulteriore manifestazione di quella hybris tipica di certe culture, le quali sono così accecate dalla propria presunta superiorità da pensare di essere in possesso dello sguardo di Dio, che discrimina con la sua onniscienza il bene e il male. Ma ogni giudizio di bene e male parte da una certa prospettiva, è storicamente contestuale ed è inevitabilmente definito all’interno di correlazioni tra eventi, tradizioni, prospettive e visioni del mondo. Non si può neanche procedere a una semplice imputazione causale (a prescindere dal giusto/ingiusto) con l’additare una delle due parti, o un certo evento, come la causa scatenante la guerra che, se non la giustifica, almeno la spieghi. Perché, come sa chiunque sia venuto a conoscenza delle faide familiari o della ostilità tra tribù, etnie, popoli e culture, la catena degli eventi si allunga sempre più all’indietro e non si trova mai il caso scatenante, la maglia iniziale che ne spieghi l’origine; essa si perde nel fondo oscuro della storia, sino a risalire ad epoche assai lontane, sulle quali è impossibile avere una chiara informazione e documentazione.
Questi, in estrema sintesi, i motivi per i quali sostengo un pacifismo radicale, che non ammette alcuna giustificazione per la violenza e la guerra, se non nell’unico caso prima discusso; questo pacifismo – quando scoppia comunque un conflitto – fa di tutto per arrivare a un cessate il fuoco, senza entrare nel merito dei torti e delle ragioni, ma al solo scopo di intavolare trattative di pace, possibili soltanto a condizione che non siano punitive per nessuno dei contendenti (o che almeno tali appaiano a ciascuno di essi e all’opinione pubblica del suo paese). La pace non è possibile conseguirla alimentando la guerra o richiedendo come sua condizione preliminare la giustizia. Il discorso va capovolto: non è possibile giustizia, senza che vi sia la pace: è quest’ultima ad essere la precondizione affinché si possano risolvere le questioni con giustizia, che è sempre il frutto di un compromesso – a seguito di una discussione internazionale e ad accordi garantiti dalla comunità degli Stati (possibilmente l’ONU, se ha ancora qualcosa di utile da fare) e quando gli animi si siano raffreddati, i danni riparati, le persone restituite a una condizione di vita pacifica, gli odi reciproci siano sedimentati. Bisogna avere la pazienza di aspettare e intanto risanare le ferite, ponendo così le premesse non certo per far trionfare la Giustizia, ma per raggiungere un compromesso che permetta la convivenza senza la necessità di reciproca violenza. Pensare il contrario – che non c’è pace senza giustizia – significa mettere il carro davanti ai buoi.
Non c’è mai stata la guerra “definitiva” e la pace raggiunta con la decisione delle armi non è mai stata per sempre. Essa porta sempre con sé strascichi, odi, rancori, desiderio di rivalsa; a meno che il vincitore non riesca ad annientare l’avversario, sterminandone la popolazione o mettendolo non più in grado di risollevarsi, come ben sapevano fare i romani, che da questo punto di vista erano spietati e non lasciavano possibilità di rinascita a chi aveva mosso loro guerra o aveva resistito con le armi al loro dominio (come avvenne con Cartagine e gli ebrei). Ma a chi ancora oggi coltiva lo spirito di Masada, non è lecito pensare che anche le persone che non lo nutrono possano essere sacrificate in suo nome. A questa prospettiva c’è un solo rimedio: solo un conseguente, radicale ma al tempo stesso pragmatico pacifismo.