1. Proprio del sentiero della pace – del dèrekh shalòm, della hodós eirénes –, secondo il significato che gli attribuiscono il profeta Isaia (Is 59, 7-8) e Paolo di Tarso (Rm 3, 17), è la sua irraggiungibilità con i soli mezzi a disposizione degli uomini, ovverosia senza il sostegno della fede, della pístis. Questa irraggiungibilità si deve soprattutto alla sua irriconoscibilità, derivante dal fatto che gli uomini vivono in quella singolare condizione per la quale, paradossalmente, pur essendovi già, pur trovandosi già nelle sue vicinanze, nemmeno se ne avvedono. La stessa cosa accade alla loro vita, che vivono e consumano senza rendersi conto quasi mai di esistere. Possiamo immaginarci un tale sentiero della pace come la “via principale” che è al centro del quadro di Paul Klee Hauptweg und Nebenwege (Via principale e vie secondarie, 1929), poiché anche l’Hauptweg, come il sentiero della pace, passando tra innumerevoli Nebenwege, nella selva delle strade secondarie, le incrocia e quasi si confonde con esse. Perché queste hanno qualcosa che le fa assomigliare a quella, come fossero delle copie ridotte di quella. Questa miriade di viuzze sono quelle in mezzo alle quali da sempre vivono e si dimenano gli esseri umani, spinti da un incessante impulso. Attendono tutti affannosamente a una ricerca continua e ineludibile, cercando qualcosa che sembrano aver perso sin dalla nascita e verso cui inevitabilmente tendono. Si potrebbe dire che sono mossi da un desiderio di pace. Ciò significa che questo sentiero non si trova affatto fuori dal mondo, lontano dalla vita quotidiana degli uomini, ma attraversa la loro concreta esistenza di tutti i giorni. È un sentiero assolutamente intramondano. È il sentiero principale della pace eterna nella quale confluiscono e dalla quale defluiscono, direttamente o indirettamente, tutti i sentieri secondari e temporali, dai quali gli uomini lottano per raggiungerlo. Eterna perché essa perdurerà quando il genere umano si sarà gradatamente estinto nel tempo di quella ostinata ricerca. Eppure, malgrado essa sia sempre così vicina alla loro vita, e nonostante sia alla loro portata, gli uomini continuano a ricercarla, ispirati come sono da un’idea di pace della quale però non riescono a riconoscere dinanzi a loro una qualsiasi realizzazione. Vi faceva cenno a suo modo anche Hölderlin in Patmos: «Vicino / E difficile da comprendere è il dio (Nah ist / Und schwer zu fassen der Gott)». E ciò a conferma non solo della inconoscibilità, della irriconoscibilità e quindi dell’irraggiungibilità di quel sentiero, ma anche del fatto che, a detta di molti – Isaia, Paolo, Lutero, Hölderlin appunto, Novalis, Leopardi, Husserl, Freud, Lacan, Heidegger – è sempre quello che ci è fin troppo vicino che ci sfugge e che ci rimane ignoto.
2. La pace sembra essere dunque ciò cui ognuno da sempre maggiormente aspira sulla Terra. Ad esempio, tutti i grandi capi di Stato, presi singolarmente o riuniti attorno a un tavolo, non promettono forse di impegnarsi per garantire la pace nel mondo? Da soli o insieme, davanti a un microfono, con una mano sulla Bibbia e l’altra sulla Costituzione, non dichiarano tutti quanti di volersi incamminare lungo il difficile sentiero della pace? Eppure ancora oggi, paradossalmente, come al tempo di Isaia e di Paolo, nonostante tutte le loro buone intenzioni e i loro sforzi, non sembra esserci altro modo di avviarsi per quel sentiero se non allontanandosene. Alla maniera dei gamberi. Lo ricordava anche Salvatore Natoli in un suo breve testo del 2006 (Sul male assoluto. Nichilismo e idoli del Novecento) che egli stesso definisce «prolegomeni a un’etica del finito» e nel quale propone una «filosofia della custodia». Egli, come già Ibsen a suo tempo, mette in luce una delle contraddizioni politiche della modernità: «La politica» ‒ scrive in modo cristallino ‒ «in quanto ambisce al bene – pubblico e comune – non può essere disgiunta dal male che spesso rischia di praticare e non di rado in nome del bene. […] Tutti gli uomini, infatti, vogliono la pace, ma praticano la guerra e, per giunta, in nome della pace». Contraddizione che lo stesso Novalis, nel 1799, in Die Christenheit oder Europa, ben prima quindi di Adorno e Horkheimer, aveva colto nell’Illuminismo e nel suo organo principale, l’intelletto, il Verstand. Sembra infatti che quanto più ci si sforzi con esso di giungere a quella benedetta e veracissima strada della pace e dell’essere e tanto più ci si scopre impotenti e smarriti in cammino su quella opposta, su quella maledetta e fallacissima via della guerra, della Verwirrung, della confusione e del non essere. Come se questa Verwirrung, che è radice della War, della guerra, avesse in sé il potere malefico di rendere verwirrt, confusi e perplessi, tutti coloro che avanzano con intenzioni pacifiche. Sicché più si sogna e si spera di incamminarsi sul sentiero della pace recando in mano tutti insieme un ramoscello d’ulivo e più queste stesse mani grondano sangue. Nel corso del secondo dopoguerra, ad esempio, per poter mantenere quel barlume di pace tra le due superpotenze, si dovette ricorrere alla guerra fredda, la quale presupponeva però lo sviluppo e la produzione di ordigni nucleari. Eppure, paradossalmente, a fronte degli effetti nefasti prodotti dall’attuale globalizzazione, quel periodo postbellico, in cui il mondo ruotava all’ombra del muro di Berlino e in cui le grandi repubbliche garantivano la coesistenza di diverse etnie e religioni, viene guardato da taluni quasi con nostalgia. Tutto il mondo globalizzato oggi rientra nell’unico sistema disponibile. Di conseguenza, se per qualsiasi motivo tale sistema entra in crisi (politica, economica, finanziaria, petrolifera, energetica, climatica ecc.), a pagarne le conseguenze saranno tutti. Anche se non tutti nello stesso modo. Nei settantasette anni di relativa pace (almeno in Europa) tutto era stato democraticamente interconnesso. Ma proprio questa interconnessione globale ora, in tempo di guerra, appare un pericolo. Nel caso dell’attuale guerra in Ucraina, oggi, come nel 1914, più che gli aspetti positivi essa, questa terza guerra mondiale, mostra quelli tragici, perché si corre il rischio dell’effetto domino. Sembrerebbe assurda pertanto l’opinione di chi afferma che «dalla guerra si può solo imparare a fare la pace».
3. Anche volendo, quindi, a causa di questo globale e perverso sistema di cose, «non c’è chi faccia il bene, neppure uno» (Salmi 14, 3; Rm 3, 12). Anche i più giovani, purtroppo, non sfuggono oggi alla perversione di un tale sistema. Il fenomeno del bullismo e delle gang violente – di nuovo pronte per essere sfruttate ad ogni utile evenienza – è solo uno dei più visibili aspetti dell’agnosia regressiva. Le parole degli adulti, all’apparenza convincenti, perché ispirate alla giustizia, alla libertà, alla pace e soprattutto alla sicurezza, si rivelano alla fine solo un guinzaglio, una trama che irretisce. Esse, proprio mentre promettono e giurano dinanzi al mondo di dire la verità, non appena entrano in contatto con la realtà si rivelano false e ingannevoli. La lingua di questi uomini adulti e “responsabili” è pertanto bifida e generatrice di equivoci, proprio come quella dei serpenti. Convinti e convincenti riguardo all’aver imboccato la giusta via, la via del bene, della pace e della democrazia, ben presto tuttavia sotto i loro piedi veloci e avidi di vittoria, la strada si inonda di sangue. E così, persuasi di recare il bene e la pace, alla fine si smarriscono inesorabilmente in una Verwirrung, in una guerra, in un errore-erranza-erramento senza fine, trascinandosi dietro il mondo intero, considerato come una palla da far girare a loro piacimento, nel verso che più fa comodo in quel momento, secondo la convenienza. Pur con tutte le buone intenzioni, i loro eserciti si mettono sempre in marcia alla volta dell’hodós eirénes, dell’Hauptweg, della via principale della pace eterna. Ma proprio a causa dell’ambiguità delle loro parole e pertanto dei loro pensieri e delle loro azioni, a causa della duplicità della loro stessa vita e del loro sistema perverso, mossi da un impulso irrefrenabile alla massima performatività e al massimo guadagno, col quale vedono accrescere anche il loro potere, essi finiscono sempre con l’eccedere, con il superare, con l’andare oltre quel sentiero, perché, presi e soggiogati da altro, non sanno riconoscerlo, non possono riconoscerlo, e quindi ancora una volta lo ignorano. Così infatti sentenziavano Isaia e Paolo: «il sentiero della pace lo ignorarono», dérekh shalòm lo’ iad‘àu; kaì hodòn eirénes ouk égnosan. D’altronde, Paolo l’aveva già detto chiaramente nella più antica delle sue lettere, quella ai Tessalonicesi: «Quando diranno “pace e sicurezza” (eiréne kaì aspháleia), proprio allora improvvisa sopraggiungerà su di loro la rovina […] e non potranno sfuggirvi» (1 Tes 5, 3).
4. Il motivo per cui, dunque, senza la fede risulta impossibile accorgersi di essere sulla buona strada, nelle vicinanze o almeno in cammino verso il sentiero della pace, dipende, come si è visto, dal fatto che la ragione – checché ne pensi Lukács – non è in grado kat’anthropon, cioè con le sole facoltà dell’ánthropos, di giungere al dèrekh shalòm, e non perché non voglia arrivarci. Anzi: tutti i suoi sforzi sono protesi verso questo scopo. Soltanto che essa, questa ragione, strutturata com’è sulle categorie dell’intelletto, non lo può né conoscere né riconoscere. Questo il senso delle parole di Isaia e di Paolo, parole che soprattutto Novalis, studioso Kant, è riuscito a chiarire in un passo dei Discepoli di Sais, evidenziando al contempo la contraddizione interna all’intelletto, al Verstand. Per questo motivo, oltre alla fede, per facilitare gli uomini nel riconoscimento e nel raggiungimento dell’hodós eirénes, Paolo indica la «via per eccellenza» (hyperbolén hodón), la via dell’agápe (1 Cor 13, 1-3), la via dell’amore. Perché nemmeno la fede senza l’amore, secondo lo spirito della prima Lettera ai Corinzi, sarebbe capace di rintracciare quel sentiero. Non tutti gli “irrazionalismi”, infatti, si potrebbe dire al filosofo ungherese, sono distruttivi della ragione, specie quando servono a correggerla e a farla retrocedere dall’abisso. Una ventina di anni fa quell’immagine dell’hodós eirénes e l’insieme dei versetti della Lettera ai Romani in cui compare (Rm 3, 10-17) mi avevano immediatamente impressionato e oggi continuano ancora a scuotermi non solo per il tono rigoroso e reciso, ma anche perché tali passi esprimono giudizi e rimproveri categorici valevoli per ogni epoca e quindi anche per la nostra, da tempo precipitata nella triste miseria dell’illusione di benessere, di pace, di giustizia e di libertà. Nel 2008, quando, ancora sotto l’influenza della guerra in Iraq e in Afghanistan, sviluppavo queste idee attorno all’immagine del sentiero paolino della pace, la crisi economico-finanziaria non era deflagrata in tutta la sua distruttività. Ma se ne potevano avvertire ben chiari i prodromi minacciosi, i brontolii cupi e lampeggianti, simili a quelli che precedono l’abbattersi di una tempesta. Il mondo infatti andò presto in default, nel senso che verificò che il suo progresso e la sua ricchezza erano solo apparenti, perché fondati sul debito. Come ben sappiamo, senza aver avuto il tempo di riprendersi, su di esso una decina di anni dopo si è abbattuta l’odiosa mannaia divisoria della pandemia, dentro la quale, come una scheggia nella carne viva, si è conficcata la folle risposta espansionistica russa all’espansionismo statunitense. Il sentiero della pace è sempre a portata di mano, ma a causa delle incomprensibili ragioni degli uomini risulta lontano anni luce. In quest’“ultima” guerra in Ucraina ce lo rammentano con rinnovato stupore e orrore anche gli accenni ammonitori alle pratiche disumane di Auschwitz.
L’articolo è la riproposizione, rivista e aggiornata, di alcune parti della Introduzione al saggio Hodós eirénes. Il “sentiero della pace” nelle lettere paoline, scritto nel 2008 e pubblicato nel 2019. Parte di quella Introduzione era a sua volta apparsa sulla rivista Testimonianze [novembre-dicembre 2008, n. 6 (462)] con il titolo Il sentiero della pace in San Paolo.